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22 gennaio 2009

DUE MOMENTI DELLA RESISTENZA FRANCESE

Nell’ampio ventaglio delle mie collaborazioni relativamente recenti, destinate a pubblicazioni di diversa natura, ve ne sono due che mi sembra possano presentare dei motivi di interesse per gli eventuali e misteriosi lettori del Blog (se ne esistono). L’uno è il mio contributo al catalogo della retrospettiva dedicata a Jean-Pierre Melville all’interno dell’edizione 2008 del Torino Film Festival, catalogo curato da Emanuela Martini, che mi ha assegnato il film “L’armata degli eroi” (“L’armée des ombres”), capolavoro ambientato durante gli anni della Resistenza in Francia. Mi è parso giusto allargare il testo cercando di evocare nel modo più stringato possibile le caratteristiche politiche di come si formò e si organizzò, dal 1940 al 1944 il variegato mondo della lotta contro i nazisti e contro Vichy (temi su cui gli italiani in genere non sanno praticamente nulla, e non è detto che ne sappiano qualcosa i francesi).
L’altro brano, che riproduco qui, riguarda un testo scritto per la Multimedia San Paolo, che ha curato un’edizione speciale de “Il condannato a morte è fuggito” di Robert Bresson. Il mio saggio riguarda la personalità e i dati biografici di André Devigny, trascurato autore del libro da cui il film è tratto, ed unico prigioniero che riuscì a fuggire da una famosa e sinistra prigione francese della Gestapo.
Pur con orientazioni diverse i due brani riguardano lo stesso periodo storico ed illuminano figure e particolari di un momento fondamentale della storia non solo di Francia, ma dell’Europa, durante il secondo conflitto mondiale. Abbiamo inserito nel testo un’immagine di André Devigny in divisa da tenente colonnello, e un’inquadratura de “L’armata degli eroi”, dove figura uno dei protagonisti, Lino Ventura.



L'ARMATA DEGLI EROI (L'ARMEE DES OMBRES)

Preliminari storici

Ho accettato con piacere l’invito di Emanuela Martini a scrivere per il catalogo-Melville un pezzo dedicato a “L’armata degli eroi” (“L’Armée des Ombres”). Ma per farlo è assolutamente obbligatorio ricordare al lettore italiano, sicuramente coltissimo ma potenzialmente distratto, come andarono le cose in Francia nell’Estate del 1940 e come si arrivò alla formazione nella Francia occupata di una resistenza originariamente articolata in due tronconi, quella del nord e quella del sud.
Nel Giugno del 1940 l’esercito francese, considerato da tutti il migliore e il più importante del mondo, crollò dopo pochi mesi dall’inizio dell’offensiva tedesca e fu costretto a cedere le armi. Passando dall’Olanda e dal Belgio le famose “Panzer Divisionen” del generale Guderian, dal 10 di Maggio alla metà di Giugno colpirono al cuore l’esercito francese (un milione e mezzo di prigionieri in poche settimane), che il 22 Giugno firmò l’armistizio a Compiègne, nello stesso luogo dove i delegati tedeschi si erano arresi nel 1918. Intanto lo Stato francese aveva subito una serie di scosse mortali: il 14 Giugno si era trasferito a Bordeaux; il 16 Giugno Paul Reynaud aveva rassegnato le dimissioni da capo del governo e il presidente della repubblica Lebrun aveva dato l’incarico di presidente del consiglio al maresciallo Philippe Petain, notoriamente contrario alla guerra e desideroso di interromperla. Infatti il 17 Giugno Petain chiese al nemico di negoziare un armistizio. Gli strumenti politici e giuridici per portarlo a compimento gli furono dati il 10 Luglio quando le Camere (deputati e senatori) riunite al casinò di Vichy assegnarono a Petain i pieni poteri al fine di cambiare la costituzione della terza repubblica: l’Assemblea Nazionale assegnò 569 voti a favore, 80 contrari e 17 astensioni; con l’assenza dei rappresentanti comunisti che, essendosi rifiutati l’anno prima di votare i crediti di guerra contro la Germania, erano stati di fatto dichiarati fuorilegge: alcuni di essi furono addirittura ricercati per renitenza alla leva. Lo stesso Maurice Thorez, rifugiato in U.R.S.S., venne “graziato” nel 1944 da De Gaulle. Solo nel 1941, dopo lo scoppio della guerra fra l’U.R.S.S. e la Germania, il partito comunista francese entrò massicciamente nella resistenza diventandone uno dei centri motori.
La resa della Francia e la popolarità di Petain, che la gente considerava il più umano dei generali francesi della prima guerra mondiale, fecero sì che l’armistizio e il nuovo regime fossero di fatto molto popolari, almeno nei primi anni. Il francese medio pensava di essersi liberato di una classe politica inefficiente che lo aveva trascinato in una guerra inutile e perduta. Anche se qualche dubbio sulla legittimità costituzionale del nuovo regime permaneva (la fretta con cui Petain incontrò lo stesso Hitler il 24 Ottobre 1940, nella stazioncina di Montoire-sur-le-Loir, entrando – come egli stesso disse – nella “via della collaborazione” stupì molti) la Francia del Maresciallo era all’inizio fortemente radicata nei sentimenti popolari. Anche se sul nuovo potere si stendeva l’ombra ambigua di un grande e abile avventuriero come Pierre Laval, divenuto un collaboratore autentico lui, vice-presidente che lo stesso Petain fece arrestare il 13 Dicembre 1940, ma di cui i tedeschi, il 17 Aprile 1942, imposero il ritorno al potere, sconfessando quindi in modo decisivo il Capo dello Stato. L’armistizio aveva diviso il paese in due tronconi: una parte occupata direttamente dai tedeschi, Parigi compresa; l’altra che aveva appunto eletto la sua sede a Vichy, città termale e pertanto ricca di alberghi, direttamente amministrata dai francesi, i quali però dovevano sottostare alle richieste finanziarie e organizzative dell’invasore. La divisione fra le due France (l’ “occupata” e la “non occupata”) era ribadita da un confine vero e proprio, chiamato la “Ligne de Demarcation”, con blocchi militari e controlli di documenti. Ecco dunque che i primi, timidi tentativi di non tener conto di quello che era stato negoziato dal governo si urtarono non solo con la struttura dello Stato francese e con le sue forze di polizia, rimaste nella sostanza intatte, ma dovettero fare i conti con la già citata spaccatura del paese in due (fu solo nel Novembre del 1942 che i tedeschi invasero la Francia non occupata, quella appunto su cui fino a quel momento aveva “regnato”, con molti limiti di competenza, il governo Petain). Intanto era successo qualcosa di estremamente importante nella storia della seconda guerra mondiale, ma che nei primi tempi apparve un accadimento periferico e di scarso rilievo. Un ufficiale di carriera francese, il colonnello Charles De Gaulle, grande specialista di carri armati, nominato da Reynaud generale di brigata a titolo provvisorio e sottosegretario, aveva preso contatto con il governo inglese rifiutandosi di accettare l’armistizio ed, a titolo personale, si era rivolto a tutti i francesi proponendo di “tener viva la fiamma della resistenza”. Inizialmente De Gaulle, giunto avventurosamente a Londra mentre la moglie e i figli si incamminavano anch’essi per l’Inghilterra in modo altrettanto avventuroso, era solo, unicamente accompagnato da un ufficiale d’ordinanza. Accettò l’invito di Churchill e rivolse il 18 Giugno del 1940 un appello radiofonico ai francesi. Pochi lo ascoltarono, ma di fatto fu quel gesto a segnare il cambio di un’epoca: da un lato tagliò i ponti fra il generale e lo Stato francese (il governo lo condannò a morte per diserzione) e dall’altro consentì a De Gaulle di iniziare una galoppata solitaria, eroica e straordinariamente fortunata, che gli permise solo quattro anni dopo di rientrare a Parigi idealmente alla testa di milioni di compatrioti. Sin dai primi giorni De Gaulle capì l’importanza di un’attività di indagine, di spionaggio e di propaganda nella Francia sconfitta. Fra i primissimi ufficiali che si schierarono con lui in un appartamento d’occasione di Londra vi fu un certo André Dewavrin – conosciuto poi come colonnello Passy - capitano di stato maggiore. Dopo un colloquio, De Gaulle gli affidò l’incarico di costituire il “Deuxieme Bureau”, ovvero nella terminologia militare francese il servizio informazioni. E sin dall’inizio ci si rese conto che non di un normale servizio di intelligence doveva occuparsi l’ufficio, ma di un autentico percorso ideologico e politico, per rinsaldare la resistenza a Petain e per risvegliare un’autentica coscienza democratica. Tant’ é vero che dopo un po’ il servizio di Dewavrin venne battezzato “B. C. R. A.” (ovvero “Bureau Centrale de Reinsegnement et d’Action”). Ad esso tendevano a far capo i vari gruppi di resistenza che prima timidamente e poi con maggiore compattezza si organizzarono nella Francia occupata. Per ragioni di spazio è impossibile ricostruire qui la mappa dei movimenti. Per tenermi ai più importanti mi limiterò a ricordare che nella zona sud fino alla fine del 1942 si misero in luce “Combat”, “Libération”, “Franc Tireur”, mentre al nord i movimenti più importanti furono “Libération-Nord”, “O. C. M.” (“Organization Civile et Militare”) e infine il “Front National” (controllato dai comunisti, entrati in massa nella guerra clandestina dopo il 1941). I loro compiti furono di riunire informazioni sulle truppe tedesche, sulle loro armi, i loro magazzini (costituendo eventualmente dei depositi di armi in previsione di una rivolta aperta) e di fare poi tempestivamente affluire queste informazioni ai comandi inglesi a Londra. Dovettero imparare tutto o inventarsi tutto, compreso l’uso degli impianti mobili di trasmissione radio e i sistemi per cifrare e trasmettere il più rapidamente possibile il materiale informativo.
Il problema dei francesi era che tutti i rapporti con Londra erano nelle mani dei servizi inglesi (dalle radiotrasmittenti alla comunicazione aerea con i piccoli “Lysander” che trasportavano coraggiosamente agenti da e per la Francia) per cui il “B. C. R. A.” dovette affrontare una lotta continua con i britannici. Per non perdere il controllo della situazione e mettere un freno alla concorrenza esplicita nell’istruzione e nel lancio di agenti francesi, che spesso avrebbero voluto battersi per De Gaulle e invece, di fatto, lavoravano per il “S. O. E.” (Special Operations Executive”) guidato dal colonnello inglese Buckmaster. E tenendo conto del fatto che molti dei movimenti in territorio francese non volevano sottostare, per motivi ideologici, alle disposizioni di un generale che automaticamente consideravano un personaggio di destra, si capisce da qui il capolavoro di De Gaulle, tramite alcuni suoi straordinari inviati, nel riuscire a modellare ai suoi ordini (grazie a Jean Moulin) un quasi unico organismo di resistenza in Francia, comprese le importantissime colonie del cosiddetto Impero, costituisca uno dei numerosi prodigi che egli realizzò durante la guerra.
Per terminare il ritratto dell’epoca bisogna ricordare che la resistenza ebbe contro di sé non solo le diverse strutture della polizia francese, rimasta intatta con l’armistizio, ma anche la complicata architettura dei reparti antiterrorismo tedeschi, sia dell’esercito che delle S.S. e della Gestapo (la quale organizzò anche reparti interi esclusivamente animati da francesi, come ad esempio la sezione di Rue Lauriston a Parigi), per non parlare degli organismi nuovi espressamente creati in funzione antipartigiana: si pensi alla cosiddetta “Milizia” di Darnand ed al collegato “S. O. L.” (“Service d’ Ordre Legionnaire”).

