Blog - Crediti


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27 ottobre 2010



LIBRI DI CINEMA

Ultimamente ho ricevuto sei nuovi libri di cinema, cinque inviati gentilmente da Francangelo Scapolla, proprietario di Le Mani, casa editrice genovese ormai ben conosciuta fra gli editori specializzati. Ed uno fattomi pervenire da Enrico Lancia, uno dei tre autori (gli altri sono Massimo Giraldi e Fabio Melelli), di un’opera intitolata “Cento caratteristi del cinema americano”. Per scrupolo indico anche l’editore, Gremese, che cesserò di menzionare ulteriormente.
Il libro di Lancia, Giraldi e Melelli è, per una certa generazione di spettatori (alla quale io appartengo), quasi commovente.



I cento caratteristi menzionati nel titolo rappresentano la parte forse più toccante del cinema americano come abbiamo imparato a conoscerlo, almeno nel corso degli ultimi 50 anni. Notoriamente la storia hollywoodiana è, innanzi tutto e prima di tutto, una storia di facce. Una storia di primi piani, equamente divisi fra protagonisti e caratteristi, che da soli riassumono migliaia di film e milioni di sollecitazioni della memoria e del cuore. Ritrovarli tutti insieme costituisce un momento decisivo del nostro passato e quindi della nostra vita. Ognuna delle cento voci implica una ricerca accuratissima e la citazione di un numero infinito di film: si vede che i tre autori hanno passato buona parte della loro esistenza nelle sale oscure; solo grazie a questa vocazione, che risale sicuramente all’infanzia o alla prima giovinezza, è stato possibile concepire e poi realizzare il libro. Come dicevo l’elenco dei cento caratteristi (si comincia con Danny Aiello e si finisce con Gerald Tommaso De Louise, ovvero Burt Young, cioè Paulie Pennino, l’amico e allenatore di Stallone in tutta la saga di “Rocky”) costituisce da solo una sorta di manifesto programmatico del grande cinema americano del passato. Citando alla rinfusa vi ritroviamo Eddie Albert e Alan Arkin, Martin Balsam e Ward Bond, Lee J. Cobb e Elisha Cook jr., Jane Darwell, che apprendiamo chiamarsi in realtà Patti Woodward, e Marie Dressler, Jack Elam e James Gandolfini, Sidney Greenstreet e Peter Lorre, Donald Meek e Thomas Mitchell, e via citando, in una splendida galleria di volti e di nomi, ognuno dei quali evoca un intero film. Per continuare l’elenco in ordine alfabetico troviamo ancora, a casaccio, Karl Malden e Robert Morley, Joe Pesci e Claude Rains, Thelma Ritter, Everett Sloane e Jack Warden, Clifton Webb e James Withmore, giusto per il piacere di riportare nomi familiari e volti decisivi che hanno descritto un secolo intero con l’intensità di una Galleria degli Uffizi. In sostanza è un libro utilissimo.
Costa 35 euro, è arricchito da centinaia
di bellissime foto, da indici molto precisi e da una postfazione che cita anche tutti i grandi caratteristi, da William Bendix a Lionel Stander, da John Carradine a Jimmy Durante, da Adolphe Menjou a Nigel Bruce e Basil Rathbone, per i quali si è dovuto rinunciare ad una voce singola.
E’ un libro per gli appassionati e agli appassionati lo raccomando.

