Blog - Crediti


L'audio e i video © del Blog sono realizzati, curati e perfezionati da Lorenzo Doretti, che ha anche progettato l'intera collocazione.
L'aggiornamento è stato curato puntualmente in passato da diverse collaboratrici ed attualmente, con la stessa puntualità e competenza, se ne occupano Laura M. Sparacello ed Elisa Sori.

28 dicembre 2011

I NECROLOGI E LA VITA

Riflessioni superficiali ma rispettose a proposito della vita, e soprattutto della morte, prendendo spunto da una intera pagina di annunci mortuari apparsa nel quotidiano “La Stampa”.
Un tempo mia moglie era solita prendere affettuosamente in giro mio suocero. Il quale, da solido borghese genovese (classe 1886), invecchiando aveva preso l’abitudine di aprire il “Secolo XIX” nella pagina dei necrologi e di cominciare diligentemente a leggere, dopo aver detto ogni volta:”Vedemmo un pö chi l’é morto ancheu! (Guardiamo un po’ chi è morto oggi!)”. Analizzava con diligenza nomi e date di nascita e immancabilmente, almeno una volta, esclamava:”Beliscimo! O l’ea ciù zoêno de mi”(“Perbacco! Era più giovane di me”).
Con l’ andar del tempo, via via ho scoperto di aver in certo modo ereditato le sue abitudini, semmai moltiplicate dalla dimestichezza con diversi quotidiani, eredità della “mazzetta” tipica di una redazione. Per cui finisce che leggo i necrologi non solo genovesi ma anche milanesi, torinesi e romani, soffermandomi su decessi che avvengono in zone cittadine che mi sono ancor meno familiari. E anch’io, come mio suocero, ho cominciato a calcolare l’ età dei defunti, quanto si riesce a dedurla dal testo del necrologio. Mi sono chiesto spesso da che cosa sia causata questa piccola mania necrofilica. Indubbiamente essa è causata sia dall’ implicito valore romanzesco degli annunci mortuari, attraverso i quali si possono ricostruire interi frammenti della nostra società, sia da quel complicato terrore della morte, che dopo gli 80 anni costituisce un implicito riferimento personale della nostra esistenza, quasi un preannuncio decisivo, possibilmente articolato a breve termine (un tempo si moriva a 50 anni, poi a 60, poi a 70. Attualmente mi sembra di capire che l’elemento di svolta delle nostre esistenze sia ormai situato nel decennio sito fra gli 80 e i 90 anni, laddove si verifica buona parte della scomparsa delle persone d’ età).
Non stupirà quindi nessuno che nel numero della “Stampa” del 20 dicembre 2011 mi sia imbattuto in un intera pagina consacrata ai necrologi di una sola persona, e cioè la marchesa Giovanna Incisa della Rocchetta Cattaneo. Che io, lo confesso a mio disdoro, non avevo mai sentito nominare e che invece, a quanto ho appreso dalla “Stampa”, è stata importante per decenni nella vita di Torino. Al punto che dal febbraio al dicembre 1992 fu perfino Sindaco della città, in rappresentanza del Partito Repubblicano collocato allora nell’ arco del cosiddetto “pentapartito”. Tanto è vero che uno degli annunci è stato posto dal Sindaco, dalla Giunta, dal Presidente del Consiglio Comunale, dai Consiglieri Comunali e dai Presidenti e Consiglieri di Circoscrizione che hanno anche allestito una camera ardente presso il Palazzo Civico. Naturalmente gli annunci erano di due tipi: quelli con il nome della defunta in neretto e di corpo più grande e quelli più piccoli che in certo modo si inserivano fra i primi. Se non ho sbagliato i conti la pagina contiene 103 necrologi, di cui 58 in neretto e gli altri 45 più piccoli in tondo. E qui si rileva ancora una volta, come dicevo prima, quel che accade spesso nelle pagine dei necrologi, e cioè la proiezione di uno o più ambienti sociali. L’ annuncio ufficiale della famiglia elencava puntualmente titolo e nome completo: “Marchesa Giovanna Incisa della Rocchetta Cattaneo” e in effetti diverse venature nobiliari si rinvengono negli annunci di persone più vicine alla famiglia. Ad esempio ci si imbatte in un gruppo di parenti de Fonseca Pimentel, che quindi discendono dalla famosa Eleonora. Come è noto essa, di nobile famiglia portoghese (poi romanizzata e successivamente trasferitasi a Napoli) fu poetessa e donna di ampia cultura. A conclusione della tragica esperienza della Repubblica napoletana venne impiccata nella Piazza del Mercato il 20 agosto 1799, proprio lei che era stata amica e collaboratrice della regina Maria Carolina d’ Austria, moglie di Ferdinando I.
Si trovano negli annunci anche Fabrizio e Viola Lanza Tomasi (implicitamente di Lampedusa) e, ancora, una Lorian Leonetti con il marito Franz von Fürstenberg, quasi a ribadire l’ antica nobiltà aleramica degli Incisa della Rocchetta. I quali nelle ultime generazioni si sono messi in luce come sagaci produttori di vino, sia nel Monferrato che in Toscana, a Bolgheri, dove relativamente di recente è fiorito il famoso Sassicaia.
Ma la maggioranza delle persone menzionate nei necrologi sono soprattutto esponenti di quella che si suole chiamare la società civile, dato che la defunta fu Animatrice e Presidente di molte benemerite istituzioni cittadine. Ad esempio la Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino o il Consiglio Regionale  o gli Animatori del “Castello di Rivoli” (il Presidente è Giovanni Minoli), la Fondazione Torino Musei, eccetera. Per non contare la Fiat, presente in qualche modo in 2 annunci: in uno John Elkan e Sergio Marchionne, l’uno Presidente e l’ altro Amministratore delegato, “partecipano con profonda commozione al lutto del Dottor Oddone” e nel secondo John e Lavinia Elkan “partecipano commossi al lutto a titolo personale” così come fa Marella Agnelli che ricorda la defunta “con immenso affetto”. Una gran voglia di distinguersi si ritrova nella elencazione dell’ identità della scomparsa. A volte è Marchesa Incisa della Rocchetta Cattaneo (come usava un tempo prima il nome del marito e poi quello ”da signorina”). A volte è citata senza titolo nobiliare, in qualche caso in maniera ancora più accorciata, come Dottoressa Giovanna Incisa Cattaneo sino ad una riduzione dei titoli che non può essere del tutto casuale. Ad esempio l’ Unione industriali e la Camera di Commercio si limitano ad una Giovanna Incisa Cattaneo se non addirittura, vedi necrologio della Aon S.p.A., ad una Giovanna Cattaneo tout court (ma qui curiosamente fra i partecipanti al lutto c’è un Olderico Faà di Bruno, appartenente ad una nobile famiglia alessandrina nota soprattutto per il Capitano di vascello Emilio Faà di Bruno, morto nella battaglia di Lissa, 1866, e decorato di medaglia d’oro). Ci sono anche casi estremi, come quello di Giorgio e Daniela La Malfa che ricordano la defunta “con grandissimo affetto per la sua lunga militanza repubblicana, il suo impegno politico - civile, la sua profonda e calda umanità”, ma la citano come Giovanna Cattaneo Incisa omettendo, forse per scrupolo antimonarchico il predicato “della Rocchetta”, che, se ricordo bene, in base alla Costituzione fa ormai parte integrante del cognome. Ci sono casi ancor più estremi come i condomini di Via Governolo 28, situato nell’ elegante Quartiere della Crocetta, che “partecipano al lutto della famiglia per la scomparsa della Signora Giovanna Cattaneo”, senza titoli e cognomi acquisiti, come fanno anche gli esponenti della Fondazione per l’Arte CRT che “piange (una) donna sensibile e capace” o il  neo-ministro Elsa Fornero che ricorda con commozione ed affetto “Giovanna Cattaneo”, ancora tout court.
Non vorrei che questa breve nota suonasse irrispettosa, o peggio offensiva, nei confronti di una donna che oramai ho imparato a conoscere ed a cui mi sono quasi affezionato. L’ho scritta solo per ribadire ancora una volta la nostra difficoltà di viventi nel rievocare la morte. Un avvenimento decisivo (che “si piange”, che “commuove”, eccetera) ma nei confronti della quale non sappiamo mai bene come comportarci. Ci fa una paura terribile ma al tempo stesso serve per adornarci di buoni sentimenti e per nascondere il nostro spavento dietro una sorta di ritualità burocratica, con delle conseguenze spesso quasi buffe. Si pensi alla figura delle Società per Azioni che “partecipano al lutto” e dei Consigli di Amministrazione che “sono vicini nel dolore”(è un tema, questo, su cui, se ricordo bene, tanti anni fa Giovanni Mosca scrisse alcune pagine scintillanti).
Che conclusione si può trarre da questo modeste righe che ho scritto? Forse soltanto questo: ancora una volta, direi, un essere umano si trova disarmato, impotente e rispettosamente atterrito, di fronte un mistero che inizia con la nostra nascita e che termina appunto con la nostra morte.