Il romanzo e lo scrittore

Non si può parlare del film senza far cenno del libro e del suo autore. Famosissimo ai suoi tempi, Joseph Kessel ebbe una vita avventurosa che si rispecchia gloriosamente nelle sue opere. Nato il 18 Febbraio 1898 a Clara (Entrerios), in una famiglia di ebrei di origine lituana che avevano deciso di partecipare alla “colonizzazione” ebraica dell’interno dell’Argentina. Il padre medico passò il dottorato a Montpellier, mentre Joseph trascorse in Argentina i primi anni della sua vita, per tornare successivamente dal 1905 al 1908 a Orenbourg negli Urali dove la sua famiglia possedeva beni e denaro. Dal 1908 in poi i Kessel si trasferirono in Francia e Joseph si francesizzò fulmineamente. Studiò al Liceo Masséna a Nizza, poi al Louis-le-Grand a Parigi. Nel 1914, scoppiata la Grande Guerra, divenne infermiere nell’esercito. Nel 1915 ottenne la “License” in Lettere e nel 1917 trovò lavoro al “Journal des Débats” e fu ricevuto come alunno al conservatorio. Poi, appena diciottenne, si arruolò nell’esercito e venne assegnato ad una squadriglia d’aviazione, la “S.39”. In effetto in una squadriglia era ambientato il suo primo romanzo “L’ Equipage” (1923), che lo rese famoso. Al ritorno ottenne la nazionalità francese: era insignito della “Croce di guerra” e della “Médaille Militaire”. Da quel momento esplose letteralmente la sua carriera di romanziere e di giornalista. Girò il mondo seguendo da vicino il dramma della rivoluzione irlandese e dei moti ebrei in Israele. Raccontò i bassi fondi di Berlino, volò sulle prime linee aeree del Sahara e con i negrieri del Mar Rosso. E contemporaneamente pubblicava moltissimi libri che gli detterò la notorietà e fruttarono un gran successo di pubblico (fra di essi “Belle du Jour”, da cui il noto film di Buñuel)*. Godeva ormai di una popolarità mondiale, facendo parte di un famoso manipolo di giornalisti animati da Pierre Lazareff, futuro fondatore di “France Soir”, che fu un simbolo fra i quotidiani francesi.
Dopo la sconfitta, si arruolò nella resistenza e attraverso i Pirenei raggiunse Londra per schierarsi con De Gaulle. Insieme al nipote Maurice Druon scrisse le parole del famoso “canto dei partigiani” che Yves Montand avrebbe reso famoso nel dopoguerra. In base alle informazioni che raccoglieva a Londra, nel 1943, in piena guerra, pubblicò un’opera fondamentale. Appunto, “L’Armée des Ombres” da cui il film di Melville (bisogna far presente che la traduzione italiana di “armata” è imprecisa perché qui la parola ha il senso riassuntivo di “esercito”; inoltre si tratta di “ombre” e non di “eroi”, giusto per rispettare la mancanza di retorica di Kessel). Da allora fino alla morte, nel 1979, Kessel – diventato membro dell’Accademia di Francia nel 1962 - allineò un lungo elenco di libri di successo.