Cambiando editore, i cinque libri inviatimi da Le Mani sono, citandoli senza nessun ordine, “Halloween, dietro la maschera di Mike Myers” (14 euro) di Massimo Causo e Davide Di Giorgio, “Psycho & Psycho” (15 euro) di Massimo Zanichelli, “Elephant Man, l’eroe della diversità” (15 euro) a cura di Gabriele Mina, “Italoamericani, tra Hollywood e Cinecittà” (15 euro) di Flaminio Di Biagi e, infine, l’autorevolissimo “Horror” (18 euro) di Renato Venturelli. Si tratta di una nuova edizione aggiornata di quella apparsa nel 1994 e ristampata nel 2002. Venturelli, critico cinematografico de “Il Lavoro”, edizione genovese de “La Repubblica”, cura “Cinema & Generi”, pubblicazione annuale sul cinema di genere edita sempre da Le Mani, e da poco tempo è il successore di Piero Pruzzo alla direzione di “Film DOC”. Renato ha anche scritto altri due libri della serie monografica specializzata di Le Mani “Poliziesco americano in cento film” (1995) e “Gangster in cento film” (2000). La sua opera forse più impegnativa è “L’età del noir. Il cinema criminale americano 1940-1960”, apparso da Einaudi nel 2007. E’ un’opera di rara importanza, frutto di un enorme lavoro di censimento e di una specializzazione al tempo stesso devota e brillante. Nonostante il carattere minutamente specialistico ha avuto un tale successo che Einaudi ha richiesto un seguito, che dovrebbe apparire entro la fine dell’anno prossimo. Qui in particolare l’intenso lavoro di aggiornamento e di allargamento praticato da Venturelli trova una conferma nella parte introduttiva del libro, che si articola nei seguenti capitoli: 1. Evoluzione dei generi -2. Alle radici dell’horror – 3. Nascita e consolidamento – 4. La nouvelle vague dell’orrore – 5. Una cultura dell’horror – 6. Rifondazione dell’horror – 7. Il ’68 dell’horror – 8. Horror e post-moderno – 9. Global horror. L’elenco dei film inizia con la scheda de “Il gabinetto del dottor Caligari” di Robert Wiene, del 1919, e termina con quella di “Drag me to hell” di Sam Raimi, del 2009. Ci sono naturalmente anche i doverosi indici e una bibliografia di tre pagine che mi sembra considerevolmente ricca. Ci sono evidentemente nel libro, in omaggio alle tradizioni dell’editore, molte fotografie di manifesti di film che ribadiscono anche visivamente la tenace vocazione specialistica di Venturelli. Il libro allinea tante diverse tendenze dell’horror, perché dai film più apertamente “orrorifici” (da “Freaks” a “L’isola degli zombi”, da “Il mostro della Laguna Nera” a “La maschera di sangue”, per citare alcuni titoli molto amati dagli appassionati del genere), si trascolora poi in opere di più larga fruizione, come “L’occhio che uccide” e “Psycho”, “Gli uccelli” e “L’esorcista”, “Lo squalo” e “Shining”. Come accade con tutti i libri di Venturelli è un’opera utilissima, dove la ricerca minuta dell’appassionato si sposa all’eleganza divulgativa tipica della miglior tradizione del giornalismo di alto livello.
Degli altri quattro libri, il più apertamente fruibile come opera di consultazione è sicuramente il già ricordato “Italoamericani” di Flaminio De Biagi. L’enorme apporto degli oriundi alla creazione e alle creazioni di Hollywood è riassunto molto eloquentemente nel libro e a ribadirlo basta l’elenco principale dei capitoli: “Gli italoamericani sugli schermi di Hollywood”, “Gli italiani a Hollywood”, “Il primo esempio” (cioè quello di Rodolfo Valentino), “Il cinema muto”, “Anni Trenta e Quaranta”, “La Guerra”, “Anni Quaranta e Cinquanta”, “Anni Sessanta, “Anni Settanta”, “Anni Ottanta e Novanta”, “Ai giorni nostri” e “Conclusioni”. Una seconda parte del libro riguarda temi più specifici, da quello molto ricco degli italoamericani sugli schermi di Cinecittà alle varie articolazioni di tempi e di sfondi che vanno dal periodo muto sino ai giorni nostri.
Questi due libri, e gli altri tre prima citati (tutti e cinque sono editi nel 2010), costituiscono una riprova della agilità e del coraggio con cui si muove, nel panorama dell’editoria propriamente cinematografica, un uomo d’affari intraprendente e appassionato come Francangelo Scapolla. Essendo anche il mio editore non posso tessere troppe lodi di lui, ma credo onestamente che se le meriti tutte.


Claudio G. Fava


elenco delle foto, in senso orario da sinistra a destra: Hattie McDaniel (con Vivien Leigh), Jackie Oakie, Walter Huston, Donald Meek, Sidney Greenstreet, Eugene Pallette, Marie Dressler, Jane Darwell, "Dame" May Whitty, più in basso a sinistra la pietra tombale di Vincent Gardenia e della famiglia Scognamiglio (dalla quale sembrerebbe di poter dedurre che, dopo Scognamiglio, Gardenia sia il secondo cognome della famiglia) e sotto Vincent Gardenia, Ward Bond, Thomas Mitchell e infine Peter Lorre.


