Blog - Crediti


L'audio e i video © del Blog sono realizzati, curati e perfezionati da Lorenzo Doretti, che ha anche progettato l'intera collocazione.
L'aggiornamento è stato curato puntualmente in passato da diverse collaboratrici ed attualmente, con la stessa puntualità e competenza, se ne occupano Laura M. Sparacello ed Elisa Sori.

27 luglio 2012

IL MISTERIOSO (E DRAMMATICO) PROBLEMA DELLE PROVINCE



Mi riservo di ritornare sull’ argomento se, e quando, avrò trovato maggior materiale in proposito. Per ora voglio soltanto comunicare la mia perplessità di fronte alla trionfalistica decisione di ridurre (in un primo tempo di abolire) le Province. Sono uno dei pochi legami che ci uniscono ancora al Risorgimento e quindi anche, per il loro fisiologico rapporto con le Province, alle istituzioni stesse delle Prefetture e perciò all’ esperienza napoleonica in Italia.
Ho paura che per portare a termine un esperimento (dovrebbe farci risparmiare non so bene quanto denaro) da un lato allargheremo i poteri, sempre più esaltati, delle Regioni, notevole fonte di spesa e di posti dirigenziali. E dall’altro peggioreremo ulteriormente la situazione dei Comuni. L’istituzione delle cosiddette “Città metropolitane” allargherà i confini, già barcollanti, di quei Comuni che verranno ulteriormente ingranditi. Penso per esempio alla Liguria, dove Genova arriverà ad inghiottire, se ho capito bene, Comuni vicini e per ora abbastanza floridi. Ripetendo quell’errore che fu sotto il Fascismo l’invenzione della cosiddetta “Grande Genova”, che con l’andar del tempo inflisse un colpo mortale a Comuni un tempo funzionanti, da Nervi a Sampierdarena. D’altro canto la riduzione delle Province soltanto a due, a levante La Spezia e a ponente Imperia  (peraltro nata scioccamente nel 1923, quindi già sotto Mussolini, dalla fusione forzata di due Comuni che si sono sempre odiati, Porto Maurizio e Oneglia) spaccherà maggiormente la Regione. Ribadendo la presenza di un ponente di destra e di un levante di sinistra, differenze relativamente temperate dall’attuale presenza della Provincia di Savona e, grazie appunto alla Provincia di Genova, di una grande città meno invasiva.
Non so se sono il solo a deplorare tutto ciò ma penso comunque di avere ragione.

26 luglio 2012

9 - Alcuni film americani che conviene avere visto - Bandiera gialla

NONA PUNTATA DELLA RUBRICA IN CUI SI "RECENSISCONO" OPERE CINEMATOGRAFICHE DEL PASSATO PROSSIMO
Bandiera Gialla (Panic in the Streets) di Elia Kazan (1909-2003)

E’ un film del 1950 interpretato da Richard Widmark (dottor Clinton Reed), Barbara Bel Geddes (Nancy Reed), Paul Douglas (l’agente Tom Warren) e da Jack Palance nella parte di Blackie (qui probabilmente all’esordio, il suo vero nome era Volodymyr Palanhiuk). Il pavido Raymond Fitch è interpretato da Zero Mostel, grande attore di carattere, molto stimato da Kazan e messo da parte durante il periodo del cosiddetto maccartismo. Poldi è interpretato da Guy Thomajan. Lo sceneggiatore fu Daniel Fuchs, la supervisione alla sceneggiatura di Stanley Sheur, la sensibile fotografia in bianco e nero di Joe Mac Donald. La versione italiana del film è doppiata, per le parti principali, da attori che conosciamo poco: Widmark è doppiato da Adolfo Geri, Douglas da Gaetano Verna, Barbara Bel Geddes da Clelia Bernacchi. Nei personaggi minori si ritrovano invece le voci famose di Giorgio Capecchi, Giuseppe Rinaldi, Luigi Pavese, eccetera. Mi sembra interessante riportare qui una dichiarazione del regista a proposito del film: “Avevo deciso di non essere più schiavo di un copione e in Bandiera Gialla per la prima volta l’ho trascurato. Avevamo un camion di accessori con una macchina d ascrivere dove ogni mattina lavoravo con lo sceneggiatore (adattamento Daniel Fuchs, supervisione: Stanley Sheuer). La sceneggiatura all’inizio era mediocre ma potevamo riscrivere ogni scena-e soprattutto utilizzare i colori e la straordinaria ricchezza di New Orleans. Abbiamo girato nelle strade dei bordelli, nei bar malfamati, sui moli. Ho mantenuto un tono di improvvisazione per tutta la lavorazione del film invece di osservare rigidamente il testo scritto. Nessuno dello studio controllava il nostro lavoro: non si sapeva mai dove sarei andato l’indomani e abbiamo fatto delle riprese in ogni quartiere della città cosa che faceva impazzire tecnici e attori. Alcuni si lamentavano delle mie decisioni improvvise di prendere la barca o il treno. Però mi sono più divertito che in tutti i miei lavori precedenti.” (Dall’intervista di Michel Ciment riportata in “Elia Kazan” a cura di Edoardo Bruno) Bandiera Gialla è il sesto lungometraggio di Elia Kazan preceduto, oltre che da due brevi documentari del 1937 e del 1945, da cinque film di fiction propriamente detti: “Un albero cresce a Brooklyn” (1945); “Il mare d’erba” (1947); “Boomerang, l’arma che uccide” (idem); “Barriera invisibile” (idem); “Pinky la negra bianca”(1949). Kazan arrivò al cinema e ottenne un certo successo sin dall’inizio dopo una lunga e fortunata attività di uomo di teatro: attore, in almeno dodici spettacoli diversi, dal 1930 al 1941; regista, dal 1934 al 1964, di quasi trenta spettacoli, molti di successo. Abile e addestrato sin dall’inizio nel cinema al controllo e alla direzione degli attori, si impratichì rapidamente nel linguaggio delle immagini, via via dimostrando una conoscenza sempre maggiore ed una personalità estremamente adatta al nuovo mezzo di comunicazione. Per scrupolo cito qui anche i film successivi a “Bandiera Gialla”: “Un tram che si chiama desiderio” (1951); “Viva Zapata!” (1952); “Salto mortale” (1953); “Fronte del porto” (1954); “La valle dell’Eden”(1955); “Baby Doll-La bambola viva”(1956); “Un volto nella folla” (1957); “Fango sulle stelle” (1960); “Splendore nell’erba” (1961); “Il ribelle dell’Anatolia (America America)” (1963); “Il compromesso” (1969); “I visitatori” (1972); “Gli ultimi fuochi” (1976). Dopo questo film non vi sono tracce di altre opere di Kazan, che morì come si è detto nel 2003 a 94 anni, dimenticato dai produttori ma non dagli appassionati di cinema. Si tenga conto del fatto che diversi suoi film degli anni ’50 furono non solo un successo ma anche un vero caso internazionale: “Un tram”; “Fronte del porto”; “Baby Doll”, eccetera. Fra tutti quello forse più toccante è “America America” dove Kazan ripercorre idealmente il cammino dei genitori. Infatti Georges Kazanjoglu e Athena Simanoglu appartenevano entrambi alla minoranza greca della Turchia (parlavano greco in casa e turco fuori). Quando Elia era piccolissimo i genitori si trasferirono a Berlino, poi tornarono ad Istanbul e infine emigrarono negli Stati Uniti, arrivando a New York nel 1913. Qui visse Kazan, dall’età di 4 anni fino alla morte, identificandosi profondamente con la città, le sue caratteristiche ed i suoi problemi. Figura decisiva nella storia del cinema americano da metà degli anni quaranta sino alla metà degli anni settanta, Kazan lo è stato anche per tutta quella Hollywood che fisicamente e moralmente fa capo a New York. All’inizio degli anni cinquanta fu protagonista di un momento molto discusso dei processi mossi dalla speciale commissione del Congresso degli Stati Uniti contro i comunisti. Kazan ammise di esser stato iscritto al partito comunista americano e di essere poi stato praticamente espulso per motivi ideologici. Profondamente anti-staliniano, almeno dalla firma del patto Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939. Kazan ha rivendicato il diritto, in un momento molto particolare della lotta ideologica nel mondo, di denunciare il suo passato e quelli che erano stati obiettivamente i suoi compagni di militanza e quindi, almeno potenzialmente, di tradimento. (Il Dvd del film, su cui ha lavorato Doretti, è stato acquistato attingendo al sito E-bay.it, ed è costato 16,49 euro comprese le spese di spedizione).