Il romanzo – ricordo, siamo nel 1943 - è costituito da una prefazione (in cui Kessel spiega le enormi difficoltà di scrivere una storia fatta da avvenimenti veri che riguardano persone viventi, ma che non debbono essere individuate) e da otto capitoli: “L’evasion”; “L’execution”; “L’embarquement pour Gibraltar”; “Ces gens-la sont merveilleux”; “Notes de Philippe Gerbier”; “Une veillée de l’age hitlerien”; “Le champ de tir”; “La fille de Mathilde”.
· Il primo capitolo, “L’evasion”: Gerbier è condotto dai gendarmi in un campo di concentramento retto da francesi ad uso di altri francesi e inizialmente costruito (durante la “Drôle de Guerre”, come dice il gendarme che scorta Gerbier) per custodire prigionieri tedeschi che, allo scoppio del conflitto nel 1939, si pensava dovessero essere numerosi. Invece non ve ne furono e Vichy lo utilizzò per tenere in prigione ogni serie di avversari, dai politici agli ebrei, ai borsaneristi. Gerbier è collocato in una baracca, dove si trovano anche un colonnello, un farmacista e un viaggiatore di commercio. Lì fa amicizia con un giovane malato ai polmoni che vorrebbe rendersi utile alla resistenza ma rinuncia a qualsiasi prospettiva di fuga. Gerbier riesce a mettersi in contatto con il suo “Reseau” e prepara l’evasione.
· Il secondo, “L’execution”: Gerbier, ormai libero, riceve l’ordine di procedere all’esecuzione capitale di un compagno di resistenza che, presumibilmente, ha tradito. La cosa avviene in un appartamentino di Marsiglia affittato per l’occasione, strangolando il colpevole: esperienza terribile per Gerbier e per gli altri resistenti.
· Il terzo, “L’embarquement pour Gibraltar”: il giovane Jean-François, ex pilota militare, incontra un suo amico, Felix (aiutante di Gerbier) che lo arruola nella resistenza. Jean-François se la cava molto bene, impara ad eseguire ordini disparati avendo come solo punto di riferimento Felix. Una volta portato a termine un pericoloso incarico a Parigi (doveva consegnare una radiotrasmittente che aveva nella valigia), riesce finalmente a far visita al fratello Luc, grande studioso, che Jean-François in omaggio al gusto di quegli per la vita spirituale chiama “Saint-Luc” e che considera, nonostante tutto il suo affetto, un simpatico vile completamente estraneo alla tragedia che vive la Francia. Ritornato alla base nel sud, anche Jean-François si trova coinvolto in una complicata operazione intesa a imbarcare su un sottomarino britannico un gruppo di resistenti e di prigionieri inglesi fuggiaschi. Egli sarà in particolare incaricato di condurre in barca quello che i resistenti chiamano “Le Grand Patron”, e cioè il comandante di tutto il “Reseau”. È il fedele “Le Bison” che l’accompagna alla barca manovrata da Jean-François. Solo prima di salire sul sottomarino Jean-François scopre inaspettatamente che “Le Grand Patron” è suo fratello Luc, che egli considerava un imbelle intellettuale.
· Il quarto, “Ces gens-la son merveilleux”: è centrato a Londra e racconta in prima persona di una cena in casa di una nobildonna francofila, in cui si mangia molto bene e si gustano cibi raffinati (introvabili nella Francia occupata).
· Il quinto, “Notes de Philippe Gerbier”: Gerbier tornato in aereo da Londra, annota particolari, impressioni ed esperienze della sua vita quotidiana da clandestino. Ad esempio il fatto che sia reduce da Londra, lo rende mitico agli occhi dei resistenti con cui prende contatto. Scrive Gerbier: “Presso i musulmani i pellegrini che sono stati alla Mecca portano il titolo di Hadj e indossano un turbante verde. Io sono un Hadj. Ho diritto al turbante verde dell’Europa asservita”. E questo gli sembra paradossale perché a Londra il mito è la Francia occupata. Il fatto di viverci, sottoposti alla fame, al freddo, alle privazioni, alle persecuzioni, e di partecipare alla resistenza, rendono tutto eroico e romanzesco.
Per un certo periodo Gerbier viene ospitato dal barone de V... (nel film è ribattezzato da Melville, barone de La Ferté-Talloires), uomo di estrema destra che aveva armato i suoi contadini prevedendo un colpo di stato monarchico, ma che poi è passato nelle file della resistenza dicendo: “Preferisco un francese rosso ad una Francia che arrossisca”. Gerbier lascia il castello in tempo e due giorni dopo il barone è fucilato. Compie infinite esperienze, conoscendo resistenti d’ogni tipo, e Kessel racconta, attraverso la mediazione di Gerbier, che scrive in prima persona, i frammenti di resistenza che lo scrittore poteva svelare nel 1943. Ad esempio, attraverso Jean-François, riceve notizie di Félix, che è stato arrestato in strada da due agenti della Gestapo, i quali l’hanno condotto a casa sua picchiandolo davanti alla moglie e al bambino. Félix ha avuto il coraggio di fuggire da una finestra del primo piano, si è slogato una caviglia, ma è riuscito a correre lo stesso. Per strada ha incontrato una pattuglia di poliziotti ciclisti francesi, ha detto la verità al brigadiere che li comandava, e questi lo ha condotto da un membro della Resistenza e via via, di clinica in clinica, Félix si è salvato ma non potrà rivedere la sua famiglia sino alla fine della guerra.
Episodio per episodio, in questo capitolo le notazioni di Gerbier sono innumerevoli ed è impossibile rievocarle tutte. Ne vien fuori, attraverso l’incontro con decine di persone diverse una minuta ricostruzione di avvenimenti, personaggi e caratteristiche, che segnano l’esistenza di tanti compagni di lotta, ed un quadro molto preciso della vita da loro condotta nelle condizioni più perigliose e difficili che si possano immaginare.
Fra i vari resistenti, Gerbier conosce Mathilde, che è fuggita dal Palazzo di Giustizia di Parigi, impara a conoscerla e scopre che questa madre di famiglia ha grandi qualità umane e tecniche che ne fanno un elemento molto importante per la Resistenza. La stessa vocazione al sacrificio che la lega ai suoi numerosi figli, sarà la caratteristica che la porterà alla perdizione.
· Il sesto, “Une veillée de l’age hitlerien”: catturato e in attesa di una condanna, Gerbier parla con altri sei detenuti che come lui aspettano di essere fucilati.
· Il settimo, “Le champ de tir”: i sette prigionieri vengono condotti dai tedeschi all’interno di un’immensa prigione per essere uccisi. Un tenente delle S.S. li fa allineare e in un ottimo francese spiega loro: “Entro un minuto vi piazzerete qui davanti alla mitragliatrice, volgendole il dorso. Dovrete correre il più presto che potrete. Non spareremo subito. Vi daremo una chance. Chi arriverà in fondo sarà ucciso più tardi con i prossimi condannati”. Gerbier e altri due si rifiutano di eseguire l’ordine. Poi il tenente tira tre colpi di rivoltella e anch’essi si mettono a correre. All’improvviso cala l’oscurità e un’ ondata di fumo spesso e nero ricopre tutto il campo di tiro. Gerbier non sente l’esplosione delle granate fumogene, ma capisce che quella nebbia è destinata a lui. Egli è l’unico che non si ferma. Un proiettile gli strappa un pezzo di carne dal braccio, un altro gli brucia la coscia. Sorpassa gli ostacoli e dietro vede un muro e dal muro spunta – Gerbier ne è sicuro – una corda. Risale a forza di braccia e a qualche centinaio di metri vede, all’esterno, un’automobile. Al volante il fidatissimo Le Bison, ex sottufficiale della Legione Straniera che partecipa al colpo di mano agli ordini di Mathilde, e un altro resistente (Jean François). Alla fine, la gelida Mathilde prende una mano di Gerbier e la chiude fra le sue.
· L’ottavo, “La fille de Mathilde”: Gerbier è ospitato per tre mesi in una casa isolata di campagna dove Le Bison lo rifornisce di viveri. Un giorno riceve inaspettatamente la visita del “Patron”, costretto ad affrontare un argomento terribile: Mathilde, che era caduta nella mani della polizia tedesca, è stata rilasciata ma tre resistenti sono stati catturati a loro volta. Luc Jardie affaccia la possibilità che la donna si sia venduta per salvare la figlia adolescente da un destino spietato (nel migliore dei casi un bordello sul fronte russo). E pertanto, vedendo che Mathilde si espone camminando per le strade, sostiene che è lei stessa a chiedere di essere giustiziata, ma che non vuole uccidersi essendo cattolica praticante. Nel suo animo il “Patron” non è totalmente convinto ma è questa un’ipotesi che non può trascurare e che propone ai compagni come una sicurezza assoluta. Ed è proprio “Le Bison”, che inizialmente non vuol far nulla contro “Madame Mathilde”, a premere il grilletto in strada per l’esecuzione. Luc Jardie ha voluto essere presente nella macchina da cui “Le Bison” ha esploso i colpi mortali sulla donna, perché Mathilde lo veda per l’ultima volta.