battute testo:7.190

21 ottobre 2010

DON MARIO E SIR ROGER


Mi ha fatto molto piacere il conferimento del bizzarro premio Nobel (lo ha ricevuto anche Dario Fo) a Mario Vargas Llosa, autore di cui ho letto poco in proporzione alla vastità dell’opera. Ma che mi ha sempre incuriosito, grazie alla varietà delle intrecciate esperienze di vita. Nato peruviano, credo sia cresciuto in Bolivia ed è stato largamente gauchiste in gioventù (al tempo dei suoi entusiasmi per Castro). Candidato di centro-destra alla Presidenza del Perù nel 1990 contro il misterioso oriundo giapponese Fujimori, si è via via convertito ad un esplicito liberalismo, continuando a scrivere, senza esitazioni e senza interruzioni, un’opera romanzesca molto ampia per ambizioni e dimensioni, che già da molto tempo lo aveva reso un candidato automatico al Nobel. Ha viaggiato ininterrottamente nel mondo, ha soggiornato a lungo a Madrid e a Parigi (ove è diventato amico di Sartre), adesso abita a Londra e dopo la sconfitta in Perù è ha ottenuto la cittadinanza spagnola, quasi a ribadire la sua fisiologica ispanità di sud americano non meticcio. Mi ha molto colpito il fatto che sia apparso un suo libro (in Italia verrà edito da Einaudi nel maggio 2011) intitolato “Il sogno del celta” che, in originale si intitola “El sueño del celta” e comincerà ad essere venduto in lingua spagnola nelle librerie a partire dal Novembre di quest’anno. E’ incentrato su un personaggio minore che mi ha sempre intrigato ed interessato, Sir Roger Casement, un ex-diplomatico britannico di padre protestante ma di madre nascostamente cattolica, che nei primi anni della guerra mondiale si convertì in modo totale alla causa irlandese. Come è noto, a coronamento di un complesso periodo di lotte e di alleanze, gli irlandesi, in genere cattolici, che desideravano l’indipendenza dell’isola e il suo totale distacco dall’Inghilterra, avevano dato vita ad un esercito clandestino che si preparava ma mano alla esplicita lotta armata. E’ un tema di largo interesse e in genere poco conosciuto dagli italiani, che andrebbe approfondito ma per il quale qui non ho spazio. Mi limiterò a ricordare che, a coronamento di una lotta di un’intera generazione, ebbe inizio a Dublino il 24 Aprile del 1916, lunedì dopo Pasqua, una rivolta armata a cui parteciparono inizialmente circa 1.500 fra uomini e donne e che provocò poi una repressione feroce, conosciuta nei libri inglesi di storia come “The Easter Rising” o “The Easter Rebellion”. Qualche anno dopo, pressappoco all’inizio degli anni Venti, iniziò la guerra di liberazione propriamente detta. Nel 1916, ormai da due anni, imperversava la guerra con la Germania, nella quale morivano nelle trincee di Francia migliaia di giovani, compresi anche molti irlandesi. I più coerenti tra gli insorti, visto che anche loro erano in guerra con gli inglesi, avevano deciso di prendere contatto con il governo tedesco per trarne ogni possibile aiuto. In realtà, quando avvennero i primi contatti, tra l’Aprile e il Luglio 1915, le autorità tedesche nei confronti degli insorti si comportarono inizialmente con freddezza se non addirittura con sospetto. Alla fine, dopo lunghe trattative, si arrivò tuttavia ad un accordo “in base al quale la Germania, in cambio del proprio sostegno logistico e militare alla rivolta, avrebbe ottenuto il libero accesso ad una serie di basi navali lungo la costa irlandese. Tutto quanto fu in grado di fornire fu invece un carico di 20.000 fucili catturati alla fanteria zarista. Il carico non raggiunse però la propria destinazione perché venne intercettato, nei giorni immediatamente precedenti alla rivolta, dalla Marina Britannica”. Qui si innesta il tragico apporto personale di Sir Roger Casement, il quale anni prima, nel 1903, quando era console di Sua Maestà a Boma, in quello che divenne poi il Congo Belga, si era conquistato una notevole fama documentando la crudeltà e la ferocia verso gli indigeni di cui avevano dato prova i coloni belgi appoggiati dall’autorità di Leopoldo II, soprattutto quando quell’immenso territorio faceva ancor parte della proprietà privata del sovrano e non si era mutato in una colonia vera e propria. Un suo minuzioso rapporto, The Casement Report, apparve nel 1904. Lo scandalo che ne seguì ebbe larga notorietà in diversi paesi europei, e il parlamento inglese prese vivamente posizione al riguardo. In Belgio i socialisti guidati da Emile Vandervelde costrinsero il re Leopoldo nel 1905 a dar vita a una commissione indipendente d’inchiesta che nella sostanza dette pienamente ragione a Casement. In conseguenza di ciò il 15 novembre 1908 il parlamento belga fece confluire i beni privati di re Leopoldo in Congo in una colonia amministrata dallo stato. Con la stessa intransigenza morale di cui aveva dato prova nelle colonie, Sir Roger si comportò quando venne inviato in America Latina, ove diventò console generale a Rio de Janeiro. In quel periodo egli riuscì a documentare la crudeltà con cui venivano trattati gli indios Putumayo, a cavallo fra il Perù e la Colombia, soggetti alla feroce autorità della compagnia britannica Peruvian Amazon Company, grande società specializzata nella produzione della gomma. Sir Roger riuscì a dimostrare che la Amazon sottoponeva gli indigeni ad un regime durissimo, in cui la fustigazione rappresentava un abituale meccanismo di oppressione. Per la seconda volta egli realizzò un lodevole esempio di operoso intervento in difesa di popolazioni oppresse. Al punto che nel 1911, pur riluttante, fu nominato Knight Bachelor dal re Giorgio V. Egli si ritirò dal servizio consolare nel 1913 e pressappoco in quel periodo si convertì alla causa irlandese, persuaso che il dominio britannico sull’isola fosse totalmente ingiustificato e nella sostanza crudele. Nel 1914 egli si era recato negli Stati Uniti per raccogliere fondi per i cosiddetti Volounteers cha affiancavano la IRB, Irish Republican Brotherhood, per organizzare la lotta contro gli inglesi. Cerco di semplificare la materia che è complessa: già nell’agosto di quello stesso 1914 Casement ed un altro esponente degli indipendentisti irlandesi, John Devoy, si incontrarono a New York col più alto diplomatico tedesco in loco, il conte Von Bernstorff, per proporgli quel piano di alleanza a cui ho accennato prima: se la Germania avesse venduto armi ai ribelli irlandesi e fornito consulenti militari, questi ultimi avrebbero iniziato una rivolta contro l’Inghilterra bloccando truppe e risorse fra quelle da inviare contro i tedeschi. In seguito all’incontro il presidente del “Clan na Gael”, John Kenny, non poté parlare con il Kaiser ma l’incarico di riceverlo fu curiosamente devoluto all’ambasciatore tedesco in Italia, Von Flotow, ed al suo sostituto, il principe Von Bülow. In ottobre lo stesso Casement andò in Germania passando dalla Norvegia. Cercò di reclutare nei campi di prigionieri inglesi una “Irish Brigade”, senza molto successo perché tutti gli irlandesi che combattevano nell’esercito inglese erano volontari. Nonostante il loro scetticismo, i tedeschi offersero ventimila fucili e dieci mitragliatrici con i proiettili, ma nessuna collaborazione da parte di ufficiali imperiali. Tuttavia le rami tedesche non raggiunsero mai l’Irlanda, malgrado che la nave tedesca che doveva trasportarle fingesse di essere norvegese e quindi neutrale. Alla fine lo stesso Casement si imbarcò su un sommergibile tedesco, l’U-19, venne condotto sulle coste irlandesi a Panna Strand nella contea del Kerry e successivamente individuato dagli inglesi e arrestato. Processato per tradimento, fu impiccato a Londra nella Pentonville Prison il 3 agosto 1916. Mentre aspettava l’esecuzione venne accolto nella Chiesa Cattolica e poté fare la comunione. Molti intellettuali inglesi intervennero in suo favore chiedendo un atto di clemenza. Fra di essi “l’inventore” di Sherlock Holmes, Sir Arthur Conan Doyle, il poeta W. B. Yeats, premio Nobel nel 1923, e George Bernard Shaw.