25 luglio 2012

Il 25 LUGLIO (1943) NEI RICORDI VAGHI MA STRINGENTI DI UN RAGAZZO DELL'EPOCA.


Mi sono accorto, per caso, che oggi è il 25 luglio, ed ancora una volta mi sono reso conto di come crudelmente si stemperino gli avvenimenti e le date importanti, logorate dal trascorrere del tempo.
Forse la mia è l’ultima generazione (già i settantenni sono automaticamente esclusi) che possa in qualche modo ricordarsi di che cosa rappresentò per un’ intera nazione  la data del 25 luglio 1943. E’ ormai destinata ad allinearsi negli sgabuzzini del tempo insieme ad altre date decisive nel momento in cui prendevano corpo, via via abbandonate ad ingrigire nell’indifferenza (da quella della dichiarazione di guerra del 1940 a quella della caduta del muro di Berlino …).
Il 25 luglio 1943 avevo 13 anni e 9 mesi ed ero perciò abbastanza ricettivo per cogliere l’estrema importanza di quel che era successo. Se ricordo bene accadde in mattinata (eravamo in campagna, presso Novi Ligure): mia madre si avvicinò al mio letto, cominciò a scuotermi dolcemente e quando, con la riluttanza a svegliarsi tipica dell’adolescenza, apersi gli occhi, essa mi disse: ”Claudio svegliati, è caduto Mussolini!”.
Teniamo conto di quale era l’automatismo dell’insegnamento “statale” durante il periodo del fascismo. Alla mia nascita Mussolini era Presidente del Consiglio e Capo del Governo già da 7 anni, sicché quando andai alle scuole elementari e poi alla scuola media, la struttura formale del consenso era già stata eretta e solidificata. Come dimostrano gli avvenimenti successivi al 25 luglio l’immenso apparato della costruzione fascista crollò in pochi giorni, con una partecipazione di popolo altrettanto fastidiosa di quanto lo erano state le innumerevoli folle festanti dell’ostentazione fascista. Ma per un ragazzo della mia età la notizia era pur sempre enorme, e quasi incredibile. Bisogna ricordarsi che fin dalla prima elementare eravamo soggetti ad un meccanismo di integrazione, italicamente cinico ma in apparenza ferreo e incrollabile. A partire dal primo giorno di scuola divenni Figlio della Lupa e successivamente, mi pare con l’arrivo nella scuola media, Balilla. In particolare Balilla Marinaretto perché frequentavo una scuola ormai scomparsa, il Vittorino da Feltre di Via Anton Maria Maragliano a Genova, tenuta dai Padri Barnabiti (vi aveva perfino studiato, credo in corsi di ragioneria poi scomparsi, Eugenio Montale). Dalle elementari al liceo tutti gli alunni formavano un unico reparto della G.I.L. chiamato Legione Autonoma “Antoniotto Usodimare” (un cognome particolarmente adatto per un corpo di apprendisti marinai). In realtà non apprendevamo niente perché il nostro Rettore fu per anni un sacerdote fascistissimo, che era stato perfino, durante la conquista dell’Impero, cappellano di una divisione delle milizie, la “23 Marzo”. Grazie alla presenza del Rettore eravamo considerati, evidentemente, tanto fidati da venire di fatto esentati dalle obbligatorie adunate del cosiddetto “Sabato fascista”, che invece guastavano le feste a tutti gli alunni delle scuole governative. Ma comunque l’identificazione formale del fascismo con la Cosa Pubblica e di quest’ultima con la perfezione, era totale. Mi ricordo che in classe nella parete di fronte a noi vedevamo il Crocefisso ed ai due lati le fotografie del Re e del Duce, come in una sorta di Trinità eretica ma patriottica.
Ovviamente il tentativo di comprendere quello che era successo fu vivissimo in me per tutti i 45 giorni di Badoglio. Mi ricordo ancora della curiosità accesa con cui seguivo sul Corriere della Sera le prime, scaltre cronache da Roma ove venivano esplorati tanti aspetti del Regime appena crollato. Comprese le indiscrezioni fra il liberatorio e il servile con cui veniva sollevato il mistero che aveva circondato la relazione fra Mussolini(chiamato nell’intimità Bibi, precisavano i giornali) e la Petacci.
Insomma quel 25 luglio di 69 anni fa rappresentò per me una sorta di clamorosa iniziazione al mondo degli adulti. Che da ragazzi al tempo stesso si invidia e si depreca, all’interno di quell’eterna commedia drammatica del vivere, dell’invecchiare e del morire in cui si riassume il mistero della nostra esistenza.
Dire (come facevano i nostri antichi quando ricorrevano a citazioni francesi per sentirsi importanti), “tout casse, tout passe, tout lasse” è forse banale ma al tempo stesso decisivo.