(Battute 7.983).

19 dicembre 2011

DUPLICE MOVIOLA TELEFONICA

Mio intervento a voce su due temi non comunicanti: la marcia della Germania verso il dominio europeo e un sommario resoconto su diversi libri di cinema che mi sono stati recapitati in questi ultimi giorni.

Claudio G. Fava


16 dicembre 2011

IL MITO DELL'ALLENATORE

Il 16/12/2011 nelle pagine dello sport del Secolo XIX è apparso un mio articolo. Non avevo capito la lunghezza necessaria e giustamente il responsabile della pagina, Giampiero Timossi, lo ha tagliato per poterlo utilizzare. Ad occhio e croce, direi, ed è un frutto della mia vecchia esperienza di impaginatore ai tempi del piombo, i tagli fanno bene ai testi e quindi probabilmente il mio articolo è stato migliorato. Lo pubblico qui di seguito, nella versione originale da me scritta, non certo per polemica ma perchè così è conservata nel computer. Timossi, con netto senso giornalistico ha posto questo occhiello: "Il piccolo mondo moderno della panchina", questo titolo: "Malesani, un tecnico scritto da Fogazzaro" ed infine il sommario: "Dopo la fascinazione di Gasperini e Ballardini, il post-bergmaniano, il regionalismo dell'allenatore vereronese".
Probabilmente vi sarà venuta voglia di leggere l'articolo. Eccolo qui.

DAL MAGO AL MILIONE

Ipotesi sull’allenatore di calcio inteso come massimo interprete intellettuale della nostra epoca.

Prima della guerra fare l’allenatore era un decoroso mestiere per un calciatore invecchiato che poteva insegnare ai più giovani qualche piccola astuzia nel colpire la palla e nel simulare dei falli. Dopo la guerra, via via che cresceva nel mondo l’ossessione per il football, questa professione da decoroso veterano si tramutò, anno dopo anno, in qualche cosa che attingeva all’esperienze di un “guru” indiano e insieme a quelle di uno scienziato misterioso in stile Frankenstein. In particolare in Italia , anche grazie alla mediazione geniale di un focoso scrittore come Gianni Brera, vennero elevati due monumenti a Helenio Herrera ed a Nereo Rocco. Il primo inteso come mediazione franco-ispanica verso la fascinazione vertiginosa del calcio totale pre-olandese, il secondo esaltato come mitteleuropea contrapposizione italo-triestina alle furbizie importate dall’estero.
Man mano gli allenatori sono diventati sempre più importanti. Il loro mercato è quasi sontuoso come quello dei calciatori ed essi –pur sempre sospesi fra una totale esaltazione ed una subitanea condanna- si muovono, da una squadra all’altra, circondati da un folto manipolo di aiutanti, fisioterapisti, massaggiatori, addestratori di portieri e via enumerando. E’ successo a loro quel che, in un certo senso, agli economisti: un tempo quasi nessuno in pratica li conosceva ma esercitavano un peso enorme sulla loro epoca (si pensi ad Adam Smith o a Karl Marx). Adesso anche quelli minori vengono disputati dalle televisioni e quelli di buon risalto universitario rischiano di diventare Senatori a vita e Presidenti del Consiglio.
Dai tempi decisivi di William Garbutt ad oggi Dio sa se il Genoa ha avuto degli allenatori di ogni tipo ma l’esperienza che la squadra sta vivendo attualmente è sicuramente abbastanza singolare. Grazie a Preziosi – non lo conosco personalmente e quando parla in televisione, dato che sto diventando sordo, spesso non riesco a penetrare nella cortina post avellinese della sua dizione- anche sotto questo profilo ha conosciuto e sta conoscendo momenti sicuramente eccitanti. Preziosi è probabilmente il più abile avvistatore e negoziatore di calciatori che esistano fra tutti i Presidenti delle squadre di calcio ma è anche all’origine di un “tourbillon”di giocatori difficilmente controllabili. Acchiappandolo nel Crotone ha letteralmente inventato Gasperini che per qualche anno ha affascinato, con il modo di giocare che era riuscito ad imprimere al Genoa, non solo i tifosi ma anche gli avversari ma che probabilmente è anche all’origine di clamorose incomprensioni (si pensi al caso di Di Vaio, il quale nel Genoa quasi non toccava palla e nel Bologna è diventato uno strepitoso goleador). Poi ha inaspettatamente proposto Davide Ballardini, dalla carriera irregolare ma dal piglio austeramente produttivo. A me piaceva perché incarnava una tenebrosa visione dell’uomo romagnolo, fortunatamente priva di esaltazioni e divulgazioni. In piedi, con una coppola cupa, egli costeggiava le partite del Genoa con una presenza quasi sempre silenziosa ma sicura, che io ebbi a definire “post-bergmaniana”. Quando era riuscito ad imprimere alla squadra un’indubbia personalità venne sostituito, seppure in modo meno drammatico di quel che è successo a Gasperini. Il suo posto è stato preso dal misterioso Malesani, probabilmente molto competente e dal probante passato, ma anche intriso da una sorta di semi-sorridente furbizia veneta, sempre a metà fra una sorridente dolcezza ed una subitanea rivendicazione di sé. Vedendo Inter - Genoa ci si rendeva benissimo conto che da un lato era alle prese con una inesistente linea d’attacco, priva dell’unico giocatore di talento, Palacio (Ze Eduardo risulta ancora brasilianamente attonito e Pratto e Caracciolo sembrano due consiglieri d’amministrazione in visita di cortesia e quindi faceva quello che poteva). Ma, che dall’altro reagiva con quell’ antica furbizia che mi fa pensare a tanti scrittori in qualche modo regionalisti: non so perché mi ricorda certi personaggi minori o minimi di “Piccolo  Mondo Moderno” di Antonio Fogazzaro (non “Antico”, che si svolgeva in Lombardia).
Questo è probabilmente Malesani. E dobbiamo tenercelo, accontentandoci delle sue indubbie capacità di fare squadra con un gruppo di giocatori appena radunati e tutti diversi fra loro. Ma anche di osare fino ad un certo punto e poi di rifugiarsi in difesa con regionale prudenza. Interpretando la parola più veneta del suo dialetto. E cioè: “Conforme!”, che significa al tempo stesso “secondo i casi” ma anche: “come lei preferisce”.
 Otterrà buoni risultati ma non dobbiamo pretendere troppo. Per fortuna i Genoani hanno un lungo allenamento in materia…

(battute 4.685)

Claudio G. Fava

13 dicembre 2011

Il dirupo di Di Rupo.

Misteri di un paese (forse) inesistente.

Implicazioni tragiche implicite nel cognome di un figlio di abruzzesi diventato, dopo tenacissimi negoziati, Presidente del Consiglio del Belgio.