Potrei continuare a lungo ad occuparmi di Sir Roger Casement, ma non vorrei risultare troppo noioso. Ne faccio cenno qui perché si può dire che fa parte dei miei fantasmi sin dalla mia prima giovinezza. Credo di averne sentito “parlare” per la prima volta in uno dei molti libri sullo spionaggio scritti da un giornalista fascista minore, ma curioso, Italo Sulliotti, nato e cresciuto a Porto Maurizio, figlio di un magistrato sardo. L’ho conosciuto bene, per tanti motivi e perché è stato mio direttore per molti anni alla “Gazzetta del lunedì” (si tratta di una invenzione giornalistica genovese, e cioè di un settimanale con la forma e le caratteristiche grafiche di un quotidiano, che uscì autonomamente per anni e che esiste ancor oggi ma come settimo numero del “Corriere mercantile”). Sulliotti meriterebbe un elzeviro a parte, e non è escluso che, un giorno o l’altro, io lo scriva. Mi limiterò qui a dire che, dotato di quella facilità retorica di scrittura tipica dei liceali della sua epoca (era nato intorno al 1892/93), doveva trovare nel fascismo una tribuna ed uno sfogo naturali. Entrò nel giornalismo prima della Prima Guerra Mondiale, durante il conflitto fu propagandista per conto del Ministero degli Esteri e poi inviato speciale in Marina, durante il fascismo divenne, fra l’altro, ispettore dei Fasci italiani all’estero e, cosa a cui lui teneva moltissimo, per cinque anni direttore di un settimanale parigino, “L’Italie nouvelle”, scritto in francese ma di fatto rivolto ad una platea fascista o filo-fascista e pagato dal nostro Ministero degli Esteri. Il suo predecessore si chiamava Nicola Bonservizi, ed era stato ucciso a Parigi da un fuoriuscito italiano. Sulliotti, che non mi parve mai molto coraggioso, di Bonservizi parlava poco, ma della sua esperienza parigina parlava molto e con entusiasmo. Spesso iniziava il suo discorso dicendo: “… nei miei cinque anni di Parigi …” giusto per ribadire quella naturale inclinazione alla Francia che era allora così diffusa fra i liguri di Ponente e che conviveva con lui con una istintiva fascinazione per un paese che era tutto sommato una democrazia, ma che poi doveva deprecare per obbedienza fascista. Ripeto, potrei scrivere di lui a lungo, rievocando i suoi tic e le sue allusioni politiche. Ma credo che lo farò un’altra volta. Qui l’ho citato soprattutto per ricordare che è stato in uno dei suoi libri che, poco più che bambino, ebbi occasione di trovare un’esplicita rievocazione della tragica avventura di Sir Roger, che Sulliotti descriveva come se fosse stata conosciuta da tutti (e forse all’epoca lo era). I suoi libri conobbero un notevole successo. Erano generalmente rievocazioni del primo conflitto mondiale con particolare attenzione al mondo dello spionaggio, in un contesto che era tipico dell’epoca. A metà fra Salgari e Guido da Verona, all’insegna del mito trionfante della capitale francese ma anche di quello degli hotel di lusso e dei raffinati convogli della “Compagnie Internationale des Wagon-lits”. Fu nelle sue rievocazioni che io, piccolo com’ero, ebbi occasione di imbattermi in personaggi favolosi come Sidney Reilly, Bolo Pascià, Mata Hari, e appunto Sir Roger Casement. I quali convivevano in Sulliotti con l’ombra di Georges Clemenceau (“il Tigre”) e con i primi ricordi della Società delle Nazioni. Lavorando con Sulliotti, che per combinazione conoscevo sin dall’infanzia perché avevo abitato nel suo stesso palazzo a Genova, capii che cos’era quel giornalismo italiano furbesco e, per così dire, collaborazionista, che aveva mutato la sua iniziale vocazione unitaria e democratica con un’adesione al fascismo che, per essere totale e conclamata, non cessava di coltivare una dimensione al tempo stesso ironica e servile. Due aggettivi che potrebbero riassumere la vita e le opere di tanti giornalisti del periodo fascista. Anche di alcuni ben più grandi e intelligenti di Sulliotti che avevano senza alibi di sorta ceduto ad ogni suggestione del potere. Basterebbe fare il nome di professionisti e letterati di grandi qualità come Paolo Monelli, se non di quell’enigma giornalistico d’epoca che fu il pur intelligentissimo e dottissimo Giovanni Ansaldo.
In attesa di tornare sulla figura di Italo Sulliotti, come emblema di un’intera classe politico-professionale, mi limiterò a ricordare che paradossalmente fu proprio nei suoi libri che cominciai ad amare i mondo dello spionaggio ma anche quello della democrazia prefascista, senza sapere che la mia convivenza con lui mi avrebbe, in questo senso, marchiato in modo decisivo.