21 luglio 2012

A DOMANDA RISPONDE E RINGRAZIA


Ringrazio di cuore gli otto corrispondenti che mi hanno inviato un post dopo che avevo messo una nota sul mio ricovero a San Martino (Pronto Soccorso). Potrei rispondere con lo stesso annuncio pubblico che nell’ ottobre del 1944 fece il Maresciallo MacArthur di ritorno nelle Filippine, abbandonate, incalzato dai giapponesi, nel marzo del 1942. Egli, circondato da fotografi e da cineoperatori, mise i piedi nell’ acqua scendendo da un mezzo da sbarco su una spiaggia sabbiosa e dichiarò: “I come back!” (credo che, per facilitare le riprese, abbia dovuto ripetere il gesto due volte ma quel che conta che alla storia sia stata consegnata un’immagine unica).
Anch’io sono di ritorno e mi sento pertanto molto vicino a MacArthur.
Ho fatto un utile esperienza sui pregi e sui difetti del funzionamento di un importante reparto di emergenza di un grande ospedale. Chi non ci vive probabilmente non è in grado di capire che cosa sia l’afflusso continuo, ininterrotto e angoscioso di malati già coricati su barelle, spesso in condizioni gravi, e così numerosi da dover essere per ore e ore parcheggiati nei corridoi. Non sembra di essere nell’ospedale di una città di soli 600 mila abitanti ma si ha l’impressione di vivere in una metropoli senza confini.
Cito qui di seguito le persone che mi hanno inviato un post al riguardo: Rosellina Mariani, Rear Window (Paolo), PuroNanoVergine, Rita M., Carlo Bernasconi, Principe Myskin e due Anonimi. Ripeto i miei ringraziamenti collettivi e singoli. Ringrazio anche Sandro Cima Vivarelli che, sempre per lo stesso motivo, mi ha inviato un’e-mail(all’indirizzo:claudio.g.fava@village.it). 
Gli faccio osservare che può scrivere direttamente sul Blog (Clandestino in galleria) ricorrendo ad una semplice operazione: entra nel mio pezzo da lei prescelto, clicca su “posta un commento”, lo scrive nello spazio a ciò destinato e clicca ancora sul rettangolino intitolato “pubblica commento”. 
A questo punto l’operazione è conclusa.


18 luglio 2012

ASSENTE GIUSTIFICATO

Sono assente dal Blog da almeno sette giorni dato che sono stato ricoverato per una fastidiosa, ma non grave, complicazione intestinale all'Ospedale San Martino di Genova.
Sono collocato in un'appendice del Pronto Intervento, chiamata Unità di Crisi. La cosa mi lusinga molto perché mi sembra di aver vinto un concorso al Ministero degli Esteri. Mi auguro di essere riconsegnato alla vita civile entro la prossima settimana. Proseguirà comunque la preparazione di un film americano d'epoca, che spero piaccia a voi così come è piaciuto a Doretti.
Per ora molti saluti a tutti,
Claudio G. Fava

9 luglio 2012

MINIMA (MA SPERO UTILE ) PRECISAZIONE RIGUARDANTE IL FILM “L’ULTIMA MINACCIA” E, IN PARTICOLARE, IL TITOLO ORIGINALE AMERICANO


Nel testo che accompagna le immagini e la “recensione” de “L’ultima minaccia” (vedi giorno 03/07/12) ho ricordato che il titolo originale contiene la parla “deadline”, la quale in inglese ha diversi significati, tuttavia in qualche modo affini: "termine non prorogabile" oppure "linea insuperabile" e anche "ora di scadenza”. Quasi per caso, ricercando altri temi, ho trovato una spiegazione più calzante, e più strettamente cinematografica, nel libro di Jacqueline Nacache “Il cinema classico hollywoodiano” edito nel 1996 da “Le Mani” (che per combinazione è lo stesso editore del mio libriccino “Guerra in 100 film”). All’interno di un capitolo intitolato “Hitchcock e il racconto in sospeso” l’autrice, fra l’altro, dedica un ampio frammento proprio all’argomento, scrivendo appunto della “regola della deadline” che definisce, sulla scorta di quanto affermato da D.Bordwell, “una sindrome”, precisando che “è uno dei marchi di fabbrica della drammaturgia hollywoodiana. Ricorda che: “(…) innumerevoli sono i film di tutti i generi nei quali l’intreccio è dinamizzato  da un’ ora data/limite, si che si tratti di una rapina a mano armata, vedi Rapina a mano armata, dell’edizione di un giornale, vedi L’Ultima Minaccia, del ritorno di tre marinai in licenza, vedi Un Giorno a New York, di una partenza che si tratta di ritardare o di annullare, vedi Incontriamoci a St. Louis. La “Deadline” può esistere nonostante la sua scarsa visibilità: si consideri ad esempio il momento del ritorno al presente nel caso di un film raccontato sottoforma di flashback. La Nacache ricorda ancora che altri tipi di cinema (e soprattutto il cinema moderno) sempre secondo Bordwell, sono caratterizzati proprio dal rifiuto di imporre un limite alla durata della storia: si veda il trattamento del tempo in Ejzenštein, Ozu, Tati, Fellini, Bergman, Antonioni. La Nacache, dal canto suo, aggiungerebbe i film americani di Murnau, Sternberg, Stroheim…e più tardi i film americani di Lang. “Generalmente” essa precisa “i cineasti europei di Hollywood rivelano spesso la loro originalità nel modo in cui trattano il tempo del racconto”. Infine, conclude l’autrice francese, “nei film di suspense il procedimento della deadline è accentuato sotto tutte le forme: è volentieri ripetuto in diverse sequenze che instaurano deadlines secondarie; i termini di tempo sono più brevi, il tempo viene suggerito nel suo ineluttabile scorrere “il dettaglio del quadrante di un orologio o di un pendolo è di per sé una micro-figura della suspense.”
Mi auguro che queste righe consentano di individuare meglio il sapore, al tempo stesso complesso e perentorio, implicito nel titolo originale in cui alla parola “deadline” si salda la parola “U.S.A.”, così da far capire che il termine ultimo riguarda non solo i personaggi ma addirittura gli interi Stati Uniti, giusto per ricordare che il problema della stampa quotidiana (ed eventualmente della sua crisi) non è un problema singolo, o solamente di questo o quel quotidiano, ma di tutta la stampa americana in generale.
Forse questa precisazione è eccessivamente pignola. Ma, ovviamente, nello scriverla sono stato mosso da una preoccupazione di chiarezza che si lega alla stima, e vorrei dire all’affetto, sempre nutrito, fin da giovane, per il film di Richard Brooks.

7 luglio 2012

A DOMANDA RISPONDE: ANCORA TITOLI DI FILM!