Il film

«Mauvais souvenirs! Soyez pourtant les bienvenue, vous êtes ma jeunesse lointaine» - Georges Courteline
(«Brutti ricordi! Siate comunque i benvenuti, siete la mia giovinezza lontana»).


Melville amava molto questa frase in cui ritrovava ricordi e insegnamenti del passato e del presente, tanto da proporla all’inizio del film. Era la sua chiave di ingresso nel mondo di Kessel. Infatti egli, che aveva letto nel 1943 il romanzo a Londra (raggiunta faticosamente attraverso la Spagna), desiderò sempre di portarlo sullo schermo, e ci riuscì venticinque anni dopo. A Raul Nogueira (autore del fondamentale “Le cinéma selon Melville” del 1973, edito in Italia da “Le Mani” nel 1994) il regista dice che Kessel non riusciva a credere che si potesse inseguire un’idea per tanto tempo così tenacemente (peccato che la versione italiana sia incompleta rispetto all’originale). Naturalmente Melville era consapevole del fatto che dopo un quarto di secolo c’erano molte cose nel libro che non si potevano filmare. E sempre a Nogueira confessa: “…Trasformai un racconto sublime, un meraviglioso documentario sulla Resistenza, in una fantasia retrospettiva; un pellegrinaggio nostalgico in un’epoca che segnò profondamente la mia generazione”.
Il film inizia il 20 Ottobre del 1942. In quella data, dice ancora Melville: “Avevo venticinque anni. Ero soldato dalla fine dell’Ottobre 1937…Avevo alle spalle tre anni di vita militare (di cui uno di guerra) e due di Resistenza. È qualcosa che segna un uomo, mi creda”.
In effetti, l’adattamento del libro è una riprova, se ve ne fosse bisogno, del talento complesso, quasi nascosto, enigmatico ma trasparente di Melville. Buona parte della lettera del libro si trasfonde nel film, eppure si avverte in ogni inquadratura la presenza del regista, che trasforma quel che all’origine era una scaltra e commossa partecipazione da lontano ad un avvenimento sconvolgente, come l’occupazione e la Resistenza della Francia, in una sorta di elegia contemporanea, senza tempo, di ogni possibile umana resistenza all’oppressione ed alla persecuzione. Questo è uno dei motivi che fanno del film un capolavoro assoluto, probabilmente l’opera più grande che il cinema sia riuscito a produrre sul tema, e cioè sulla lotta insieme aperta e segreta contro un invasore nazista, pur essendo profondamente radicata in una precisa connotazione storica e geografica come la Francia del periodo 1940-1944. Dove si discosta dal libro (alcuni episodi), Melville introduce unghiate rabbiose e riassuntive – penso al colpo di testa di Jean-François, follemente intento a raggiungere Félix in carcere - che permettono allo spettatore, anche se ignaro dei riferimenti specifici alla cronaca francese, di cogliere i temi fondamentali di una vicenda umana e politica di rara complessità e violenza. Ad esempio l’inizio, con quel gendarme bonario e imbarazzato che conduce Gerbier al campo di concentramento gestito da Vichy (tutto un clima è riassunto nel soliloquio furbesco e servile del direttore) è una straordinaria rievocazione della Francia di Petain e dei suoi molteplici ma spesso sottomessi rapporti con i tedeschi. Si veda il passaggio dell’automobile che conduce poi Gerbier dal campo di detenzione all’albergo parigino, sede di un comando tedesco: i controlli ai posti di blocco della “Ligne de demarcation” ribadiscono la presenza dei gendarmi all’uno e all’altro capo dei confini delle due France, saldando insieme due diverse sfumature della collaborazione. Al tempo stesso, la concitazione violenta che conclude l’episodio è un segno altissimo della sapienza con cui Melville unisce il clamore alla concisione: Gerbier viene condotto in un comando dell’esercito a testimonianza della varietà delle competenze (non c’era soltanto la “Abwehr” oltre ai complessi servizi segreti nazisti) con cui i tedeschi combattevano la Resistenza. Pugnala una sentinella distratta, fingendo di chiedergli una sigaretta, stabilisce con un solo sguardo una complicità definitiva con lo sconosciuto compagno di detenzione che gi è seduto a fianco, e approfitta della fuga di quell’altro per gettarsi a sua volta verso una disperata libertà. Va detto che qui c’è l’unico e forse trascurabile frammento di inesatta ricostruzione d’epoca, che è invece una delle forze traenti del film. Gerbier fuggendo disperatamente entra stravolto in un negozio di barbiere che, salvo mio errore, non è oscurato, in un periodo in cui qualsiasi frammento di luce proveniente dalle case era perseguito con estrema severità in tutti i paesi in guerra (Italia compresa). Siamo agli inizi, ma la qualità eccezionale dell’opera, interpretazione compresa, è già evidente. Sin dalla prima inquadratura, si avverte il peso della presenza fisica e morale di Lino Ventura nei panni di Gerbier. Tanto quanto erano pessimi i suoi rapporti con Melville (pare che sul set i due non si parlassero direttamente ma solo attraverso un assistente), tanto è decisiva la sua quieta e ostinata partecipazione alle cose ed agli avvenimenti. Qualità altissima che Melville è riuscito ad ottenere da tutti quelli che appaiono sullo schermo. L’apparizione di Paul Meurisse nei panni di Luc Jardie è uno dei risultati più alti di tutta la carriera dell’attore. La controllata e insieme caldissima intensità della presenza di Simone Signoret, in quelli di Mathilde, ribadisce la finezza e la corposità della sua prestazione di protagonista naturale. Il Jean-François di Jean-Pierre Cassel ha una tonalità toccante fra le più persuasive all’interno di una carriera molto lunga (nato nel 1932, morì l’anno scorso nel 2007). E la fuggevole presenza di Serge Reggiani, svela un’esplosiva capacità di comunicazione. Del resto sono tutti bravi. Si pensi a Christian Barbier (Le Bison), a Paul Crauchet (Félix), via via sino ad apparizioni di pochi secondi, come Jean-Marie Robain, che è il già citato barone de La Ferté-Talloires. Melville abitualmente ha sempre ottenuto grandi risultati dai suoi interpreti ma qui siamo al livello massimo, ovviamente nei protagonisti ma ancor più nei personaggi secondari.
In quanto all’attendibilità storica della sceneggiatura, alcune polemiche francesi sono apertamente ridicole. Dire che il film è “Gollista” significa dimenticare che è centrato su un “Reseau” di osservanza gollista che fa capo al “B.C.R.A.”, come moltissimi settori della Resistenza. Il che accadde grazie all’abile processo di unificazione, portato a termine proprio sotto la sorveglianza del generale, ad opera di quel personaggio fondamentale che fu il già ricordato Jean Moulin (non ho qui lo spazio per rievocarne pienamente l’opera e la figura). Così il viaggio a Londra di Luc Jardie e di Philippe Gerbier trova il suo completamento proprio nella breve scena in cui De Gaulle, in una camera d’albergo (per non obbligare i premiati a recarsi nel comando della Francia libera, svelando la loro identità) decora Jardie con quella che suppongo sia l’insegna dei “Compagnons de la Libération” (1.038 membri nel periodo di massimo sviluppo; ora ridotti a pochi a causa del passare del tempo). Del resto le notazioni d’epoca ed i rinvii operati da Melville ed evidenti per tutti gli spettatori che avevano vissuto nel periodo della guerra, sono numerosi: si pensi alla presenza in carne e ossa di un uomo che fu fondamentale per la Resistenza ed ebbe poi un controverso destino post-bellico; e cioè André Dewavrin, che abbiamo citato in precedenza, detto Colonnello Passy (tutti i responsabili dello spionaggio gollista avevano assunto dei nomi di battaglia che erano quelli delle stazioni della metropolitana a Parigi). Un altro tocco rivelatore è la presenza di personaggi collaterali che fanno pensare a membri del “Reseau Cohors-Asturies”, il quale faceva capo a “Liberation-Nord”, dove aveva militato lo stesso Melville. Una figura fondamentale fu Lucie Aubrac, celebre protagonista della Resistenza, che in molti particolari rinvierebbe al personaggio di Mathilde.
Il film inizia trionfalmente con una delle più grandi invenzioni di Melville e insieme una delle sue grandi conquiste, vale a dire con la ricostruzione della sfilata delle truppe tedesche, con banda, sugli Champs-Elysées. Nessuno aveva mai ottenuto il permesso per farlo, poiché “esisteva una tradizione, dalla prima guerra mondiale in poi, che vietava la presenza di attori con uniforme tedesca” in un luogo che tutto il mondo identificata con Parigi e con la Francia. Come ricorda lo stesso Melville, il permesso era stato negato addirittura a Vincente Minnelli per “I quattro cavalieri dell’Apocalisse”. Il regista ribadisce anche che, al momento, fu la scena più costosa mai girata nel cinema francese (costò al produttore venticinque milioni di franchi), e che fu una delle due di cui era davvero fiero (l’altra è il famoso piano-sequenza di 9’ e 38’’ ne “Lo spione”). Sembra che il regista per impersonare i soldati tedeschi abbia arruolato dei tedeschi autentici, studenti a Parigi, persuaso che delle comparse francesi non sarebbero mai riuscite a riprodurre il suono dei talloni germanici sul selciato.
Il tocco melvilliano definitivo è che il film finisce tragicamente, al contrario del romanzo che si conclude addirittura con la frase: “Gerbier ha passato tre settimane a Londra. È ripartito per la Francia in buone condizioni e molto calmo. Aveva ritrovato l’uso del suo mezzo sorriso”. Invece Melville opta per un finale crudele. Nell’ultima inquadratura appaiono le seguenti scritte: “Claude Ullmann, chiamato Le masque, ebbe il tempo di ingoiare una pillola di cianuro l’8 Novembre 1943…”; “Guillaume Vermersch, detto Le Bison, fu decapitato con un’ascia in una prigione tedesca il 16 Dicembre 1943…”; “Luc Jardie morì sotto le torture il 22 Gennaio 1944 dopo aver rivelato un solo nome: il suo…”; “E il 13 Febbraio 1944 Philippe Gerbier decise, quella volta, di non correre…”.