P.S. Mi scuso per l’eccessiva lunghezza del testo.


Claudio G. Fava


Battute: 12.492

13 ottobre 2010

Risolto l'enigma su Sordi

I lettori di questo blog hanno sicuramente un vantaggio. Io non sono in gamba, ma per fortuna lo sono i miei amici. Il post di richiesta di Enrico Paganelli (in data 6 Agosto ma pubblicato da poco) ha ricevuto una risposta fulminea dal mio amico Natalino Bruzzone il quale indica l' episodio del film ove si ritrova l'apparizione minacciosa di Alberto Sordi che impersona un automobilista. Anche la precisazione sul fatto che Sordi indossi i guanti è stata fornita, anche senza firma, da Natalino.
Mi auguro che il signor Paganelli sia contento e che continui ad avere fiducia, magari non in me ma nei lettori del blog. (C.G.F.)

12 ottobre 2010

Enigma su Alberto Sordi

Rispondo con ritardo ad un post pubblicato in questo blog il giorno 6 Agosto. L’autore è il signor Enrico Paganelli che mi chiede di individuare un film con Alberto Sordi del quale ricorda un frammento che rievoca così: spezzone in bianco e nero visto tempo fa in TV : spiazzo assolato,utilitaria bianca ferma col conducente a bordo. Si avvicina Albertone (avrà avuto 35 anni) : è in canottiera, mani sommariamente bendate (un pugile?) : batte il pugno sul palmo più volte, si avvicina al finestrino e mormora : "Io offendo : primo, perchè er fisico me lo consente;secondo, perchè madre natura m'ha dotato de'n intelletto de prim'ordine e uno come te m'o magno". Sa forse dirmi che film era?
Francamente mi dispiace ammetterlo ma non lo so. Non riesco assolutamente a situare il brano e il contesto. Pubblico il tutto sperando che qualche “sordologo” venga in mio aiuto. Cercherò anche di far circolare una richiesta di informazioni che mi eviti una totale brutta figura.
Cordiali saluti
Claudio G.Fava