Da molto tempo confesso di seguire con curiosità e con qualche incredulità gli sviluppi della politica belga. Ovviamente nei limiti delle mie possibilità, ad esempio consultando il sito web di “Le Soir”, di Bruxelles, probabilmente il maggior quotidiano vallone (mi piacerebbe sapere anche cosa si scrive ad Anversa, ma purtroppo non conosco il fiammingo o coloritura belga del neerlandese, forse il più riottoso fra gli idiomi germanici occidentali, insieme al tedesco, all’ inglese e al frisone). Per farla breve ricordo che da pochi giorni il Belgio ha risolto una crisi politica che durava da un anno e mezzo. Se ho fatto i conti esattamente da più di 500 giorni il Paese era di fatto amministrato dalla alta burocrazia, che per altro sembra essersela cavata benissimo. Dopo infinite e laboriosissime contrattazioni un uomo politico è riuscito a formare un governo composto da una dozzina di ministri e da un piccolo gruppo di vice ministri. Il problema di fondo del Belgio risiede nella sua stessa natura originaria. Dal 1831 ad oggi si sono succeduti sei sovrani, ed esattamente Leopoldo I (1831-1865), Leopoldo II (1865-1909), Alberto I (1909-1934), Leopoldo III (1934-1951), Baldovino (1951-1993) e poi suo fratello Alberto che appunto regna, dal 9 agosto del 1993, con il nome di Alberto II. In senso stretto  essi sono non “Re del Belgio” ma “Re dei Belgi”, per ribadire, credo, il senso di una sovranità non legata alle terre ma ai popoli. Appartengono alla famiglia Sassonia - Coburgo – Gotha, che nei secoli scorsi si è praticamente impadronita di quasi tutti i troni disponibili in Europa (oltre il Belgio, la Gran Bretagna, la Bulgaria e, in parte, il Portogallo; non entro nel merito di questa ultima successione che è complicatissima). Sin dalla sua nascita il Belgio fu diviso fra abitanti francofoni, i “valloni” e quelli di lingua olandese, i “fiamminghi”. All’ inizio i primi erano probabilmente i più numerosi, i più ricchi e quelli che, attraverso una aristocrazia ed una classe superiore di cultura francese, governavano la nazione. Nel giro di meno di due secoli tutto si è capovolto: i fiamminghi sono più numerosi (almeno il 53%), più ricchi e più autorevoli; i valloni sono ridotti ad essere formalmente il 36% circa. Nel restante 10% della popolazione (che nel 2010 era di 11.868.000 abitanti) credo vada computata la città di Bruxelles, che, almeno all’ 85% è un’isola francofona in territorio fiammingo. È proprio questa caratteristica impedisce che i valloni ed i fiamminghi, i quali credo cordialmente si detestino, si separino gli uni dagli altri dando vita a due piccole nazioni indipendenti. Gli abitanti di Bruxelles, in notevole maggioranza non vogliono rinunciare all’ uso del francese; i fiamminghi dal canto loro non ammettono di avere nel loro territorio un’ isola vallona. Il problema è terribilmente complicato da fatto che Bruxelles non è solo la capitale (ormai federale) del Belgio. Ma anche che ha moltiplicato la sua importanza diventando una virtuale, ma in parte anche sostanziale, capitale d’ Europa, con il suo carico di diplomatici e alti burocrati multilingui e di fatto quasi onnipotenti.
Insomma la situazione di fondo è tale che nessuno dei partiti prevalenti (tutti in doppia versione, vallone e fiamminga, salvo ovviamente il fortissimo movimento indipendentista fiammingo) riesce a risolvere la situazione. Il fatto che comunque una persona sia riuscita a saldare insieme partiti insanabilmente divisi è già abbastanza miracoloso. Il personaggio in questione si chiama Elio Di Rupo, nato in Belgio nel 1951 ma figlio di emigrati abruzzesi, giunti nel 1947 e provenienti da una cittadina dal nome romanzesco, San Valentino in Abruzzo Citeriore, sita a poco più di 50 chilometri da Pescara e con una popolazione, nel 2010, di 1.949 abitanti. Di Rupo ottenne un dottorato in chimica  presso l’ università di Mons. Fin da giovane militò nel partito socialista di lingua francese, di cui ormai da anni è l’ esponente incontrastato. Con altrettanta autorevolezza Di Rupo ha proclamato la sua omosessualità, che nessuno più gli contesta. Naturalmente adesso bisognerà vedere se e in che modo riuscirà a governare un paese che funziona soltanto se viene lasciato a se stesso per il disbrigo delle pratiche ordinarie. In ogni caso l’ impresa in cui è riuscito adesso è, comunque vada, assai notevole. Di Rupo ha detto pubblicamente che intende approfondire la sua conoscenza del fiammingo, il che è abbastanza significativo all’ interno di una minoranza che, sin da quando era maggioranza, ha orgogliosamente ribadito la sua intenzione di parlare e far parlare in francese (si tenga conto del fatto che obbiettivamente i francofoni fanno in genere una fatica del diavolo a imparare una lingua straniera).
Confesso che attendo con molta curiosità l’ opera di Di Rupo. Ma è evidente, anche se la maggioranza dei belgi credo non se ne renda minimamente conto, che il suo cognome, con un minimo spostamento, può diventare oggetto di un crudele gioco di parole. Di Rupo è un cognome ma “dirupo” è un sostantivo dall’ implicazione quasi tragiche. “Cadere in un dirupo” fa pensare alla conclusione di una crudele gita in montagna, ed è quindi un pessimo auspicio per un uomo che tenterà un’ operazione quasi impossibile, in un Paese che ha pochi motivi per restare unito e molti per dividersi. “Dirupo” in francese si dice “escarpement”, “diruparsi” suona “être escarpé”, ovvero “ essere dirupato”.
Speriamo che in Belgio non glielo faccia sapere nessuno.