In attesa di riuscire a rispondere alla sua domanda sul cinema francese anni 30/60 (ho bisogno di un po’ di tempo per poter lavorare con calma) rispondo qui a Salvatore Biosa per quel che riguarda il film “Appuntamento al KM 424” (Des gens sans importance, 1956) di Henri Verneuil (Achad Malakian) con Jean Gabin e Françoise Arnoul. Pur essendo un vecchio estimatore di Gabin non ho mai visto il film, che però, conoscendo il regista di cui ho già avuto occasione di parlare, riesco quasi ad immaginare. Nel Dizionario di Morandini non viene menzionato, se ne fa cenno invece, abbastanza ampiamente, nel “Mereghetti – Dizionario dei Film”. Il giudizio di Paolo è significativo e sostanzialmente favorevole: "… gli ultimi fuochi del cosiddetto realismo poetico con un Gabin ormai (straordinariamente) invecchiato e un fatalismo che è diventato pura rassegnazione. Non c’è più spazio per la poesia: rimane un realismo cupo e senza sogni, espresso sia dagli attori che dal regista con una raffinatezza dolorosa e trattenuta. Verneuil è in stato di grazia, come non sarà più in seguito (da notare i lunghi piani – sequenza invisibili  ". Per scrupolo ho controllato anche un testo francese, e cioè la “Guide des Films” di Jean Tulard che dice letteralmente “… La qualité française des années cinquante. Un film très démodè où seule Françoise Arnoul tire son épingle du jeu. Mais le film conserve des partisans nostalgique d’un certain style ». Jean Tulard è noto soprattutto per essere il più grande specialista di Napoleone dell’ Università francese, ma ha anche un collaterale  lato cinefilo che lo ha indotto a pubblicare, fra l’altro, un amplissimo dizionario (il cinema, ci sarebbe detto una volta quando usavano le battute in francese, è il suo “violon d’Ingres”). Come può vedere nelle due citazioni che ho riportato il rispetto per il regista (sottovalutato ai tempi della “Nouvelle vague”) è palese, e tutto sommato mi fa piacere.
Veniamo al lettore “L. M.” che mi chiede inaspettatamente di parlargli di “Niagara” (idem, 1953) di Henry Hathaway, interpretato, come noto, da Marilyn Monroe con Joseph Cotten (il marito) e Richard Allan (l’amante). Confesso che il film mi ha sempre lasciato perplesso per la sua mescolanza di tonalità poco armonizzate fra di loro, anche se il meccanismo di fondo potrebbe essere benissimo quello di un “giallo” tradizionale. E questo nonostante io abbia una sorta di affettuoso rispetto per Hathaway. Come ho testimoniato anche nel Blog nella “recensione” di “Chiamate Nord 777”, è uno degli autori che hanno indubbiamente segnato la mia giovinezza. Morto nel 1985 a 87 anni, in più di quarant’anni di carriera è riuscito quasi sempre a muoversi con grande sapienza fra le molte tonalità del dramma avventuroso e del grande poliziesco d’epoca. Mi limiterò a ricordare “La gloriosa avventura”, “ La casa della 92° strada”, “Il bacio della morte”, “Rommel, la volpe del deserto”, “23 passi dal delitto”, “Nevada Smith”, “Il grinta”, fra i tanti titoli di un’ampia filmografia. Qui deve amministrare l’esplosione divistica di Marilyn, in una delle sue poche parti da “cattiva”, e nei limiti della sceneggiatura se la cava col mestiere.

6 luglio 2012

RISPOSTA SINGOLA A SALVATORE BIOSA


Ringrazio il lettore per le gentili parole sulle mie presentazioni. Non so se, come lui dice, “Il diario di un curato di campagna” sia “il film di maggior significato e spessore (…) per identificare i caratteri romanzeschi del cinema francese del dopoguerra”. Non dimentichiamo che dietro il film c’è il romanzo (1936) di Georges Bernanos (1888-1948). Personaggio estremamente complesso e figura essenziale di quella parte della narrativa francese che, dalla prima guerra mondiale all’immediato dopo-guerra della seconda, fu di esplicita vocazione e professione cattolica. Ebbe rapporti ora stretti ora tempestosi con L’”Action Française”, movimento monarchico e conservatore di Charles Maurras, ma dopo la disfatta scelse il campo gollista. Secondo una giusta osservazione contenuta in Wikipedia, nel romanzo “convergono due diverse sensibilità spirituali: quella del curato d’Ars (Jean-Marie Baptiste Vienney) e quella di Santa Teresa del Bambin Gesù” (santificati entrambi da Pio XI nel 1925). Infatti come il curato d’Ars “il giovane prete protagonista del romanzo è divorato da un forte zelo apostolico, totalmente dedito alla santificazione del gregge a lui affidato”, d’altro canto il testo si ispira a Santa Teresa nel seguir la via dell’”infanzia spirituale”. Come si vede pertanto un moto estremamente personale e doloroso di uno scrittore riversato da Bernanos nel film. Al contrario dietro “Un condannato a morte è fuggito” si collocano è vero, da una parte l’idea ascetica del modo di far cinema sempre perseguito da Bresson, ma dall’altra germogliano in modo complesso i coraggiosi sviluppi della lotta clandestina durante la seconda guerra mondiale, ribaditi da mille particolari del film che qui sarebbe troppo lungo analizzare (si veda la figura del drammatico personaggio, eroe della Resistenza gollista, dalle cui memorie il film è tratto). Pertanto con uno spettro molto più ampio di osservazioni e di echi. Per quel che riguarda l’evoluzione (involuzione?) del cinema francese dagli anni ’30 a metà degli anni ’60 mi riservo di studiare meglio l’argomento e di risponderle molto più in la a ragion veduta.
Per l’ultima domanda, riguardante le recensioni in DVD di film francesi mi dispiace dover confessare che io posseggo poco materiale visivo sul mio passato (salvo le video cassette sulla rubrica di TMC “Forte Fortissimo” e quelle riguardanti le numerose trasmissioni su Rai Tre effettuate a fianco di Gloria De Antoni e Oreste De Fornari). Forse Salvatore Biosa potrà trovare qualche cosa di interessante nel materiale “libero” che, indipendentemente da ogni mio intervento e controllo, circola senza sosta in internet, a dimostrazione del fatto che esiste un mondo parallelo al nostro mondo e che non sappiamo mai quale dei due è quello vero.

5 luglio 2012

RICORDO COMMOSSO DI LAURA GRIMALDI, GRANDE INTENDITRICE E GRANDE APPASSIONATA DI GIALLI.