Claudio G. FAVA

P.S.: La versione doppiata del film, quella che gli italiani prevalentemente vedono (e ascoltano) in televisione e che non permette di capire bene lo sviluppo della trama, allinea delle buone voci professionali d'epoca, ma dato il periodo e, trattandosi di un film della S.A.S., non è facile recuperare tutti i nomi dei doppiatori. Ho fatto ricorso a due grandi specialisti come Antonio Genna e Enrico Lancia, che purtroppo non sono riusciti a colmare il vuoto. Lancia ha spinto la gentilezza sino a vedersi una cassetta ed ha sicuramente riconosciuto le seguenti voci: Lino Ventura è doppiato da Emilio Cigoli, Simone Signoret da Adriana De Roberto e Paul Meurisse da Roberto Villa. La direzione del doppiaggio è di Roberto De Leonardis, evidentemente non colpevole dei tagli.


*Il cinema ed in piccola parte la TV hanno largamente attinto a Kessel. Senza nessuna pretesa di totale ricognizione, mi limito a citare qualche titolo: nel 2003 in televisione "Le lion", portato anche sullo schermo nel 1962 da Jack Cardiff con William Holden, Trevor Howard e Capucine; nel 1981 "La signora è di passaggio" ("La passante du Sans-Souci") di Jacques Rouffio con Romy Schneider e Michel Piccoli. Sembrerebbe che un suo romanzo, che si chiama "Les cavaliers" abbia avuto due versioni, una nel 1958, "I figli di Gengis Khan" a firma Jacques Dupont e Pierre Schoendoerffer (film di esordio di quest'ultimo), e l'altra "Cavalieri selvaggi", diretta da John Frankenheimer nel 1971 con Omar Shariff e Jack Palance; nel 1967 partecipò alla sceneggiatura di "La notte dei generali" ("The Night of the Generals" di Anatole Litvak, dal romanzo di Hans Helmut Kirst); nel 1955 è la volta del film "Oasi" ("Oasis") di Yves Allegret con Michéle Morgan e Pierre Brasseur, sempre tratto da un suo romanzo; nel 1954 da un altro romanzo tocca a "Les amants du Tage" di Henri Verneuil con Danielle Gélin e Françoise Arnoul; nel 1955 sempre da una sua opera "Fortune carrée" (probabile titolo italiano "Shaitan, il diavolo avventuroso") con Pedro Armendariz e Paul Meurisse; nel 1951 da "Coup de Grace" è tratto "Damasco '25" ("Sirocco") di Curtis Bernhardt con Humphrey Bogart. A questo punto occorre citare il libro che ha dato a Kessel una subitanea notorietà, e cioè "L'equipage" (1923), da cui tre film. Vale a dire una versione muta, quella francese di Maurice Tourneur del 1928, e due sonore sempre di Anatole Litvak, e cioè "L'equipage" (1935) e "The Woman I Love" (1937).
Non ho citato che le versioni dei romanzi originali, tralasciando la maggior parte delle sceneggiature.