3 dicembre 2011

SOLO LA PARIGI DEL PASSATO FUNZIONA NELL’EUROPA DEL PRESENTE

L’uscita sugli schermi dell’ultimo film di Woody Allen “Midnight in Paris” ripropone, in modo divertito e divertente, due temi diversi ma qui curiosamente connessi. L’uno è quello tipico della fantascienza, e quindi anche del cinema che alla fantascienza si ispira, dei viaggi avanti e indietro nel tempo. L’altro è quello della fascinazione che continua ad esercitare su appassionati di tipo diverso l’evocazione della Parigi degli anni ’20. Come ormai noto il film è centrato su di un personaggio che si chiama Gil, un intelligente sceneggiatore americano di cinema, appassionato di buona letteratura. Gil accompagna a Parigi la sua ricca e frivola fidanzata, che si lascia affascinare da un professore saccente, mentre lui prova una curiosa esperienza: allo scoccare della mezzanotte sale su un vecchia auto che praticamente quasi ogni sera lo “traslocherà” nella Parigi degli anni ’20. Per cui Gil potrà incontrare, chiacchierare e chiedere consigli a personaggi ormai mitici nella storia del costume, e del costume letterario in particolare, che in quella Parigi trovarono accoglienza, ospitalità, complicità e ispirazione. C’è fra di loro una buona spruzzata di fondamentali personaggi americani come Cole Porter, Zelda e Francis Scott Fitzgerald, Ernest Hemingway, Gertrude Stein, una piccola icona americo-nero-francese come Josephine Baker oltre a diversi idoletti d’epoca: Pablo Picasso, Salvador Dalì, Man Ray, Luis Buñuel, Matisse. Grazie ad un vecchio “fiacre” Gil si concede perfino una puntatina nella Parigi della Belle Époque, col can-can del Moulin Rouge e con Toulouse- Lautrec, Gauguin e Degas.
Tutto questo ricchissimo materiale retrospettivo è rievocato da Natalino Bruzzone in un suo gustoso brano pubblicato dal Secolo XIX del 30 Novembre. La redazione ha arricchito il testo con quattro immagini di quattro film appunto legati ai viaggi nel tempo (appunto “Time-lime”, “Terminator”, “Donnie Darko” e “Déjà Vu”) e dal canto suo Natalino ha giustamente collegato il tema “retro” del film a quelli evocati dal giornalista francese Dan Franck nei suoi libri. Essi sono complessivamente tre ed io li ho scoperti, quasi casualmente, grazie a dei regali. Uno di Piero Pruzzo per il mio 82° compleanno e gli altri due proprio da Bruzzone per rimeritarmi di un minimo piacere che gli avevo fatto. Essi nell’ ordine originale di pubblicazione in Francia sono: “Montmartre & Montparnasse” (in originale: “Bohèmes”, Calmann – Lévy, 1998), “Libertad!” (in originale: idem, Editions Grasset & Fasquelle, 2004) e “Mezzanotte a Parigi” (in originale: ”Minuit”, Grasset & Fasquelle, 2010). Le tre versioni italiane sono state pubblicate tutte da Garzanti rispettivamente nel 2000 e 2004, nel 2005–2007 e nel 2011. Va ricordato che, sempre nell’ edizione italiana, “Mezzanotte a Parigi” reca una specie di sommario chiarificatore: “La capitale della cultura mondiale nel momento più difficile: l’occupazione nazista”. I tre libri testimoniano di un quasi incredibile lavoro di ricerca da parte dell’autore che ha un nome dal suono americano ma che in realtà sembra essere veramente francese. È nato il 17 ottobre (come me!) ma un po’di tempo dopo, nel 1952, a Parigi. È sceneggiatore, romanziere e sembra che abbia scritto ben 62 libri come “négre” di altri autori! Qui, come dicevo, dà prova di una maniacale capacità di recuperare nomi e avvenimenti e di restituire  momenti diversi della vita francese, visti sostanzialmente attraverso un mirino centrato su Parigi e articolati in tre periodi decisivi. Infatti “Montmartre & Montparnasse” (nell’ edizione italiana reca il sottotitolo “La favolosa Parigi di inizio secolo” e inventa una splendida copertina grazie ad una fotografia di André Kertész: “Café du Dome”, 1925) ricostruisce la vita nella capitale francese in un momento che sicuramente piacerà a Woody Allen: i primi 30 anni del Novecento animati da quei personaggi fondamentali che, in parte, il cineasta ha utilizzato nel suo film. E cioè Gertrude Stein e Picasso, Modigliani e Hemingway a cui sommarne decine e decine di altri, da Apollinaire a Cocteau, sino ad indagare su centinaia e centinaia di nomi che consentono di ricostruire appunto quel momento geniale della vita parigina in cui tanti nostri contemporanei si riconoscono e vorrebbero rituffarsi, come fa appunto Woody (il film non l’ ho ancora visto e perciò non do giudizi di sorta ma quel che mi sembra importante sono il tema di fondo e la vocazione sentimentalmente retrospettiva). In un certo senso è la stessa Parigi, frivola, luccicante, agitata, meravigliosamente felice di essere sopravvissuta ad una guerra foriera di spaventosi massacri, che fa da sfondo al romanzo “Le Bal du Comte D’Orgel” del prodigioso e misterioso Raymond Radiguet, un piccolo genio (due libri in tutto; l’ altro è “Il “diavolo in corpo”) che attraverso la mediazione di Cocteau attinse al talento e morì a 20 anni. Che cosa si nasconde dunque in questa città di cui ci attira sempre non il presente ma il passato? Questa vocazione a un viaggio all’ indietro nella sua storia si cela nell’ animo di migliaia di intellettuali, francesi ma soprattutto non francesi, che non cessano di essere affascinati da un percorso che  non si cessa di riscoprire. Non è un caso che negli altri due libri di Dan Franck, e cioè “Libertad!” e “Mezzanotte a Parigi”, siano ricostruiti, nel primo, l’atteggiamento della città come entità culturale nei confronti dei drammi politici della parte iniziale del XX secolo, sino all’ esplosione decisiva della Guerra civile spagnola. Nel secondo il comportamento di Parigi e dei parigini nel periodo delicatissimo che andò dal 1940 al 1944, quando molti dei suoi più raffinati esponenti letterari ebbero rapporti complessi, e non sempre nitidi, con le autorità tedesche occupanti e con quelle di Vichy, autorevoli, almeno sino al novembre 1942, perché designate a reggere la parte non occupata della Repubblica francese. Riscoprire come in una città affamata e perplessa ci siano élites politiche intellettuali che riescono a condurre una vita piacevole gastronomicamente e intensa sotto il profilo politico e letterario, non è certo una novità per chi abbia un minimo di conoscenze storiche al riguardo. Ma qui è una tela immensa di carriere, furbizie ed egoismi vari che Franck ricostruisce grazie ad un censimento quasi maniacale.
Ancora una volta Parigi dimostra la sua vocazione più vera, e cioè quella di riuscire ad animare contemporaneamente molti periodi storici diversi e paralleli. In questo senso anche Woody Allen è uno dei celebranti di un rito che di fatto non si arresta mai.
(battute: 6.576)

26 novembre 2011

DOCUMENTARI BELLICI DI CLAUDIO COSTA

Costa, cineasta romano, da tempo realizza interviste molto interessanti con superstiti italiani del secondo conflitto mondiale, esclusivamente per quel che riguarda il periodo 1943 – 1945. Con molta tenacia ne ha trovati diversi (alcuni, purtroppo, sono morti nel frattempo: ricordo che un ventenne del 1940 oggi avrebbe 91 anni!). Credo che questo esperimento – per le intenzioni e i risultati di documentazione ricorda le interviste ai superstiti della battaglia portati a termine da Enzo Monteleone, autore appunto di “El Alamein – La linea del fuoco” – possa interessare gli appassionati di storia. Qui, in particolare, si riflette  nelle singole esperienze, il tragico momento della divisione dell’ Italia fra Regno (del Sud) e Repubblica (del Nord) ovvero R.S.I. (Repubblica Sociale Italiana). Un elemento di particolare interesse è rappresentato dal fatto che salvo che qualche sottufficiale, tutti gli intervistati sono ufficiali e c’è perfino un generale.


Da tempo volevo portare a conoscenza dei lettori del Blog la minuta e intelligente opera di divulgazione di Costa. Gli ho pertanto chiesto di scrivermi come e perché ha iniziato questa sua esperienza e come riesce a proseguirla. Ecco qui, testualmente, il brano che mi ha inviato:


Le riassumo in breve come è nata la serie sui reduci: inizialmente volevo realizzare un documentario su Teseo Tesei. Per farlo cercai reduci che lo avevano conosciuto, e grazie al sempre fidato elenco telefonico, trovai Gino Birindelli, allora 94enne che viveva a Roma nella zona di ponte milvio. Gli telefonai,  mi presentai e chiesi di fare l'intervista. Lui, stupito dal fatto che qualcuno ricordasse il suo amico Teseo, accettò di buon grado di fare un incontro. Poi il doc su Tesei non lo terminai per mancanza di fondi e anche materiale di repertorio (….) però quando Brindelli morì, decisi di mettere dei brevi estratti dell'intervista su Youtube. Inaspettatamente scoprii che interessava molto agli appassionati di storia. Così decisi di montare il documentario, e realizzai “Lo spirito del Serchio” (il Serchio era il luogo vicino Pisa dove si addestrarono Birindelli e gli altri). Dal Brasile mi contattò Julio Cesar Antunes, curatore di un blog di storia militare, chiedendomi se avrei fatto la stessa operazione con i reduci della Regia Aeronautica, e mi presentò uno storico, Paul Perron, (americano che vive in Italia) che mi diede il telefono di un ex pilota che era a Roma, il comandante Cesare Erminio. Perron mi spiegò che Erminio non aveva voluto farsi intervistare, ma forse io sarei stato più fortunato. Tentai, mandai una copia del doc di Birindelli, ed Erminio accettò volentieri di parlare.  Fu il secondo documentario (“Volando con Visconti”). Sia il primo che il secondo ripagarono i costi (parliamo comunque di micro budget) e da quel momento, aiutato dal passaparola, trovai altri reduci arrivando a farne 11.
Il terzo, Alessandro Setti, mi venne suggerito da Luciano Vincenzoni, che nel 1945 aveva conosciuto a Padova questo pilota aerosiluratore, Vincenzoni mi disse : "se non è morto avrà 94 anni, prova a cercarlo!". Lo cercai, sempre tramite elenco telefonico, e lo trovai a Roma, 96enne, simpatico, vispo e pieno di ricordi. Seguirono Sergio Denti (MTM 548), Eugenio Corti, (consigliato da lei) Mario Montano, Massimo Rendina (di nuovo su consiglio di Vincenzoni), Ottorino Beltrami, sommergibilista comandante dell'Acciaio, e top manager nel dopoguerra (consigliato da lei e dal suo amico Doretti), poi Luigi Gorrini, Asso degli assi, medaglia d'oro al valor militare (che molte persone mi avevano richiesto), Costantino Petrosellini (anche lui consigliato dal blogger Brasiliano), Umberto Bernardini, il primo pilota italiano che ha oltrepassato il muro del suono (consigliatomi da Cesare Erminio).
Il dodicesimo è un reduce di El Alamein, parente di Gian Maria Volontè e si chiama Carlo. Anche lui 91enne più vispo di me e con molte cose da dire.
Dalla carrellata di esperienze narrate da questi soldati, secondo me si impara molto, non solo sulla storia della seconda guerra mondiale, ma anche sulla cattiva gestione politica del nostro paese, in cui ieri come oggi, tanti fanno le spese degli errori pochi. Ieri quegli errori costarono molte vite.

Se qualcuno conosce un reduce e vuole segnalarmelo questo è l'indirizzo : roninfilmproduction@libero.it
qui ci sono i trailers dei film realizzati :

Claudio Costa.”


Aggiungo una breve osservazione alle molte cose che ha scritto Costa. Considero Teseo Tesei un personaggio straordinario della storia bellica italiana. Insieme al suo amico sodale Elios Toschi, entrambi ufficiali di marina ma non di ruolo di vascello, furono gli “inventori” della Decima Flottiglia Mas (quella vera, della Regia Marina, non della Repubblica Sociale).  Sono loro (con la collaborazione di Angelo Belloni per il perfezionamento decisivo degli autorespiratori) all’ origine della progettazione dei “maiali” e dei barchini saltatori, su uno dei quali Tesei saltò in aria nell’ attacco a La Valletta, a Malta.
Di lui ho parlato molte e molte volte con suo nipote, Oreste Del Buono, che tutti ricordano come scrittore, giornalista, esperto di gialli e protagonista della vita editoriale italiana. Sarebbe forse interessante che io scrivessi qualcosa su questo argomento. Forse, a pensarci bene, potrei farlo veramente.



(Battute 4.416).


25 novembre 2011

A DOMANDA RISPONDE

Precisazioni e divagazioni a proposito di Sarkozy, Humphrey Bogart, Louis De Funès e Jacques Dufilho, Luis Calhern, in risposta a missive di lettori.

Rispondo qui agli ultimi Post arrivati, in ordine di tempo. Fino ad ora sono due quelli occasionati dal mio (troppo) lungo brano su Sarkozy e dintorni. Forse l’Anonimo ha ragione a proposito delle orecchie a punta in comune fra De Gaulle e Sarkozy. Però ho la sensazione che quasi tutti noi se inquadrati (involontariamente) in un certo modo diamo l’impressione di avere le orecchie a punta.  Tuttavia non posso escludere che, grazie alla militanza gollista, “Sarko” sia riuscito a porsi sulla stessa lunghezza d’onda del generale e sia quindi in grado, ancor oggi, di riceverne le direttive. Ho riconosciuto prima che il mio brano era eccessivamente lungo, irto di nomi che nessuno conosceva e che nessuno ricorderà. Sono nomi fondamentali per la storia di Francia nella seconda metà del secolo trascorso ma è sicuramente vero che, soprattutto in Italia, risultino ignoti e, in fondo, incomprensibili. In quanto all’equazione Sarkozy = De Funès più Dufilho la trovo azzeccata e divertente, e in grado di apportare alla vita politica francese, fondamentalmente triste, un tocco di allegria. Fra l’altro, riflettendoci vedo che tutta l’equazione ribadisce il carattere “oriundo” del personaggio. Probabilmente molti non lo sanno ma Louis De Funès è di origine spagnola (la sua famiglia, nobile, si chiamava esattamente de Funès de Galarza) mentre qualche sospetto lo nutro su Jacques Dufilho: mi sembrava di aver letto in passato che in origine si trattasse di un nome portoghese (Du Filho suona come “del figlio”) ma non sono più riuscito ad averne prove sicure.  Va detto che il povero Dufilho, eccellente attore di carattere, interpretò in Francia moltissimi film mentre da noi venne conosciuto soltanto per avere impersonato, in diverse operine di esplicita farsa militare, il Colonnello Buttiglione. Pertanto la sicura origine ungherese di Sarkozy si accoppierebbe alla sicura origine spagnola di De Funès ed alla potenziale origine portoghese di Dufilho. Un vero trionfo di oriundi!
In quanto al Secondo Anonimo che mi ha scritto a proposito di Huston, volevo ricordargli che il meraviglioso “Grande sonno” circola ancora in televisione, per quanto mi risulta, in una edizione fatta ridoppiare da me, perché da molto tempo il doppiaggio originale era stato smarrito e per questa ragione nessuno riproponeva più i film. Fra l’altro la voce italiana venne data a Bogart da Paolo Ferrari e non se ne accorse nessuno…Non posso escludere che la “La Fuga” (Dark Passage, 1947) fosse incluso a suo tempo in un mio ciclo televisivo. Menzionarlo  serve a ricordare un regista secondario ma interessante come Delmer Daves (1904-1967) a cui dobbiamo dal 1943 in poi film come “Destinazione Tokyo”, “L’amante indiana”, “Quel treno per Yuma”, “L’albero degli impiccati”, eccetera, e che fu al tempo stesso testimone importante e partecipante di una straordinaria stagione di Hollywood.
Non vorrei dare lezioni ma approfitto cinicamente del Secondo Anonimo per ricordargli che “l’avvocato con i baffetti” il quale in “Giungla d’asfalto” (film di culto per un’intera generazione, tratto da un libro del geniale  W.R. Burnett) impersona il ricchissimo e tarato Alonzo  D. Emmerich, amante – protettore di una giovane Marilyn Monroe- è niente meno che Louis Calhern (1895- 1956), per lunghi anni idolo del pubblico teatrale e poi anche comprimario di successo al cinema (fu anche Giulio Cesare nel film di Mankievicz del 1953).
Approfitto per ricordare a tutti che dovrebbe iniziare su Film Tv una mia rubrichetta mensile intitolata “Salvate la Tigre”, intesa a rievocare mie operazioni di salvataggio e/o di recupero di film danneggiati o inediti da me portate a termine alla Rai. Soprattutto nel periodo di Rai Uno (1976-1981) in cui non ero ancora capo struttura ed avevo perciò più tempo da dedicare a passioncelle cinefiliche varie.






23 novembre 2011

ATTRAVERSO "IL FOGLIO" RIFLESSIONI VARIE SU SARKOZY E DE GAULLE

Nel quotidiano di Giuliano Ferrara si mescolano stoccate politiche ad “agudezas”storico – letteraria. Queste pagini sono ispirate da alcuni numeri del giornale.