Pochi giorni fa, a 84 anni, è morta Laura Grimaldi. Era nata in provincia di Firenze nel 1928, credo che poi si fosse trasferita a Bergamo e nel 1957 a Milano, dove frequentò la facoltà di Lingue all’Università Bocconi. Proprio come traduttrice dall’inglese e poi come consulente di traduzioni approdò alla Mondadori. In breve si impose come specialista di narrativa gialla, soprattutto “hard boiled”. Dopo Oreste Del Buono (un altro amico che, fra le mille cose di cui si occupava, fu anche un’autorità per quel che riguardava il poliziesco) Laura divenne direttore di Segretissimo – collana di romanzi di spionaggio che ha segnato tutta la mia generazione – e dei Gialli Mondadori. E lo fu anche di un’altra collana, ad egual titolo tipica di un periodo della nostra esistenza. Infatti, dal 1988 al 2004, diresse Urania, grazie a cui i romanzi di fantascienza irruppero clamorosamente nelle inquietudini librarie e culturali di diverse generazioni: inaugurò la collana “Le sabbie di Marte” di Arthur C. Clarke, uscito il 10 ottobre del 1952. Il primo dei molti curatori che si sono succeduti nel corso degli anni, e che  credo sia stato anche l’inventore della parola italiana per tradurre "scienze-fiction", fu Giorgio Monicelli. Fratello di Mario, fu appunto, in fatto di fantascienza, un autentico precursore e un’autorità indiscussa. Del resto quasi tutti quelli che impugnarono il timone di Urania furono di alto livello.  Si pensi a Fruttero e Lucentini, coppia smagliante di molti momenti della narrativa italiana, che ebbero in mano la rivista per 25 anni, dal 1961 al 1986.
Come si vede Laura fu al centro di un grande momento dell’editoria italiana, e ove si mosse da par sua. Grande traduttrice, ebbe anche il merito di curare la diffusione di molti grandi scrittori anglosassoni di gialli di ogni colore. Negli anni ’70 e ’80 fu apprezzato critico letterario per riviste e quotidiani, curò numerose antologie e scrisse essa stessa, spesso insieme a Marco Tropea, degli apprezzati libri di genere. Ricordo, fra gli altri “Il sospetto”, “La colpa”, “Il cappio al collo”, “La paura”, il breve “Monsieur Bovary”(senza contare le decine di volumi che sembra abbia scritto, agli inizi di carriera, con pseudonimo americano). Nel 1989 lasciò la Mondadori e creò con Marco Tropea (adesso, e da molti anni, diventato brillantemente editore per proprio conto) la casa editrice “Interno Giallo”, poi assorbita dalla Mondadori. Laura ha fatto dunque mille cose e ha avuto anche il coraggio di scrivere un libro, forzatamente l’ultimo, “Faccia un bel respiro” in cui ha parlato di sé, dell’ospedale, dei medici, degli infermieri, dei parenti a commento della grave malattia che l’aveva colpita.
Io ho conosciuto Laura Grimaldi tanti anni fa – ai tempi di quel festival del giallo iniziato a Cattolica, ripreso a Viareggio e approdato poi a Courmayeur, ove continua da molti anni con il nome di “Noir in Festival” – quando demmo vita, appunto, con Oreste Del Buono, con Irene Bignardi, con Giorgio Gosetti, con  e Lia Volpatti (per lunghi anni alla guida dei Gialli Mondadori)  e tanti altri amici ad un gruppo di appassionati di polizieschi, itineranti di Festival in Festival. Laura aveva un carattere duro, ma con me fu sempre amichevole, gentile e quasi affettuosa. Non la vedevo da anni ma ne avrò sempre un grande ricordo.

A DOMANDA RI-RISPONDE

Nella risposta precedente ho dimenticato di menzionare quel che ha scritto PuroNanoVergine a proposito di una sua amica che lavorava alla Coe & Clerici. Società che io ho menzionato per scrupolo, ricordando che uno dei suoi dirigenti-proprietari aveva “ereditato” da mio padre la carica di Console Onorario del Guatemala. In casi del genere si scrive “il mondo è piccolo”. Ma è proprio vero. In effetti è curioso che tante volte nella nostra esistenza, per banale che sia, si riesca a scendere dal generale dei grandi avvenimenti al particolare delle cose minime di cui è intessuta la nostra vita.
Smetto qui perché rischio di sembrare intelligente.

A DOMANDA RISPONDE

Risposte molteplici a Post di lettori riguardanti brani apparsi nel Blog il 15 il 18 e il 19 Giugno. 