7 ottobre 2010

Un presente sempre più veloce e sempre più triste

Per concludere il discorso di ieri sugli spaventosi cambiamenti di vita e di abitudini che ci impone oggi la velocità con cui trascorre il tempo, vorrei tornare rapidamente sull’argomento del telefono e affrontare quello riguardante i computer.
Il telefono fisso non era solo un sistema di corrispondenza fonetica ma un simbolo fondante delle famiglie. Quando si arrivava a mettere il telefono voleva dire che si era approdati ad un minimo di solidità morale e civile. Il telefono rappresentava una conquista ed un simbolo. Inizialmente era un apparecchio a muro che godeva di una naturale autorevolezza proprio perché sporgeva dalla parete come una macchina ed un feticcio. Adesso col telefonino la gente parla anche con paesi stranieri ma io sono cresciuto in un mondo di difficili ed eroiche comunicazioni tra città e città. C’è un film del 1954 di Gianni Franciolini (opera graziosa per l’epoca e ricca di ammiccamenti romani) intitolato significativamente “Le signorine dello 04” . Lo 04 era appunto il numero di centralino della SIP a cui bisognava rivolgersi per richiedere le cosiddette “intercomunali”, vale a dire le telefonate che superavano i ristretti confini territoriali. A seconda del prezzo che si pagava si andava da un minimo “normale”, che spesso implicava lunghe attese quando la linea era affollata di richieste, sino al massimo che era l’”urgente”, ovviamente molto più cara ma dotata di un diritto di prelazione. Era tipico del momento l’espressione rabbiosa del commendatore di turno che chiamava lo 04 e gridava “Signorina, allora me la faccia urgente, non posso aspettare all’infinito!”, tutto il funzionamento del meccanismo riposava, come implica il titolo stesso del film, sulle impiegate del centralino e sulla loro maggiore o minore efficienza lavorativa. Esse avevano contatto con le colleghe delle altre città, ragazze che non avevano mai visto (proletari e piccolo-borghesi all’epoca viaggiavano molto poco) ma con le quali, durante gli anni, finivano con lo stabilire rapporti di autentica amicizia. Se ricordo bene tutto questo c’è nel film, dove fra le telefoniste figurano Antonella Lualdi, Giovanna Ralli e Marisa Merlini, mentre Franca Valeri, come sempre geniale, impersona la severissima capo-turno, in uno di quei ritratti di carattere che furono una delle più toccanti manifestazioni del suo grande, insuperabile talento di attrice.
Naturalmente gli apparecchi di casa avevano quel disco numerato che per noi era il simbolo stesso del telefono, ove trovavamo i numeri ruotandoli devotamente per stabilire una connessione, e che i giovani di oggi, abituati se mai ai tasti dei telefoni fissi ed ancor più a quelli minuscoli dei telefonini, ignorano completamente. L’idea stessa della teleselezione costituì una sorta di rivoluzione silenziosa. Mi ricordo ancora oggi Roberto Rossellini che me ne parlava col tono di chi racconta una favola affascinante. Mi diceva: “Sai, prima del numero ne fai un altro che si chiama prefisso e che ti mette in linea automaticamente. Pensa che puoi parlare con Parigi e in questo modo ottieni automaticamente il numero dell’appartamento che cerchi.” Mi ricordo ancora il sapore di mirabile stupefazione che lievitava nella sua voce, affine a quello che animò il suo cinema degli ultimi anni, tutto teso verso una sorta di auto-compiacimento didattico.
Molto più recente del telefono è ormai l’uso del computer. Non c’è dubbio sul fatto che l’umanità di oggi si divide tra chi usa e chi non usa il computer. Fra i primi praticamente tutti i giovani e i giovanissimi, fra i secondi molti vecchi della mia età, più di quanto si creda, ma come me in qualche modo spaventati da uno strumento che travalica tutte le loro precedenti esperienze di vita. La sostituzione stessa delle lettere normali con gli e-mail costituisce una rivoluzione silenziosa contro un passato antichissimo e radicato nei nostri animi. Cioè quello della posta cartacea, che rappresentò per secoli il simbolo più evidente dell’utilità dell’alfabeto e della scrittura. E’ tutto un mondo che ci stiamo rapidamente lasciando alle spalle, via via che i computer si perfezionano. Sembra quasi incredibile che la fortuna di una grande famiglia della nobiltà europea, i Thurn und Taxis, derivante dagli italiani Torre e Tasso, sia stata costruita grazie al’idea rivoluzionaria di dar vita ad una rete europea di recapito di lettere, quando ancora il continente era frazionato in centinaia di stati grandi e piccoli. L’impatto fu così forte che dal secondo nome della famiglia è nato quel comodo veicolo di trasporto cittadino che, a seconda della lingua, si chiama Taxi o Tassì.
Il computer non è solo una forma fulminea di missiva, ma è anche una terribile fonte di informazioni. Sempre di più ci abituiamo a rinunciare alle Enciclopedie ed ai manuali di consultazione. “Mettilo su Google e vediamo cosa dice”, è una frase ormai diventata una riflessione di uso comune. Secoli di lavoro di amanuensi e di bibliotecari, durati fino a pochi anni fa, sono stati ripudiati da una mano miracolosa ma maligna. Nel mio piccolo mi ricordo le fatiche che facevo ancora in un recente passato (libri, riviste, pubblicazioni varie da individuare e sfogliare, eccetera) per stabilire con sicurezza una filmografia. Adesso, soprattutto se si tratta di un film americano, vado su IMDB (International Movie Data Base) e il passato mi salta agli occhi. In questo caso abbiamo almeno un referente formale. Nessuno si chiede cosa nasconde IMDB. Ma mi è bastato mettere in Internet (appunto!) il termine “IMDB history” per stabilire che uno dei suoi fondatori è stato Col Needham, un ingegnere di Bristol che ne è diventato poi direttore generale sino a quando la società nel 1999 è stata ceduta ad Amazon, una sorta di multinazionale che vende libri, DVD, CD, permette di scaricare musica in formato MP3, e commercia inoltre, on-line, in computer, software, videogiochi, apparecchiature elettroniche, mobili, cibo e giocattoli. (Ho usato il minor numero di parole inglesi possibile ma spesso si tratta di una scelta forzosa ed inevitabile).
Mi pare con queste considerazioni di aver per ora esaurito il tema telefoni ed il tema computer. Ma non è detto. Può darsi che a qualche lettore vengano in mente altre considerazioni e le aspetto a piè fermo.