“Il Foglio” è un curioso giornale. Fra quelli dell’area berlusconiana è certamente il meno prevedibile, con larghissima varietà di divagazione cinematografiche e letterarie, le quali usufruiscono di uno spazio notevole, tenuto conto del numero ridotto di pagine (è vero che sin dall’ inizio ha scelto di usare poco le fotografie, le quali in effetti costituiscono parte del fascino ma anche parte dell’ appesantimento della maggior parte dei quotidiani italiani e stranieri). La militanza irosa ma intelligente di Giuliano Ferrara - negli ultimi numeri preoccupato soprattutto di condurre una lotta di retroguardia ed una di avanguardia contro il “Preside” Monti –spesso  determina la presenza di inserti da super-feuilleton, tipo le quattro pagine di lunedì 14 Novembre disseminate di una immensa aneddotica su Berlusconi e condite da alcune fotografie (qui, una volta tanto, esplicitamente usate) del personaggio durante la prima e primissima infanzia. Spesso il desiderio di evasione del “Foglio” si esplica nel numero speciale del sabato, che ha in Giuseppe Sottile uno specifico responsabile dell’inserto. Ad esempio la pagina intera dedicata il 19 Novembre a Zlatan Ibrahimovic intitolata “Street Fighter Serie Oro” che rievoca, sulla scorta di un recente libro  autobiografico, la figura di un grande centravanti in circolazione, forse il migliore, che nella sua nazionalità svedese e nella sua origine etnica (padre bosniaco madre croata cresciuto in un povero sobborgo di Malmö) ha saputo trarre i succhi di una vita violenta e di un calcio clamoroso. O, ancora, sempre nello stesso numero un appassionato ritratto di Adriano Olivetti, “l’industriale che stampava libri per regalarli”, oppure nel numero di sabato 24/11/2011 un elogio senza riserve –gli juventini sono innumerevoli - per Alessandro Del Piero intitolato “Dieci Comandamento” (Dieci si riferisce al numero della maglia del giocatore, che lo situa fra le grandi mezze ali sinistre di un tempo, quando la numerazione riguardava rigidamente, secondo l’insegnamento inglese, la collocazione in campo: mi ricordo benissimo di quando fu introdotta in Italia a imitazione del calcio britannico). O, la pagina di cinema apparsa il Sabato 22 Novembre affidata alla mercuriale e guizzante Maria Rosa Mancuso. Senza contare il toccante omaggio a Genova, (“Superba, fragile e tradita”) di due liguri, Pippo Marcenaro e Carlo Stagnaro. Oppure qualcuna delle  molte altre manifestazioni, in cui rendono esplicite le vocazioni, al tempo stesso polemiche e fantasticheggianti, della Redazione. Mi riferisco qui ad un’ intera pagina di mercoledì 8 Novembre intitolata “Il gazzettino di M. Sarkozy” ovvero “La sarko – narrazione del mondo secondo il cortigiano Figaro”: amplissima rievocazione del conformismo nei confronti del potere che è tipico non solo dell’Italia ma ancor più, con una tonalità monarchica assente da noi, della Francia. Pochi giorni dopo, e cioè venerdì 11 novembre, ritroviamo sul tema un pezzo significativo intitolato “I boss dell’Euroracaille” (forse non è necessario ma ricordo che è un neologismo ove si unisce la parola “euro”alla parola “racaille”, che in francese significa “gentaglia, feccia,” e che qui è usata perché lo fu da Nicolas Sarkozy, alludendo agli abitanti, in genere di colore, di una zona della “banlieue” in rivolta: egli li definì appunto “racaille”, cosa che gli venne a lungo rimproverata). C’è nella pagina una colonna di apertura, intitolata “La faraona” dedicata alla Merkel ed una colonna di spalla intitolata “Il pavone” e dedicata a Sarkozy. Quest’ultimo articolo comincia così: ” Nicolas Sarkozy è un pavone dallo sguardo mezzo sognante e mezzo ebete, con una delle piume della sua coda in bocca e un lieve, sempre più ebete sorriso”. Se ho capito bene è una frase tolta dal Courrier International. “ (…) un magazine molto bello – dice il Foglio – che traduce articoli da tutto il mondo con un approccio decisamente di sinistra”. Senza voler riassumere qui l’intero articolo del Foglio, mi limiterò a ricordare che in chiusura si dice che nell’articolo del Courrier International : (….) la vignetta più bella è quella tratta dal giornale economico moscovita Kommersant: c’è un busto di Napoleone, sulle sue spalle c’è De Gaulle con  Sarkozy  seduto sulla visiera del cappello del generale mentre lancia un aereoplanino da guerra (uno di quelli spediti per ammazzare Gheddafi in Libia). E, per evitare che ci si dimentichi, c’è un titolo-remainder iniziale: tra sei mesi ci sono le elezioni, il Presidente ha parecchio da fare nel 2012 per convincere i francesi che è ancora lui l’ uomo della situazione”.



De Gaulle (1942) da Wikimedia
Il punto è proprio qui. Ovvero la lunga ombra di De Gaulle che si distende, immensa e spietata sopra le scarse membra di Sarkozy. Bisogna ricordarsi che l’ UMP, l’ Union pour la Majorité Présidentielle, è il nome che il partito francese di maggioranza e di eredità gollista  ha adottato nel 2002, raggruppando insieme il vecchio RPR e la “Démocratie libérale” e unendovi circa i 2/3 dei deputati dell’UDF, ovvero la vecchia Union pour la Démocratie Française, di più o meno lontana origine giscardiana. A sua volta l’UMP deriva, conservando abilmente le lettere iniziali, dall’ Union pour un Mouvement Populaire, di netta derivazione  chiracchiana (ho semplificato all’estremo tutti i complessi passaggi di persone, di seggi e di sigle  del centro-destra francese degli ultimi 20/30 anni). De Gaulle, ahimè,  è  morto da 41 anni, sono quasi del tutto scomparsi quelli che furono definiti dal “Nouvel Observateur” nel 1963  “i baroni del gollismo”- ricordo nomi decisivi come quelli di Jacques Chaban – Delmas, Michel Debré, Jacques Foccart, Roger Frey, Olivier  Guichard ed altri ancora come Maurice Couve de Murville, Pierre Messmer, Georges Pompidou, Maurice Schumann – così come sono prossimi a scomparire i pochi superstiti, tuttora vivi, fra i “Compagnons de la Libèration”. E cioè i puri e i duri del gollismo che avevano combattuto a fianco del generale dal 1940 al 1945, e che erano 1036 quando il sodalizio era stato fondato il 23 gennaio 1946 (ma di essi ben 271 lo erano “à titre posthume”). Di fatto furono in 700 e al 20 di novembre di questo anno ne sono rimasti vivi 31. Sicché a testimoniare in diretta di un passato glorioso ma sempre più lontano ci sono solo, nel ramo principale che discende strettamente dal Generale , i due figli ormai vecchi (Philippe del 1921 e Elisabeth del 1924) ed i loro eredi.