Rispondo prima di tutto ai messaggi ricevuti dopo la pubblicazione di “Le nuove nomine alla Rai ed alcune (lamentose) notazioni personali”. Ringrazio come sempre, Rosellina Mariani, che testimonia, se ve ne fosse bisogno, della profonda fedeltà e dell’orgoglio aziendale (ne so qualcosa io) che anima migliaia di dipendenti e di ex-dipendenti della Rai, malgrado gli errori e le colpe di chi la dirige. “f.” mi dice che da molti anni non ha più un televisore e segue solo Radio Rai. E poi fa una curiosa digressione su Mario Monti, che accusa di pescare i collaboratori nelle Banche, tipo Merryl Linch, ed alla London School of Economics. Mi dice anche che Monti gli ricorda i Fugger. Mi vergogno a dirlo (mi vergogno veramente?No) ma non sapevo neppure chi fossero i Fugger. Ho fatto qualche ricerca e ho scoperto che si tratta di una dinastia di banchieri tedeschi, noti già nel 1300, divenuti finanziariamente potentissimi in Europa, poi nobilitati da diversi sovrani ed ora “proseguiti” da almeno tre famiglie patrizie che ne portano il cognome con aggiunte. Ringrazio il lettore che mi ha costretto a farmi una cultura in argomento, ma non vedo bene il rapporto fra gli onnipotenti Fugger (una sorta di famiglia Rothschild molto più antica e ancor più nobilitata) e l’ottimo professor Monti, la cui “ossessione bancaria”, ammesso che esista veramente, fa pensare più ad un corso specialistico della Bocconi che ad una plurisecolare trama tesa a controllare l’Europa intera… Ringrazio anche Rear Window (il suo immutabile logo raffigura James Stewart con in mano l’obbiettivo fotografico da giornalista, tipico de “La finestra sul cortile”) per le sue osservazioni cinematografiche della Rai. Veniamo ai 6 Post del 18 Giugno in seguito alla pubblicazione di “Qualche considerazione sul cinema hollywoodiano contemporaneo (si veda un elenco di titoli e di registi formulato da Renato Venturelli)”. Carlo Bernasconi si duole perché Billy Wilder e Blake Edwards non avrebbero eredi. Anche se la domanda allarga il senso dell’elenco formulato da Venturelli, mi pare proprio che si debba rispondere di si. Dal canto suo Rear Window mi dice che “The Tree of Life” non gli è piaciuto. Credo che sia un suo pieno diritto. Dal canto suo Rosellina Mariani concorda su molti titoli indicati da Venturelli ed aggiunge “un delizioso film che ha vinto lo scorso Festival del Cinema di Roma”. Si tratta di “Un cuento chino” (letteralmente vuol dire: “Un racconto cinese”). E’ però un film argentino, diretto appunto da Sebastiàn Borensztein (sembra uno di quei cognomi tipici degli ebrei askenaziti immigrati appunto in Argentina negli ultimi due secoli). Il protagonista è Ricardo Darìn, sia popolarissimo nella sua patria. Infine Anonimo, PuroNanoVergine ed un altro Anonimo suggeriscono diversi titoli di film americani (e qualcheduno francese). Non posso e non voglio entrare nei confini dei giudizi di Venturelli. Infine, in seguito all’inserimento nel Blog della “recensione” su “L’Ultima Minaccia” sono arrivati sino ad ora 4 post. Ringrazio per quel che scrivono Rita M. e Rosellina Mariani (fedelissima di “Clandestino in Galleria”). Vengo alle due domande di PuroNanoVergine, il quale fa riferimento ad una mia piccola rubrica mensile tenuta su Film Tv, intitolata “Salvate la Tigre” e intesa appunto a rievocare i “salvataggi” cinematografici da me portati a termine nei miei 24 anni di Rai. Mi chiede di sapere se Claude Sautet mi ha mai parlato di Emmanuelle Béart. Purtroppo no. Anche se mi ha raccontato moltissime cose di sé. Ad esempio che nel 1940 (aveva sedici anni) desideroso di diventare un montatore cinematografico aveva fatto mettere nella carta di identità, come indicazione della professione, la parola “Monteur”. Con il risultato che pochi anni dopo veniva ricercato dai tedeschi, i quali volevano mandarlo a lavorare in Germania, persuasi che si trattasse di un operaio montatore e quindi di uno specializzato. Un’altra cosa divertente che mi raccontò (aveva la fama di essere burbero e aggressivo ma con me fu sempre molto amichevole e quasi affettuoso) fu che, sempre nella famosa estate del 1940, che vide il crollo dell’esercito francese, si trovava ai bagni di mare quando si sparse la notizia che sarebbero sfilate delle truppe inglesi. In effetti passarono su automobili mai viste dei giovani biondi, si erano tolti le giacche delle uniformi, e salutavano cordialmente la folla di bagnanti venuti ad applaudirli. Ci fu poi una certa interruzione nel passaggio, finchè la sfilata di automobili mai viste e di soldati biondi a torso nudo ricominciò. Anche questa volta Sautet e i suoi giovani amici accorsero ad applaudire gli alleati inglesi. Quando la sfilata terminò si accorsero, con terrore retrospettivo, che avevano salutato con entusiasmo le avanguardie tedesche intenti a mettere la Francia in ginocchio. La seconda domanda di PuroNanoVergine riguarda la serie televisiva su Ellery Queen, che, egli dice, viene ora riproposta sul canale del digitale terrestre “Giallo” (credo sia il canale n.38) ma che venne trasmesso in passato alla Rai. Mi spiace disilluderlo ma sono totalmente estraneo all’operazione. Ho controllato il prezioso “Dizionario dei Telefilm” di Leopoldo Damerini e Fabrizio Margaria (edito da Garzanti, l’ultima edizione in mio possesso risale al 2004). I due sono importanti funzionari di Mediaset e per anni hanno organizzato a Milano un festival sui telefilm. Vedo che le date esatte sono le seguenti: la serie più nota ispirata ai racconti gialli di Ellery Queen (ritengo che sia quella a cui si riferisce PuroNanoVergine) è quella prodotta negli USA nel 1975 (26 puntate da 60’ ed una da 75’) con Jim Hutton nella parte di Ellery ed il padre di questi, Richard Queen, interpretato da David Wayne. Naturalmente vi sono state altre edizioni televisive, per le quale attingo evidentemente a Damerini e Margaria. Nel 1950 “The Adventures di Ellery Queen”, nel 1954 con lo stesso titolo e con l’aggiunta “Mistery Is My Business”, nel 1958 “The Further Adventures of Ellery Queen” e nel 1971 “Don’t Look Behind”. Infine Salvatore Biosa mi chiede indicazioni su Robert Bresson e su “Il diario di un curato di campagna” sul quale mi dice di aver visto almeno trenta volte (ma non sono troppe?) la mia presentazione in DVD. Ritengo si tratti di quello che ho registrato, con l’apporto decisivo di Lorenzo Doretti, per conto dei Paolini. Non è facile in poche righe ricordare chi fu Bresson. Il quale, nato il 25 Settembre 1907 e morto il 18 Dicembre 1999, è considerato “uno dei protagonisti della rinascita del cinema francese del secondo dopoguerra”. Molto spesso i suoi film e le vicende che egli ha prediletto testimoniano di un' attenzione per “l’analisi radicale della condizione etica dell’individuo, svolta attraverso un’ interpretazione del cristianesimo di ascendenza giansenistica”. Una tipica caratteristica di Bresson è “la ricerca del rigore formale, perseguita attraverso la riduzione all’essenziale dei mezzi più comuni della scrittura cinematografica (che) tende a definire uno sguardo puro sul mondo capace di trascendere il visibile per rivelare l’intima bellezza delle cose”. Ho attinto qui sfacciatamente, per semplificare la mia risposta, all’ampio testo di Alessio Scarlato contenuto alla voce “Bresson” nella Enciclopedia del Cinema della Treccani. Per riassumere l’opera dello stesso Bresson ricordo che i suoi lungometraggi sono i seguenti: “La conversa di Belfort” (1943); “Perfidia”(1944); appunto “Il diario di un curato di campagna”(1950); “Un condannato a morte è fuggito”(è il film, del 1956. che io preferisco); “Diario di un ladro” (1959); “Processo a Giovanna D’Arco”(1962); “Au hasard Balthazar”(1966); “Mouchette-Tutta la vita in una notte”(1967); “Così bella così dolce”(1969); “Quattro notti di un sognatore”(1971); “Lancillotto e Ginevra”(1974); “Il Diavolo probabilmente” (1977) e “L’argent”(1983). 
Non so se sia sufficiente per Salvatore Biosa. In caso contrario tornerò sull’argomento.

3 luglio 2012

8 - Alcuni film americani che conviene avere visto - L'ultima minaccia

OTTAVA PUNTATA DELLA RUBRICA IN CUI SI "RECENSISCONO" OPERE CINEMATOGRAFICHE DEL PASSATO PROSSIMO
"L'ultima minaccia" (Deadline U.S.A.) di Richard Brooks