Claudio G. Fava

6 ottobre 2010

Il presente è veloce e triste

Parlavo l’altro giorno con Piero Pruzzo, che ha due anni più di me e che pertanto, come e più di me, è testimone di un passato scomparso. “In fondo” mi disse Piero “noi abbiamo vissuto in tre secoli diversi.” Nell’800 quando eravamo prima della guerra alla scuola elementare. Nel ‘900 durante la guerra e nei decenni successivi alla fine del conflitto. Negli anni 2000 siamo stati introdotti a forza in un terzo secolo, di cui non comprendiamo le usanze, di cui ignoriamo l’idioma, i cui abitanti e la cui televisione ci fanno paura.”
In fondo è proprio così. Ho riflettuto spesso sulle parole di Piero e sono stato invogliato a riflettere sulla furiosa velocità della vita che siamo costretti a vivere. Ogni nuovo decennio è un mondo nuovo. Per fare un esempio banale si pensi all’adozione furiosa dei telefoni cellulari. In una decina di anni o poco più abbiamo abbandonato i telefoni pubblici (vi ricordate quando li cercavate per strada frugandovi le tasche per trovare un gettone?)e abbiamo scoperto il cosiddetto “telefonino”. Tutti lo hanno e il fatto che lo si abbia sembra doveroso e obbligatorio. Anzi, si assiste ad uno spettacolo rivelatore. Sempre di più, se dipende da loro, i giovani rinunciano al telefono “fisso”ed usano solo il cellulare. E’ una cosa che colpisce tutti quelli della mia generazione e ribadisce quel senso di separazione fra vecchi e giovani che presumibilmente non è mai stato così intenso come nel periodo che stiamo vivendo. Non è una riflessione molto intelligente la mia ma è tuttavia strettamente legata a quel senso di cambiamento furibondo di vita e di relazioni che è tipico di questi ultimi sessant’anni della vita degli umani. In realtà fino all’inizio della seconda guerra mondiale la gente viveva in un modo assai simile a quello delle generazioni che l’ avevano preceduta. C’erano stati, è vero, i massacri della prima guerra: ad esempio il mio amico Paolo Cervone ha pubblicato da poco, presso Mursia, un libro sulle grandi battaglie in Francia, dalla Marna a Verdun e Le Chemin des Dames in cui sono riproposte, sul solo fronte francese, le ossessive carneficine amministrate dai diversi generali sui vari fronti europei. Esperienze terribili da cui milioni di persone, in prevalenza contadini ed operai con una significativa presenza di giovani liceali frettolosamente mutati in sottotenenti di complemento, uscirono ulcerati ma in qualche modo ancora segnati dal loro modo di vivere anteriore al conflitto. In qualche modo era ancora esistente quel legame col passato che rappresentò il tessuto della vita per secoli e secoli fino a tutto l’Ottocento. Erano epoche in cui molta gente, soprattutto i contadini che rappresentavano in modo determinante il rapporto col passato, vivevano pressappoco come erano vissuti gli uomini e le donne della generazione precedente alla loro. In una campagna rigorosamente legata la flusso delle stagioni, coltivata a mano o con l’uso antico degli animali come i buoi e i muli, tutti vivevano “come nel passato”. Nonostante l’avaro uso di macchine nuove e rivoluzionarie, abitudini e coltivazioni erano pressappoco simili a quelle che avevano contraddistinto l’esistenza dei padri e dei nonni. E così via via, risalendo nel tempo per anni e per secoli. L’esistenza di un contadino della prima metà dell’Ottocento non era poi fondamentalmente diversa da quella di un contadino del Settecento. Il quale a sua volta riproponeva gli schemi fondamentali della vita ereditati, insieme al dialetto ed alla religione dai padri dei nonni. Lentamente risalendo sino al Medioevo. Si confronti questo lento, austero, meditato fluire del tempo e delle usanze, filtrate ed assaporate attraverso i secoli, con la vita degli anni successivi al lancio della bomba atomica sul Giappone. Ormai ogni decennio finisce col costituire un mondo a sé, con i suoi miti e la sua lingua. Il che spiega il vago senso di vertigine che, ad esempio, ci coglie quando vediamo un vecchio documento della televisione. In realtà il mondo cambia troppo in fretta per le possibilità di reazione dell’uomo medio. Tutti – e particolarmente noi vecchi- soffriamo di una sorta di faticosa esposizione allo scorrere troppo rapido del tempo. Tutto sembra immobile ma in realtà tutto cambia ad una velocità incongrua. Non possiamo abituarci, e paradossalmente questo disagio colpisce anche i giovani che stentano sempre di più ad inserirsi nella vita lavorativa di una società ove tutto cambia in fretta non solo per noi ma anche per loro.
Se non fosse sintomo di una sterile reazione senile direi che la mescolanza di antiche usanze automaticamente riprodotte e di nuovi dettami spesso misteriosi costituisce una terribile alternativa. Spaventa i vecchi come me e impedisce ai più giovani di fare quello che gli antenati hanno fatto per secoli se non per millenni. E cioè inserirsi con calma nella vita di tutti i giorni, in modo da modellare la propria esistenza in funzione di un’attività lavorativa perseguita senza drammi e senza dolori.
Probabilmente mai come oggi la difficoltà del vivere, che ogni generazione ha creduto di dover affrontare come se fosse una novità assoluta, si manifesta con tale intensità. Non è una prospettiva divertente.
Claudio G. Fava