UN CONDANNATO A MORTE E' FUGGITO



André Devigny, quasi completamente ignorato in Italia, è uno di quegli uomini fatti, in un loro modo schivo e silenziosamente eroico, per lo scontro e la guerra, che balzan fuori, solo nei momenti di grande pericolo, quando viene richiesta la totale dedizione di sé. Nacque il 25 Maggio 1916 a Habère –Lullin (paesino di poche centinaia di abitanti, appunto in Alta Savoia) in una famiglia di agricoltori e di militari. Dichiarato “Pupille de la Nation”, frequenta a Bonneville, sempre in Alta Savoia, l’ ”Ecole Normale d’Instituteurs”, poi va a compiere il servizio militare all’Ecole d’Officier de Saint-Maixent (meno nota di quella di Saint Cyr ma anch’essa antica). Ne esce sottotenente effettivo, è assegnato ad uno dei tanti reparti dell’esercito francese arruolati in colonia, il 5° RTM (Régiment de Tirailleurs Marocains) e già nel dicembre 1939, pochi mesi dopo l’inizio del conflitto con la Germania – in piena “drôle de guerre” quando tutti pensano che sul fronte franco-tedesco da una parte e dall’altra non succedesse mai nulla - riesce a respingere alla baionetta una offensiva tedesca. Per questo, a soli 23 anni, viene insignito della Legion d’Onore; fu, anzi, il più giovane Cavaliere dell’Ordine ed il primo a ricevere la decorazione nel conflitto. Una volta iniziata, nel maggio 1940, la decisiva offensiva tedesca - che condurrà rapidamente al collasso dell’esercito francese ed alla resa della Francia - è ferito ad Ham nel Nord del paese (dipartimento della Somme, prefettura di Amiens). Ricoverato all’Ospedale di Bordeaux viene dimesso, con Petain ormai al potere, nel mese di ottobre 1940. Qui inizia la parte più apertamente avventurosa della sua partecipazione al conflitto. Prende contatto con il Consolato britannico a Ginevra che l’invia in Marocco da cui, sino all’agosto 1942, fornisce agli inglesi preziose informazioni. Tornato in patria a partire dal novembre di quell’anno (quando i tedeschi, impadronendosi di tutta la Francia, invadono la cosiddetta “zona non occupata” retta dal Governo di Vichy), partecipa alla costituzione di un “reseau” della Resistenza militare, chiamato “Gilbert” comandato dal colonnello Georges Groussard- personaggio di non poco conto nella storia segreta di Francia: nelle sue memorie parla con grande ammirazione del coraggio fisico di Devigny - allora incaricato dallo spionaggio britannico di organizzare la fuga verso la Svizzera dei prigionieri inglesi. Devigny partecipa anche all’opera del “reseau” chiamato “Sosie” diretto dai fratelli Ponchardier. In effetti Groussard è uno di quei numerosi militari di destra che subito dopo la disfatta iniziarono a porre le basi per una resistenza armata contro i tedeschi. In fondo, essi pensavano, la Francia aveva stipulato un armistizio e non una pace definitiva, che avrebbe potuto essere denunciato se la situazione fosse cambiata…e del resto molti erano anche persuasi che Petain e De Gaulle, un tempo assai vicini, fossero segretamente d’accordo. E tutto questo, almeno inizialmente nel caso di Groussard, credo sempre in un’ottica rigorosamente petainista. Al punto che a Vichy fu proprio lui , ex- cagoulard e poi a capo di un reparto speciale, a provvedere nel dicembre 1940 all’arresto di Laval.; e a dire quando quest’ultimo, vice presidente del Consiglio, fu giudicato dal maresciallo Petain troppo filotedesco e, con un risvolto da Corte medioevale, messo in condizione di non nuocere, arrestato e rinviato a Parigi. Naturalmente due anni dopo, quando Laval, sotto la pressione germanica, ritornò trionfalmente al potere, Groussard aveva già provveduto a passare esplicitamente dalla parte degli Alleati ed a porsi in salvo in Svizzera da dove, come si è detto, diresse il gruppo “Gilbert”. “Cagoulard” (e cioè portatore di “cagoule” ovvero di una maschera) era il soprannome ironico dato agli aderenti dello CSAR, Comité Secret d’Action Révolutionnaire. Che non esitò a macchiarsi di molti delitti, compreso quelli dei fratelli Rosselli a Bagnoles de l’Orne, in Normandia, il 9 giugno 1937, quasi sicuramente su mandato dei servizi segreti italiani. Dopo la sconfitta, la maggior parte dei cagoulards si schierò con Vichy, più esattamente con i partiti e gli uomini più apertamente collaborazionisti. Ma alcuni andarono con De Gaulle, subito dopo l’appello del 8 giugno 1940. In sostanza ci fu una divaricazione naturale: la maggioranza della gente di destra andò con Vichy, che sembrava incarnare gli ideali maurassiani di uno Stato che ripudiando la Repubblica democratica e le sue “storture”, era autoritario e antisemita. Ma una minoranza, più numerosa di quel che abitualmente si crede, imbevuta dello spirito antitedesco che era appunto un altro tipico lascito della tradizione maurrassiana, decise che la cosa più urgente era di combattere e scacciare i tedeschi dal suolo francese e si schierò subito dalla parte del quasi sconosciuto De Gaulle.
Uno che si é sempre considerato un militare senza dubbi fu senz’altro Devigny. Che dopo aver ucciso a Nizza un funzionario del controspionaggio italiano, tale Angrisani, organizza un asssalto ad una polveriera di Tolosa senza sapere che un agente della Gestapo si è infiltrato nel suo “Reseau”. Il 17 aprile 1943 viene arrestato alla stazione di Annemasse, in Savoia, a circa 8 chilometri da Ginevra. Incarcerato nel terribile Fort Montluc di Lione (le cifre fanno rabbrividire: vi vennero rinchiusi 10.000 fra sospetti e resistenti, ben 7000 morirono, che io sappia solo Devigny è riuscì a fuggire !) viene interrogato e torturato e riesce a non parlare. Tenta la fuga una prima volta ma è ripreso e percosso crudelmente. Il 20 agosto 1943 è condannato a morte e decide di fuggire una seconda volta. Il 25 agosto riesce ad uscire dalla cella. Raggiunge il tetto, strangola una sentinella e con un compagno di fuga supera due muri di cinta grazie ad una corda fabbricata con materiali diversi. I due vengono ripresi a Vaulx-en-Velin, comune limitrofo di Lione. Ma il coraggio e la fortuna di Devigny non si smentiscono, si getta nel Rodano e resta per cinque ore nascosto nella fanghiglia, ha poi l’incredibile fortuna di imbattersi in un corregionale savoiardo che lo nasconde per una decina di giorni, sino a quando riesce a rifugiarsi in Svizzera. Da lì riesce a raggiungere il Nord Africa, riceve un addestramento da “commando paracadutista” e incorporato in una brigata d’assalto sbarca in Provenza nell’agosto 1944 e partecipa poi alla campagna d’Alsazia. Quando termina la guerra è capitano. Nel settembre 1946 “chef de bataillon” (ovvero maggiore), serve in diversi reparti, fra cui il suo vecchio 5° R.T.M, nel 1957 diventa tenente colonnello in Algeria dove nel 1959, viene ferito, e infine conclude in certo modo la parabola patriottica della sua esistenza entrando al “Service Action” incaricato delle operazioni nascoste dello spionaggio francese (allora SDECE ora DGSE), vale a dire nel reparto che si occupa dei colpi “duri” e clandestini. Devigny ne diventa, dal 1971 al 1976, addirittura il direttore. Quando va in pensione è promosso generale di brigata. Si ritira, naturalmente in Savoia, a Hauteville sur Fier, e vi muore, a 83 anni di età, il 12 febbraio 1999. A conclusione, a testimonianza dell’altissimo livello in cui operarono durante la Resistenza, vorrei ricordare che sia Devigny che i due fratelli Ponchardier prima citati vennero fatti “Compagnon de la Libération”, vale a dire membri di un ordine selezionatissino, istituito da De Gaulle nel novembre 1940 per rimeritare i benemeriti della lotta antitedesca. I “Compagnon” furono in tutto 1038 (ormai sono quasi tutti morti) più 18 reparti militari e 5 Comuni di Francia. Un curioso tocco cinematografico è quello che riguarda il minore dei Ponchardier, Dominique, (anche nel dopoguerra uomo di fiducia del gollismo nella lotta contro l’O.A.S.) che da ex-agente segreto si tolse la voglia di diventare scrittore - con il mezzo pseudonimo di A.L.Dominique - proprio di “spy-stories”. Il suo personaggio-base, il forzutissimo agente segreto Geo Paquet detto “Il gorilla”, fu addirittura al centro di una sessantina di fortunati romanzi seriali e fu portato sullo schermo con grande successo da Lino Ventura ed anche da Roger Hanin.