Fra i film americani del dopoguerra lo splendido "L'ultima minaccia" di Richard Brooks è una sorta di piccolo monumento al giornalismo ed al cinema "Liberal" degli anni '50. Un Bogart ed una Barrymore da non perdere. I film che hanno per sfondo i giornali e i giornalisti sono numerosi e molti di quelli più noti sono americani. Citerò un elenco apparso in internet: parte dagli anni quaranta per arrivare ai giorni nostri, numerandoli, presumibilmente in ordine di importanza, dall'1 al 20, e io li citerò, invece, in ordine di data. Eccoli: "La signora del venerdì" di Howard Hawks (1940) che è una delle variazioni sul tema di "The Front Page"; "Quarto potere" di Orson Welles (1941); "L'asso nella manica" di Billy Wilder (1951), "L'ultima minaccia" di cui parlo oggi nel Blog; "Piombo rovente" di Alexander MacKendrick (1957), "Sbatti il mostro in prima pagina" Marco Bellocchio (1962); "Prima Pagina" (appunto dalla commedia "The Front page") di Billy Wilder (1974); "Professione reporter" di Michelangelo Antonioni (1975); "Tutti gli uomini del Presidente" di Alan J. Pakula (1976); "Un anno vissuto pericolosamente" di Peter Weir (1982); "Salvador" di Oliver Stone (1986); "Benvenuti a Sarajevo" di Michael Winterbottom (1997); "Sesso e potere-Wag the Dog" di Barry Levinson (1997); "Insider- Dietro la verità" di Michael Mann (1999); "Good Night, and Good Luck" di George Clooney (2005); "Zodiac" di David Fincher (2007); "La giusta distanza" di Carlo Mazzacurati (2007); "Frost-Nixon" di Ron Howard (2008); "Fortapàsc" di Marco Risi (2009); "State of Play" di Kevin Macdonald (2009). In totale sono 20 film, di cui quattro italiani e gli altri sedici nord americani. Come si vede non vi sono film francesi, tedeschi o inglesi e, naturalmente, italiani, anche se tutte le fonti consultabili sembrano essere nord americane e quindi strettamente legate al continente. Spero di aver tempo in futuro di fare una ricerca: ho trovato un'altra fonte di un autore americano, specializzato nella storia del giornalismo, che vale la pena di conoscere meglio. In ogni caso, come si vede, nell'elenco è incluso "L'Ultima minaccia" discutibilmente collocato, nell'ordine di valori contenuto nell' originale, proprio in fondo, al 18° posto. In realtà il film (il titolo originale è "Deadline U.S.A.", "Deadline" significa "termine non prorogabile" oppure "linea insuperabile" e anche "ora di scadenza") è uno splendido ritratto di un quotidiano "progressista", "The Day" dei primi anni'50. E' un quotidiano molto americano, ossessionato dalle notizie e dalle battaglie per la libertà, mentre non sembra siano previsti supplementi letterari o umanistici. Si dice che Brooks abbia inteso ispirarsi alla vicenda del quotidiano "New York World" che Joseph Pulitzer, noto per le battaglie civili e politiche, aveva reso famoso. Howard Good, nel suo libro "Journalism Ethics Goes to the Movies" sembra sostenere che Brooks aveva lavorato per il "World" e che quindi il suo film è una testimonianza del passato. Si dice anche che il figlio di Pulitzer lo avrebbe venduto ad un concorrente, si suppone per molto denaro, un po' come succede nel film di Brooks. Come è noto Joseph Pulitzer (1847/1911 di padre ebreo e di madre cattolica) era un immigrato ungherese divenuto un giornalista principe negli Stati Uniti. A lui si deve l'idea della prima scuola del giornalismo al mondo e, in accordo con le sue volontà, nel 1917 fu istituito il premio che porta il suo nome, ormai celebre ovunque. Il suo fu un giornalismo d'assalto. Puntava molto sul recupero e l'integrazione degli immigrati, forse non era così puro come quello di Garrison nelle parole di Hutcheson, ma fece del New York World il primo quotidiano in tutta la nazione, con una tiratura di 600 mila copie, rispetto alle 15 mila di quando Pulitzer lo aveva acquistato. Per avidità di denaro le figlie del fondatore vendono "The Day" ad un concorrente che intende chiuderlo per eliminare alla radice un rivale. Il ritratto di un giornale d'epoca, dalla struttura della redazione alle vicissitudini e incertezze della professione, è centrato sulla strepitosa figura del direttore impersonato da Humphrey Bogart. Il film è pieno di invenzioni e di riferimenti, come era giusto aspettarsi da uno sceneggiatore e romanziere pieno di talento quale fu Richard Brooks. Vero nome Ruben Sax, nato il 18/05/1912 e morto l'11/03/1992,scrittore di vaglia – fra i suoi libri "The Brick Foxhole", da cui venne tratto "Odio implacabile" di Dmytryck, "The Boiling Point" e "The producer", in italiano "Il produttore", sensibile ritratto indiretto di Mark Hellinger – sceneggiatore e poi regista. Dal film di esordio, "La rivolta" ("Crisis" – 1950) all'ultimo, "La febbre del gioco" ("Fever Pitch" – 1985) passano 35 anni e almeno 24 film. Oltre all' "Ultima minaccia" vorrei ricordare "Il seme della violenza" ("Blackboard Jungle" – 1955), "L'ultima caccia" ("The Last Hunt" – 1956), "Pranzo di nozze" ("The Catered Affair" – idem), "Qualcosa che vale" ("Something of Value" – 1957), "La gatta sul tetto che scotta" ("Cat on a Hot Tin Roof" – 1958), "Il figlio di Giuda" ("Elmer Gantry" - 1960), "La dolce ala della giovinezza" (" Sweet Bird of Youth" – 1961), "I professionisti" ("The Professionals" – 1966), " A sangue freddo" ("In Cold Blood" – 1967), "Il genio della rapina" ("$" – 1971), "Stringi i denti e vai" ("Bite the Bullet" – 1975). Al centro del "L'ultima minaccia" due interpreti straordinari: Humphrey Bogart, cioè Ed Hutcheson il decisivo direttore di "The Day", e Ethel Barrymore, la Signora Margaret Garrison vedova del fondatore del giornale. Bogart ( 1899-1957) era ormai al coronamento di una lunga e decisiva carriera . Dal 1928 al 1956 lavorò in più di 70 film, allineando dalla fine degli anni'30 molte opere di grande successo ed alcuni autentici simboli dell'immaginario cinematografico: da "Il mistero del falco" ("The Maltese Falcon" - 1941) di John Huston a "Casablanca" (idem – 1942) di Michael Curtiz, da "Acque del Sud" ("To Have and to Have Not"- 1944) a "Il grande sonno" ("The Big Sleep"- 1946) entrambi di Howard Hawks, da "Il tesoro della Sierra Madre" ("The Treasure of the Sierra Madre" – 1948) a "L'isola di corallo" ("Key Largo"- 1948) entrambi di John Huston, da "La città è salva" (" The Enforcer" – 1950) firmato da Bretaigne Windust ma diretto in realtà da Raoul Walsh a "La regina d'Africa" ("The African Queen" – 1951) ancora di John Huston, Bogart si impose come un attore decisivo giocando su due pedali non sempre complementari: il fascino divistico e la pienezza dell'esperienza attoriale. Dopo "L'ultima minaccia" sino al suo ultimo film, "Il colosso d'argilla" ("The Harder They Fall" – 1956) di Mark Robson, realizzato a pochi mesi dalla morte, Bogart riuscì ad inserire alcuni altri titoli destinati a diventare notissimi, come "L'ammutinamento del Caine" ("The Caine Mutiny"- 1954) di Edward Dymytrick, "Sabrina" (idem – 1954) di Billy Wilder e "Ore disperate" ("The Desperate Hours" - 1955) di William Wyler. Ethel Barrymore (1879-1959), sua "complice" nel film, sorella di John e Lionel Barrymore (la cosiddetta Famiglia Reale dello spettacolo americano), inizialmente in prevalenza attrice di teatro, dagli anni' 40 si dedicò largamente al cinema lasciandoci alcune decisive interpretazioni ed il ricordo di un livello di recitazione non facile a trovarsi. Guardate con attenzione alcuni suoi duetti con Bogard. Nel "L'ultima minaccia" figurano naturalmente molti altri attori: da Kim Hunter, che è Nora moglie del direttore, a quel grande caratterista che fu Ed Begley (1901- 1970) e che qui è un impagabile capo redattore. Il mafioso Tomas Rienzi ( pudicamente mutato in Rodzic nella versione italiana) è Martin Gabel. Intorno a loro si muove una piccola antologia di caratteristi da Paul Stewart a Joe De Santis, da Jim Backus a Audrey Christie che varrebbe la pena di ricordare meglio e più a fondo. Il doppiaggio italiano è una piccola antologia dei migliori specialisti d'epoca: Emilio Cigoli dà la voce a Bogart, Giovanna Scotto alla Barrymore, Renata Marini a Kim Hunter, Mario Besesti a Begley. Fra le altre voci si trovano Pino Locchi, Stefano Sibaldi, Giorgio Capecchi (Martin Gabel), Gualtiero De Angelis, Laura Gazzolo, Giulio Panicali, Sandro Ruffini, Cesare Polacco. Un vero "parterre de rois". Per scrupolo un' ultima notazione: secondo alcune fonti, non so quanto attendibili, il giovane fattorino del giornale, che si vede all' inizio del film e che scambia poche battute con un redattore e una redattrice, sarebbe addirittura James Dean, rigorosamente "non credited". Non so quanto questa notizia sia credibile e la riporto perché indubbiamente curiosa. P.S. Il DVD che abbiamo utilizzato è a cura di "A&R Entertainment". La produzione, naturalmente, è della "20th Century Fox". L'abbiamo comprato su ebay.it. Il costo: euro 11,39 comprese le spese di spedizione.