Sarkozy (Album di Oao)
Il problema di Sarkozy è tutto legato alla disperata battaglia, da lui condotta sin da adolescente, per inserirsi in un passato che non aveva direttamente conosciuto (era quindicenne nel 1970 quando morì De Gaulle) sicché, come capita a molti altri cinquantenni francesi, il suo gollismo è soprattutto immaginato e costruito. Si direbbe che la sua continua vocazione delle grandezze trascorsa della Francia, la sistematica esaltazione di una “grandeur” che gli è stata raccontata dai libri, la celebrazione senza riserve di un passato totalmente eroico e di un presente totalmente militare, siano una delle numerose manifestazioni del disperato tentativo di essere accettato senza riserve. In un paese pur fittissimo di oriundi d’ogni paese (il fenomeno di affollamento alle frontiere, che l’Italia conosce da non più di venti anni, è stata per la Francia una regola sin dall’Ottocento) lui rimane pur sempre il primo presidente della repubblica nato da genitori di origine straniera, oltreché ovviamente il primo ad essere nato nel dopo guerra.  Se si riguardano tutti i presidenti di Francia dalla seconda Repubblica in poi, a partire da Luigi Napoleone Bonaparte, figlio di un fratello di Napoleone, presidente prima di farsi proclamare Napoleone III –era molto francese per ragioni dinastiche, anche se parlava con lieve accento tedesco perché era cresciuto in Germania e in Svizzera, ….- si trova un solo oriundo straniero. E cioè Patrice de Mac Mahon, (1808-1893) nato, è vero, da una famiglia d’origine irlandese stabilitasi però in Francia dalla fine del 1600 e che appunto Napoleone III aveva  fatto duca di Magenta. Pertanto uno straniero per modo di dire. Tutti gli altri (XX compreso Mac Mahon) sono di salda origine francese, spesso provenienti da quella media borghesia che, praticamente come tutta Europa, fornisce la maggior parte della classe politica. Sono 14 nella Terza Repubblica, sino a quell’ Albert Lebrun il cui secondo mandato fu brutalmente sospeso dopo un anno dall’ arrivo in scena del Maresciallo Petain (anche egli di origine garantita). Sono due quelli della Quarta Repubblica, e cioè Auriol e Coty e infine, sino ad ora, sei quelli della Quinta Repubblica, da De Gaulle appunto a Sarkozy. Mentre tutti gli altri vengono da famiglie saldamente confitte o a Parigi o nel “terroir”, Sarko nasce nella capitale il 28 gennaio 1955 con il nome impressionante di Nicolas Paul Stéphane Sarközy de Nagy-Bocsa (riportarlo sembra una pignoleria da parte mia ma a quanto pare è la dizione usata nel conferimento di decorazioni allo stesso Sarkozy, come nel decreto che lo nominò “Cavaliere della Legion d’Onore”). Il padre era l’ultimogenito, naturalizzato francese, di una famiglia dell’aristocrazia ungherese e la madre ( Andrée Jeanne “Dadu” Mallah) era la figlia di un medico ebreo sefardita di Salonicco convertito al Cristianesimo e di una francese cattolica. Come si vede il gusto della mescolanza era vivo in famiglia e Nicolas, dal canto suo, vi contribuì nei limiti del possibile, sposando prima Marie-Dominique Culioli ( di evidente origine corsa) da cui ha avuto due figli, Pierre nel 1985 e Jean nel 1986, anche egli attivissimo in politica e che nel 2009 lo ha già reso nonno. Prediligendo le famiglie sbrindellate e le soluzioni romanzesche, nel 1996 sposa Cécilia Ciganer-Albéniz che paradossalmente aveva conosciuto nel 1984 quando, nella sua qualità di sindaco di Neuilly-sur-Seine, cittadina ricchissima di 60 mila abitanti dove risiedono molti francesi famosi, aveva celebrato le nozze della stessa Cécilia con un cantante e intrattenitore televisivo allora notissimo in Francia, Jacques Martin ( ad esempio una sua celebre rubrica della domenica mattina si chiamava “Dimanche Martin” invece che “Dimanche Matin”). Per un certo periodo essa lavorò al fianco di Sarkozy, prima in servizio al Ministero degli interni e poi venne posta a capo dello staff dell’UMP, il già citato partito gollista. Fu molto nota all’epoca la difficile trattativa in cui essa riuscì a salvare dalle prigioni di Gheddafi cinque infermiere bulgare e un medico palestinese condannati a morte in Libia. Infine, come è noto,  Sarkozy, dagli appetiti intensi, ha divorziato da Cécilia (nel 1997 ne ha avuto un figlio, Louis) per sposare nel 2008 Carla Bruni, la quale recentemente gli ha dato la quarta figlia, chiamata italicamente Giulia (in francese esiste sicuramente la parola Julienne ma è soprattutto usata come termine culinario).
La vita privata di Nicolas rispecchi evidentemente la rabbiosa elasticità del suo modo di vivere ed anche quello di far politica (nulla di più differente dai costumi privati di De Gaulle e semmai più simile all’ esistenza personale di Chirac, però ufficialmente monogamo, e di Mitterrand, ufficiosamente bigamo). La stessa vivacità l’ ha trasferita, sin dall’ adolescenza, nel suo modo di far politica. Mosso da una rabbiosa voglia di salire è riuscito ad impadronirsi della corrente gollista, nonostante le forti opposizioni ( ci fu un momento in cui sembrò un perdente perché aveva scelto Balladur invece di Chirac) riuscendo sempre a riprendersi con un colpo di reni, sino a diventare Presidente della Repubblica, come credo avesse sognato sin da ragazzo. La sua strabordante vitalità e la sua voglia di essere padrone del campo a 360 gradi si riflette molto bene nella consacrazione che gli tributa sistematicamente il sito della Presidenza della Repubblica francese (www.élysée.fr). Basta dargli un’ occhiata - fra l’altro contiene anche degli interessanti filmati sulla storia e sul funzionamento della Presidenza della Repubblica - per rendersi conto di quanti e quali cose faccia continuamente Sarkozy, il tutto comprovato e ribadito da altri numerosi filmati e da minuziose ricostruzioni di incontri e di discorsi. La quantità di uomini politici francesi e stranieri, di delegazioni nazionali e internazionali, di rappresentanze di eletti e di poteri locali che egli riesce ad incontrare in una settimana fa impressione, così come lo fa l’ altissimo numero di discorsi e di messaggi che egli pronuncia - vorrei dire che recita – con la tradizionale eleganza dell’ eloquenza pubblica francese ( non so se tutti i discorsi li scriva direttamente lui o se siano, come sembra più logico, apprestati da un apposito nucleo di consulenti, ma sono sicuramente di alto livello formale). Basta sentirlo parlare una volta per capire perfettamente la sua intensa voglia di protagonismo: il che spiega tanti risvolti dei suoi interventi di politica internazionale di cui è stato l’ interprete quasi esagitato. Si pensi alle sue compiaciute ostentazioni belliche ed al suo recente, pesante intervento sulla NATO per distruggere la Libia di Gheddafi. Si è avvertito benissimo il bisogno di Sarkozy di integrare il suo successo “civile” con un successo militare. Forse lo ha conseguito ma continua a mancargli quel che lo ha affascinato nell’eredità gollista: una famiglia ben pensante, cattolica, settentrionale, legata alle tradizioni di Lille; un intenso cammino personale che inizia con la severa selezione di Saint- Cyr, le ferite e la prigionia nella prima guerra mondiale; l’esperienza in Polonia, e l’iniziale dimestichezza con Petain, sfociata poi in una reciproca avversione;  gli anni di lucida follia della lotta solitaria condotta da Londra verso il mondo intero. Perfino le sue recenti “maleducazioni” nei confronti dell’Italia rispecchiano, in certo modo, i malumori del generale verso di noi: la tentazione di annettersi la Valle di Aosta, la tenacia nel farsi attribuire Briga e Tenda, perfino l’ironia sprezzante testimoniata da una frase famosa (“L’Italie, un pays pauvre….non, un pauvre pays”…).

L’ ombra di De Gaulle, a cui accennavo prima, spiega dunque moltissime cose e copre di un’ antica aspirazione di “grandeur” quasi ogni suo gesto pubblico, reso più aggressivo dalla giusta apprensione per le elezioni presidenziali dell’anno prossimo. 

All’apparenza egli ha molte cose del Generale, salvo due: la statura fisica e il genio.

Battute (14.438)

14 novembre 2011

A DOMANDA RISPONDE


Considerazioni del Secondo Anonimo su una telefonata degna del  “Salto Angel” e su John Huston, con mia non soddisfacente risposta.