ERRATA CORRIGE


Vorrei fare due precisazioni: l'una é che nel brano su Obama non ho parlato delle origini etniche del padre, il quale apparteneva al popolo dei Luo, dislocati anche in Kenya ed ivi soggetti al dominio dei Kikuyu (molto più potenti e più numerosi dei Luo, nei confronti dei quali esiste un antico odio tribale). Ho visto un documentario sul paese natale del papà di Obama - poverissimo ma estremamente festoso per il successo nella gara presidenziale dell' "enfant du pays" - nel corso del quale uno degli abitanti diceva che Barack aveva avuto fortuna ad essere in America per potersi candidare alla massima carica, perchè in Kenya i Kikuyu non avrebbero mai permesso ad un Luo di fare una cosa del genere.

Una seconda precisazione che debbo fare riguarda il brano "Il trio Melting Pot". Ove i dati che ho fornito sulle cariche conferite a Leon Panetta e Dennis C. Blair sembrerebbero esatti, senza tuttavia che, dalle notizie di agenzia, si capisca esattamente quali sono, sempre nel campo dell'intelligence, i compiti assegnati ad un'altra italo-americana, e cioè Janet Napolitano, che dovrebbe essere posta a capo della Homeland Security, vale a dire l'incarico che mi sembrava d'aver capito fosse stato assegnato a Blair. Sia sui giornali che in internet ci si imbatte in una guazzabuglio di definizioni simili e/o concorrenziali. Mi prenderò tutto il tempo necessario e cercherò di fornire notizie sicure e collaudate. Mi secca dar l'impressione di alimentare il blog con dati, ma non per mia colpa, non sufficientemente controllati.

21 gennaio 2009

CAMERA EYE: I DIMENTICATI PILOTI NERI

Ho visto sui satelliti quasi per intero l’intronizzazione di Barack Obama, cogliendo con l’interesse di un vecchio americanista (di fatto lo sono come quasi tutti gli appassionati di cinema americano) le migliaia di strizzatine d’occhio che ogni lunga cronaca televisiva riserba agli spettatori attenti. Ad esempio per ben tre volte, assai distanziate nel tempo, le telecamere si fermavano su alcuni vecchi neri, tutti con berrettini da baseball sui quali si leggeva chiaramente la scritta: “Tuskegee Airmen”. Si tratta di una singolare curiosità della seconda guerra mondiale e, al tempo stesso, di una sorta di debito d’onore che Obama ha voluto pagare all’associazione che riunisce i superstiti. Infatti i “Tuskegee Airmen” furono gli unici piloti di aerei da guerra di razza nera che i riluttanti generali dello U.S.A.A.F. (United States Army Air Force), aviazione dell’esercito, accettarono nelle loro file. All’epoca non esisteva, a differenza di Italia, Germania, Inghilterra, eccetera, un corpo autonomo dell’aviazione militare, che era invece negli Stati Uniti equamente divisa fra le forze armate, e cioè esercito e marina, che aveva infatti la U.S.N. Air Force, dove la “N” sta per Navy. Le pressioni di Roosevelt, e ancor più di sua moglie Eleanor (era impensabile forzare la mano alla Marina, se possibile ancor più segregazionista dell’esercito), costrinsero ad ammettere nelle loro file anche dei piloti neri, che però subirono anch’essi la rigida costrizione in reparti “monocolore”, come accadeva per tutte le forze armate americane (naturalmente in Marina bianchi e neri erano mescolati, ma questi ultimi erano confinati in compiti servili, come cuochi, camerieri, eccetera). I generali dell’aviazione dell’esercito, persuasi che i neri non avessero l’intelligenza sufficiente per pilotare un aereo, concentrarono mal volentieri gli allievi volontari a Tuskegee, cittadina dell’Alabama, stato razzista per eccellenza, dove tuttavia esisteva fin dal 1881 il “Tuskegee Normal School for Colored Teachers”, diventata più tardi il “Tuskegee Institute” e successivamente la “Tuskegee University”, fondamentali nello sviluppo di una istruzione superiore destinata negli Stati Uniti alle persone “di colore”. Ciò che probabilmente non era stato ipotizzato è che rispondessero in molti candidati e si mettessero in luce per le eccellenti qualità che dimostrarono nell’apprendimento delle regole di pilotaggio di aerei militari. Ben presto formarono un gruppo di piloti da caccia di alto livello professionale. A Tuskegee furono ben 994 i giovani che diventarono piloti e di essi 450 vennero inviati in Europa nel 99° Pursuit Squadron o nel 332°Air Expeditionary Wing Fighter Group.
Concentrati prima in Africa e poi in Italia (a Ramitelli, in provincia di Campobasso), si specializzarono nello scortare i bombardieri sulla Germania, e prima avevano volato su Monte Cassino e Anzio (piloti dei bombardieri americani e tecnici di bordo furono addestrati in altre località e non a Tuskagee). Ebbero in combattimento 6 morti e, credo, 36 piloti abbattuti sulla Germania. Inizialmente erano stati comandati da ufficiali bianchi o portoricani, ma poi i superiori vennero scelti nelle loro file a cominciare da un personaggio romanzesco, Benjamin O. Davis Jr., figlio del primo generale di colore delle forze armate americane, ma che si era ostinato a frequentare l’accademia di West Point, dove patì quattro anni di feroci umiliazioni con i compagni che ostentatamente lo ignoravano e gli rivolgevano la parola solo per motivi di servizio. Davis tenne duro sino all’ultimo, durante la guerra diventò colonnello, e poi alla fine generale a quattro stelle. In quanto ai suoi piloti – soprannominati dai tedeschi, che si erano accorti della loro origine, “Schwarze Vogelmenschen”, ovvero “Uccelli neri” – si erano guadagnati nelle file americane il soprannome di “Red Tails” o “Red Tails Angels”, a causa dell’insegna color porpora dipinta verticalmente sulla carena dei loro apparecchi, tutti aerei da caccia tipici del periodo, e cioè inizialmente i P-40 Warhawks, poi nel Marzo ’44 i P-39 Aircobras, poi dal Giugno al Luglio 1944 i P-47 Thunderballs, e infine dal Luglio ’44 fino alla fine della guerra i P-51 Mustang, che divennero poi il simbolo stesso del loro reparto. Complessivamente i Tuskegee Airmen scortarono bombardieri su molti paesi europei e non sono sulla Germania, vennero accreditati di 109 apparecchi della Luftwaffe abbattuti (ma com’è noto i criteri di valutazione americani erano molto più approssimativi e tolleranti di quelli inglesi della Royal Air Force) e ricevettero numerose decorazioni: varie “Silver Star”, 150 “Distinguished Flying Cross”, 8 “Purple Heart”, quelle che spettano ai feriti, 14 “Bronze Star” e 744 “Air Medal”.
Solo sotto la presidenza di Clinton i Tuskagee Airmen furono pubblicamente ringraziati per quello che avevano fatto durante la guerra ed a questo tardivo riconoscimento si unisce l’omaggio esplicito tributato da Obama, che ha voluto invitare nominalmente i superstiti, ancora numerosi, alla cerimonia del giuramento.
Vorrei tornare sull’argomento Obama altre volte, ma qui ho anche già abusato troppo della pazienza di Chiara, che batte a macchina queste righe. Mi limito a fare un’osservazione. In questi giorni si è detto che egli era un tipico rappresentante degli Afro-Americani. Il che è vero e non è vero insieme. Come figlio di un kenyano, trasferitosi in America per studiare e poi tornato in Africa, egli è sicuramente “afro” molto più di milioni di americani dalla pelle scura i cui avi, però, sono stati portati di peso negli Stati Uniti, magari qualche secolo fa. In compenso sua madre è bianca, per cui il “mulatto” Obama è e non è un tipico rappresentante del popolo dei ghetti. Semmai un simbolo di un incrocio che con lui diventa anche un simbolico punto d’arrivo.