2 luglio 2012

SECONDA ED ULTIMA PUNTATA SU URBANO RATTAZZI DI IERI E SU QUELLO DI OGGI


Con considerazioni varie sulla lettura dei giornali, sugli inglesi a Genova ed, occasionalmente, sull'uso dei titoli nobiliari (mi occupo di quello concessi e "vidimati" dall'esponente di una casa reale e non di quelli autoproclamati, che mi danno l'impressione di essere numerosi e spesso non controllabili).

I giornali bisogna leggerli per bene e per intero. Ho pubblicato ieri un sincero (ma forse fallito) elzeviro su Urbano Rattazzi ed i suoi discendenti, attingendo ad una serie di necrologi pubblicati a pagina 68 del Corriere della Sera di Sabato 30/06/2012. Mi sono accorto solo ieri  che sul defunto di cui io non sapevo niente (ovviamente ero stato colpito dal nome e dal cognome, che sono gli stessi di un noto politico piemontese dell’800) era stato pubblicato contestualmente, a pagina 27 un “taglio basso” di una sessantina di righe in cui si spiegava chi era l’avvocato Urbano Rattazzi (quello di oggi) e che cosa aveva fatto nella vita. Ovviamente  veniva ricordato il suo matrimonio con Susanna Agnelli  nel 1945  (aveva conosciuto Gianni Agnelli durante la guerra in Russia) sei figli che ne erano nati, e il divorzio celebrato nel 1975- fondamentalmente sono dati contenuti anche nel mio pezzo- l’ approfondita esperienza professionale come presidente della Ferrania Argentina, la lunga permanenza professionale a Genova ove fu vicepresidente della Coe&Clerici, fondata da un suo nonno, oltre che il suo amore per i cavalli e le corse (da ex fantino). Rattazzi si era anche risposato con Fanny Ferrari Branca e da tempo si era stabilito a Milano. Se fossi un lettore meno distratto mi sarei accorto che proprio sul Secolo XIX di Genova erano stati pubblicati, a cura della prima ricordata Coe&Clerici (ora divenuta CoeClerici e trasferita a Milano) diversi necrologi. Questa ultima notizia implica, in un certo senso, anche un riferimento autobiografico. Mio padre Giuseppe Fava, spedizioniere marittimo e proprietario di un’agenzia di viaggi, negli ultimi anni della sua vita era stato nominato Console Onorario del Guatemala, in un’ epoca in cui, a differenza di oggi, molte nazioni conservavano ancora a Genova un vero e proprio consolato “professionale” (quello degli Stati Uniti, ora trasferito a Milano, quando Genova era ancora una città importante era stato il primo ad essere aperto in Europa).Quando mio padre morì, nel 1951, il consolato venne affidato ad un certo dottor Menada (uno dei membri della sua famiglia era stato, anche egli fondatore della Ditta). Da anni mia madre si occupava della segreteria del Consolato e continuò a farlo, per diverso tempo, alle dipendenze dello stesso Menada. Per cui il nome della Coe&Clerici mi fu per diversi anni assolutamente famigliare. Non è un caso che sia stata fondata a Genova da un inglese e da un italiano, a testimonianza di un momento tipico nella vita della mia città, in cui gli inglesi si trasferivano a Genova per lavoro (si veda il caso del Genova Cricket and Football Club, fondato appunto nel 1893 da un manipolo di inglesi in trasferta). E non è un caso che, acuendosi la crisi della città, si sia trasferita a Milano, unica grande città italiana in grado di resistere, almeno parzialmente, all’appello fondamentale del Romocentrismo. Colgo l’occasione per precisare che in quasi tutti gli annunci l’avvocato Rattazzi veniva preceduto dalla qualifica “Conte”. Dopo qualche ricerca credo di essere riuscito a stabilire che il titolo nobiliare gli venne accordato nel 1928, vale a dire già sotto Vittorio Emanuele III. Non so perché tutti i titoli dell’epoca sono minuziosamente rispettati nei necrologi, mentre vengono a volte trascurati altri risalenti a diversi secoli fa. Forse perché sotto il fascismo, regime di “parvenus”, risultarono ricercati e prelibati. Si pensi al caso di Galeazzo Ciano, il cui padre Costanzo era stato nobilitato solo dopo la prima guerra mondiale: il riferimento al Ministro degli Esteri di Mussolini come “Conte Ciano” (e di sua moglie Edda, figlia di Mussolini, come “Contessa Ciano”) fu quasi obbligatorio. Forse per sostenerlo di fronte al panorama di antiche principesse, spesso romane, che egli usava frequentare al Golf Club di Roma, formalmente capeggiate da Isabelle Colonna, la quale vantava 36 titoli nobiliari e cinque papi nell’albero genealogico.
Non so esattamente quanto di quello che ho scritto oggi e sabato scorso su Rattazzi possa minimamente interessare un lettore del Blog. La puntata di Sabato non ha provocato Post e, presumo, che anche questa di oggi abbia la stessa sorte. Per cui mi par giusto chiudere l’argomento.