Rispondo subito ad un corrispondente che credo di avere individuato. Mi hanno divertito le considerazioni sul Critico Televisivo Sublime, con la sua “voce che cade da vette altissime”. Purtroppo non posso seguirlo sul terreno dell’ultimo Huston. Debbo confessare a mio disdoro che, per vari motivi (rinuncia alla rubrica su un quotidiano, pensionamento, età, malattia) negli ultimi trent’anni ho perso molti film. Molti almeno in rapporto con la filmofagia obbligatoria e contrattuale che fu la mia per decenni. Fra i film perduti debbo purtroppo annoverarne due del mio pur carissimo John Huston. E cioè “Annie” (1982) e “Sotto il vulcano” (1984). Francamente, da quel che ho letto, non ardo dal desiderio di colmare le mie lacune. Per fortuna, tuttavia, ebbi il privilegio di vedere in anteprima ed in originale  l’ultimo film del regista, e cioè “The Dead- Gente di Dublino” (1987, lo stesso anno della sua morte). Con esso il regista si congedò da noi e dal mondo, e ancor più, da quel popolo e da quella nazione irlandese da cui credo discendesse la sua famiglia e della quale aveva voluto assumere la cittadinanza. Come è noto si tratta di una splendida variazione su un  pranzo post-natalizio di gente della buona società di Dublino, che diventa pretesto e causa per, come dice il Morandini, “una tormentata analisi delle varietà dell’amore.” Non è un caso che Huston, che aveva portato il padre Walter al premio Oscar con “Il tesoro della Sierra Madre”, si congedi da noi con un film sceneggiato da suo figlio Tony e interpretato anche da sua figlia Anjelica.
I miei rapporti di fedeltà con Huston sono quelli intensi di tutta la mia generazione ma, in particolare, si colorano di una curiosa tonalità “parallela”. Verso la fine degli anni ‘70 realizzai per Rai Uno un ciclo di film, che ottenne  ovviamente grande successo, dedicato a Humphrey Bogart (forse rievocherò l’accaduto in una rubrichetta intitolata “Salvate la Tigre”, che ho iniziato su “Film Tv” dietro richiesta del direttore Aldo Fittante). Trovai modo in quella occasione di far doppiare o ri-doppiare (nel caso si fossero perse le colonne originali) alcuni film interpretati da Humphrey. Fra di essi due inediti, uno dei più belli in assoluto, “I ruggenti anni Venti” di Raoul Walsh  (1939) ed uno dei più curiosamente brutti (brutto ma non totalmente banale) e cioè “Agguato ai Tropici” (1942) appunto di John Huston. Fra gli altri interpreti c’erano Mary Astor e Sidney Greenstreet. Questi, giunto molto tardivamente al cinema, aveva esordito sullo schermo l’anno prima con il fondamentale “Mistero del falco”, clamorosa opera di esordio dello stesso Huston. Qui, nello stesso anno in cui Greenstreet disegnò in “Casablanca” l’indimenticabile figura del “Signor Ferrari” (nel doppiaggio italiano “Signor Ferrack”), Humphrey e Sidney si affrontavano sulla tolda di un piroscafo in cui il primo era salito come agente del controspionaggio americano mentre il secondo impersonava un grasso inglese spia dei giapponesi. L’insieme sacrificava alla convenzione ma non escludeva il divismo e, se ricordo bene, Huston che si era arruolato nelle forze armate dopo Pearl Harbour, abbandonò la lavorazione prima di girare l’ultima sequenza, quasi totalmente assurda, ambientata in un giardino (o in una foresta), ove ovviamente tutto si risolveva bene.
Per questi motivi ho conservato nella memoria una sorta di imbarazzato affetto per “Agguato ai Tropici” e probabilmente desidererei rivederlo…

(battute 3.460)

9 novembre 2011

A DOMANDA RISPONDE


Opinioni sul contraddittorio fra me e Veneziani, sulla “Guerra lampo dei fratelli Marx” e perfino sulla mia fortunata sopravvivenza al fortunale che ha investito Genova.


Ringrazio Enrico per le sue osservazioni concernenti le opinioni della mamma, di fatto mia coetanea. Non mi stupisco delle lodi per le opere pubbliche del Ventennio: in effetti molte strade e costruzioni d’epoca resistono all’usura del tempo ed alle trappole della meteorologia molto meglio di quanto non facciano le costruzioni via via realizzate a partire dal ritorno della democrazia in Italia. Evidentemente non è un giudizio politico ma è una banale constatazione visuale. Se mai lo stupore nasce dal raffronto fra il successo dei fabbricati d’epoca (per restare nel campo del cinema si pensi a Cinecittà o al palazzo della Mostra al Lido di Venezia) e l’approssimazione totale nel campo della preparazione bellica: cannoni antiquati, aerei di base pochi e assolutamente invecchiati, modelli da caccia nuovi e moderni prodotti con il contagocce, scarpe e divise della truppa assolutamente insufficienti, eccetera. Si vede qui il mal funzionamento di quella burocrazia statale a cui accennavo nella mia lettera a Veneziani e che soffrì palesemente dell’accentramento di tutti i ministeri importanti nelle mani di Mussolini.
Mi pare straordinario, e mi riempie di orgoglio l’aneddoto riguardante il successo de “La guerra lampo dei fratelli Marx” nelle aule di medicina. Ne deduco che il mio interlocutore è un medico e che i miei interlocutori cinematografici del tempo erano di qualità…
Quello che scrive Antonio Sabino mi pare molto vicino alle mie osservazioni: non è un caso che la generazione del GUF sia composta di una piccola minoranza di fedeli entusiasti (molti di essi cambiarono poi idea e, come diceva Totò, si “buttarono a sinistra”) ed una maggioranza di furbetti  indifferenti, disciplinati in apparenza e totalmente neutri nel fondo. Si pensi alla figura di quel giovane ufficiale di fanteria, magnificamente incarnato da Alberto Sordi, che regge e motiva l’intera  struttura narrativa di “Tutti a casa” (1960), diretto da Luigi Comencini e scritto da Age & Scarpelli più Marcello Fondato. Il personaggio di Sordi ha idee ossequiose ma vaghe su Nizza, Corsica e Savoia ma a suo modo più precise, ma pur sempre sbrindellate, sugli Stati Uniti, visti attraverso il filtro di Fred Astaire e Ginger Rogers.
Infine  ringrazio pubblicamente Davide Barranca che mi ha consigliato di approfittare del Blog per dare notizie su di me e sul “tifone” scatenato su Genova. Io e mia moglie stiamo bene, non ci è successo assolutamente nulla e in senso stretto nulla è accaduto intorno al caseggiato dove abito. Esso si trova in una traversa (lo dico per quelli che conoscono la città) di via Casaregis, alla Foce. Ho appreso adesso che nella zona ci sono stati diversi allagamenti e che, a non grande distanza da casa mia, sono stati concentrate centinaia e centinaia di automobili divorate dalle acque. Come accade quasi sempre l’unico modo per non conoscere veramente le notizie è quello di trovarcisi immersi dentro. Per fare un esempio tipico ricorderò (io non me ne sono mai dimenticato) che cosa accadde a Genova il 30 giugno 1960. Io ero chiuso nel palazzo del “Corriere Mercantile” intento a scrivere a macchina la traduzione di una serie di fumetti americani che avevano per protagonisti John Fitzgerald Kennedy e Richard Nixon. Vi si riassumevano le biografie dei due politici in lotta per la presidenza degli Stati Uniti (come è noto vinse il primo e assunse la carica nel Gennaio dell’anno seguente). Lavorai per tutto il pomeriggio senza sentire il minimo rumore dall’esterno, anche per la perfetta chiusura sonora del palazzo che era di recente costruzione. Non mi accorsi di nulla. In realtà a meno di un chilometro da me la folla tumultuava in via XX settembre e in piazza De Ferrari contro la polizia, per protestare contro l’apertura di un congresso a Genova del Movimento Sociale Italiano. Praticamente alla fine della giornata la rivolta di Genova fece cadere il governo Tambroni. Mi raccontarono tutto i colleghi della cronaca che, da breve distanza,  tornarono stravolti in redazione. E’ l’eterna lezione stendhaliana di Fabrizio del Dongo che partecipa alla battaglia di Waterloo e non se ne accorge…