12 gennaio 2009

CAMERA EYE: IL TRIO MELTING POT








Due giorni fa ho visto sul canale televisivo della CNN la cerimonia di presentazione ai giornalisti del nuovo capo della CIA, Leon Panetta e del nuovo capo, Dennis C. Blair, della National Intelligence, vale a dire dell’organismo che in America coordina tutte le numerosissime agencies di spionaggio e controspionaggio, con la preoccupazione di fondere in un unico corpo le innumerevoli informazioni riguardanti il terrorismo (è un frutto della reazione agli attentati dell’11 Settembre 2001).
Le immagini in televisione sembravano frutto di un calcolatissimo meccanismo di propaganda interrazziale. Vale a dire l’esaltazione di quel “melting pot” (letteralmente “crogiolo”) che un tempo affascinava i laudatori dell’integrazione delle diverse componenti etniche, base della società americana. Infatti al centro della cerimonia si vedeva Barack Obama, indubbiamente “abbronzato” all’apparenza, titolare di quel colorito scuro tipico di tanti “coloured” americani di successo (da Condoleeza Rice a Colin Powell, assolutamente neri di razza ma palesemente contagiati da qualche tocco di sangue bianco; nel suo caso esplicitamente richiamato dalla madre). Al fianco del Presidente eletto spiccava l’immagine assolutamente calabrese di Panetta e quella, molto “Wasp”, dell’ammiraglio Blair. Si aveva l’impressione che Obama, al di là dei meriti dei singoli, avesse deliberatamente operato una commistione visuale in modo da mandare un messaggio molteplice ma esplicito al pubblico. Tre delle fondamentali componenti della società americana di oggi (i neri, gli italo-americani e gli anglosassoni; esclusi dall’immagine gli ebrei e gli ispanici, che sicuramente arriveranno in qualche altra proclamazione di apparenza e di sostanza) erano abilmente riassunte con una sola operazione, che ha richiami evidenti ma che corre qualche rischio. La nomina di Panetta, infatti, è stata molto contrastata anche da esponenti democratici perché l’uomo ha accumulato molteplici esperienze ma nessuna nel ramo specifico dello spionaggio, che a molti deputati sembrava essere un’esigenza assoluta per un uomo messo a dirigere la più importante “agenzia” statale investigativa americana, e cioè la CIA. È stato in passato uomo di fiducia di Bill Clinton, che lo aveva nominato “Chief of Staff” della Casa Bianca, carica che in genere è riservata a persona di assoluta fiducia, e per sedici anni (dal 1977 al 1993) membro della “Camera dei rappresentanti”. È un tipico esemplare di quell’ampio nucleo di immigrati italiani meridionali di stretta osservanza cattolica che hanno contraddistinto tutta un ampio frammento degli Stati Uniti. È nato in California a Monterey il 28 Giugno 1938, i suoi genitori avevano un ristorante, ha frequentato scuole cattoliche, un’Università anch’essa cattolica, la “Santa Clara University” (gestita dai Gesuiti), ove nel 1960 si è laureato “magna cum laude” ottenendo un BA in Political Science, e tre anni dopo, nel 1963, si è laureato in Legge e ha cominciato a fare l’avvocato. Da quel momento è iniziata una lunga carriera politica, prevalentemente democratica. Inaspettatamente Obama ha ripescato quest’uomo di fiducia di Clinton (la sua carica alla Casa Bianca durò dal 17 Luglio 1994 al 20 Gennaio 1997) che sembrava ormai stabilmente ritornato alla sua professione di avvocato, anche se non ha mai interrotto i rapporti con organismi politici. Se Panetta è una scommessa lo è un po’ meno Dennis C. Blair, ufficiale di Marina ormai in pensione, che è stato comandante in capo delle forze americane nel Pacifico, l’incarico di maggior peso di tutte le forze americane nella regione asiatica del Pacifico. Ha avuto anche esperienze nello spionaggio militare ed è stato protagonista di uno scontro con le autorità civili americane mentre aveva luogo il delicato rapporto con l’Indonesia ai tempi dell’occupazione di Timor. Appartiene a quella stessa tradizione familiare, tipica anche della vita di McCain, che aveva un padre e un nonno ammiragli. Blair, anche lui proveniente dall’accademia navale di Annapolis, può vantare addirittura cinque generazioni di antenati ufficiali e fra le sue varie esperienze c’è anche una “Rhodes Scholarship” a Oxford, ove si è laureato in “Russian Studies”, nello stesso periodo in cui anche Bill Clinton studiava a Oxford. Adesso dipenderà da lui far funzionare il complicatissimo meccanismo dei molteplici dipartimenti, di fatto indipendenti l’uno dall’altro, dello spionaggio americano. Mi limiterò a ricordare i cinque servizi militari (Marina, Esercito, Aviazione, Marines e la DIA, il servizio segreto della Difesa che avrebbe dovuto sostituirli tutti e che invece ha finito con l’allinearsi al loro fianco). Poi il Ministero dell’Energia, il Ministero degli Esteri, il Ministero del Tesoro, la DEA (Drug Enforcement Administration), l’FBI, la National Geospacial Intelligence Agency, la National Reconnaisance Agency, la National Security Agency (quella che intercetta mezzo mondo e che è il più ampio e più ricco meccanismo di spionaggio americano), la Coast Guard, per non citare che i principali. Credo ne facciano parte anche i servizi investigativi delle dogane, quelli che controllano i confini degli Stati Uniti, gli U.S. Marshals, e anche altri settori della complicatissima organizzazione pubblica americana. Tenere in piedi un organismo di controllo e di coordinamento mi pare un’impresa estremamente difficile e non so quanto i governanti americani ne siano soddisfatti.
In ogni caso basta vedere le foto di Panetta, con quella sua inconfondibile aria da prefetto calabrese, e quella di Blair, alto, rigido, stempiato, anglosassone palesemente modellato da Annapolis, per capire che Barack Obama è un autentico uomo di stato americano, abilissimo (come abbiamo appreso al cinema e nei romanzi) a tenere in piedi un sistema integrato di pesi e di contrappesi che sembra uscito da un romanzo di spionaggio.