1 ottobre 2010

Un debito con Alan Furst

Tempo fa avevo fatto cenno, qui nel blog, di uno scrittore di “spy-stories”, Alan Furst, da me scoperto grazie ad un articolo del mio amico Natalino Bruzzone nel Secolo XIX. Mi ero ripromesso di tornare sull’argomento e mantengo la promessa. Si tratta di un personaggio molto interessante, un americano nato a New York nel 1941, cresciuto nell’ Upper West Side di Manhattan e poi per lunghi anni residente in Francia, dapprima per qualche tempo a Sommières, a 28 chilometri da Montpellier, nella cui Università ha insegnato, e poi per lunghi anni a Parigi, la sua città di elezione che lui definisce “il cuore della civiltà”. Attualmente è tornato a vivere negli Stati Uniti ed esattamente a Sag Harbor, (Long Island), cittadina a circa cento miglia da New York. Non è mai stato giornalista in senso strettamente professionale ma ha un ampio passato di collaborazione con pubblicazioni americane diversissime fra loro (mi limiterò a citare “Esquire”, “International Herald Tribune”, “The New York Times”, ecc.). Divenne Bachelor of Arts (B.A.) all’Oberlin College nel 1962 e nel 1967 Master of Arts (M.A.) alla Penn State, l’Università Statale della Pennsylvania. Cominciò a pubblicare libri nel 1976, ma il suo primo successo arrivò nel 1988 con “Night Soldiers” che è considerato il primo di una serie di romanzi (tuttora undici), uniti da una comune vocazione, e cioè dall’amore e dalla curiosità di Furst per l’Europa, in particolare dal ‘36 al ’40 ed ancor più per le nazioni balcaniche e, più largamente, per tutte quelle che furono poi trascinate nella seconda guerra mondiale. Mi pare utile riportare qui (senza ritoccare il testo inglese) l’elenco dei suoi romanzi, appunto della serie “Night soldiers”, così come appare in internet, in Wikipedia. Lo trascrivo letteralmente, con una precisazione che mi pare fondamentale. Purtroppo, solo 4 dei romanzi della serie sono stati tradotti in italiano, pubblicati da editori diversi dato che lo scrittore non è (ancora) divenuto un caso letterario di successo. Pertanto ho aggiunto fra parentesi, in questi quattro casi, i titoli italiani.

Night Soldiers novels:
1. Night Soldiers, 1988
2. Dark Star, 1991 (L’ombra delle stelle)
3. The Polish Officer, 1995
4. The World at Night, 1996
5. Red Gold, 1999)
6. Kingdom of Shadows, 2000 (Il regno delle ombre)
7. Blood of Victory, 2003
8. Dark Voyage,2004
9. The Foreign Correspondent, 2006 (Il corrispondente all’estero)
10. The Spies of Warsaw, 2008 (Le spie di Varsavia)
11. Spies of the Balkans, 2010
Una ulteriore precisazione di Wikipedia consente di individuare nel ciclo i personaggi che compaiono in più di un romanzo, anche se in linea di massima i protagonisti sono tendenzialmente diversi.
Ecco l’elenco:
• Ilya Goldman, NKVD (Night Soldiers, Dark Star, Kingdom of Shadows, The Foreign Correspondent)
• Colonel Vassily Antipin (Night Soldiers, Red Gold)
• Colonel Anton Vyborg, Polish military intelligence (The Polish Officer, Dark Star, The Spies of Warsaw)
• Count Janos Polanyi (Kingdom of Shadows, Blood of Victory, Dark Star, The Foreign Correspondent)
• S. Kolb, British agent (Dark Voyage, The Foreign Correspondent, Spies of the Balkans)
• Dr. Lapp, German military intelligence (Kingdom of Shadows, The Spies of Warsaw)
• Boris Balki, Russian emigre bartender in Paris (Kingdom of Shadows, Blood of Victory)
• Mark Shublin, Polish painter (Kingdom of Shadows, The Spies of Warsaw)
• British intelligence operatives in Europe (mainly Paris), such as:
o Lady Angela Hope (appears in Night Soldiers and Dark Star; mentioned in Red Gold, The Foreign Correspondent, Kingdom of Shadows, Blood of Victory)
o Mr. Brown (Night Soldiers, Blood of Victory, Dark Voyage, The Foreign Correspondent).

Una particolare manifestazione dell’amore di Furst per Parigi è ribadita dal fatto che in ogni romanzo c’è almeno un riferimento ad un locale parigino, la Brasserie Heiniger .
In attesa di tornare ancora una volta sull’argomento, vorrei limitarmi qui a dire che, in genere, nei suddetti romanzi di Furst la rievocazione d’epoca, (nel “Il corrispondente all’estero” tutta la parte finale è centrata sulla Genova del tempo, comprese le citazioni del Secolo XIX) è minuziosa. Ad esempio la descrizione di città e cittadine che via via cambiano nome a seconda del cambiamento di nazionalità, è appassionata, minuta e spesso toccante.
Dei quattro suoi libri pubblicati in italiano quello che mi è piaciuto di più è senz’altro “Le spie di Varsavia”, con una serie di allusioni e descrizioni che rievocano un affascinante mondo perduto. Due dei libri, e cioè “Il regno delle ombre” e “L’ombre delle stelle”, esauriti nelle librerie italiane, li ho trovati grazie ad un negozio di libri usati che si chiama:
“La botteghina del libro”, Via G. Regnoli, 48 -47100Forlì
tel.+390543370227
(Si sono dimostrati con me puntuali ed efficienti,ed i prezzi mi sono apparsi ragionevoli: uno dei due libri costava solo 2,50 €!).
Furst mi sembra uno scrittore di talento, veramente degno di riallacciarsi alla miglior tradizione anglosassone della “spy-story” di grande livello.
Fra non molto tornerò una terza volta sull’argomento.
Claudio G. Fava