Blog - Crediti


L'audio e i video © del Blog sono realizzati, curati e perfezionati da Lorenzo Doretti, che ha anche progettato l'intera collocazione.
L'aggiornamento è stato curato puntualmente in passato da diverse collaboratrici ed attualmente, con la stessa puntualità e competenza, se ne occupano Laura M. Sparacello ed Elisa Sori.

30 marzo 2009

Lezioni di scuola seriale 3 - video

Lezioni di scuola seriale 2 - video

Lezioni di scuola seriale 1 - video

L'ordine di impaginazione dei singoli video è stato articolato da Chiara Sgarro, che di fatto si è impadronita della trasmissione.


La posta di D.O.C. Holliday (14.a puntata)




Caro D.O.C. Holliday,
le delusioni al cinema sono frequenti. Ultimo esempio "Fantasia 2000". Anche i bambini in sala erano spazientiti, ma in questi caso, forse, il film non è adatto a loro, ma il marchio "Walt Disney" ha una forte attrattiva su tutti. Lei che ne pensa di questi film ? Grazie anticipatamente per la risposta Con l'occasione le invio cordiali saluti, e sempre maggior successo per l'utilissima rivista "Film D.O.C.". MARIO DI NERVI


Caro Mario di Nervi. Credo di non sbagliare scrivendo che lei è divenuto uno dei corrispondenti abituali della rubrica. La ringrazio a mia volta e giro i suoi complimenti a Piero Pruzzo, che è l'unico abilitato a riceverli ed cui va sicuramente la maggior parte del merito se "Film D.O.C." sta conquistando lettori ed amici, anche fuori Genova. Proprio con Piero ho parlato di "Fantasia 2000" che, lo confesso, non ho visto e che, probabilmente, non vedrò mai. Con l'età mi si è sviluppata una sorta di forsennata diffidenza per tutto quel che riguarda il cinema di animazione (che pure conta tanti estimatori e anche miei tanti amici e colleghi che lo amano e sanno intenderlo, valutarlo e studiarlo). Però ne ho parlato a lungo proprio con Pruzzo che lo ha visto (ma non avrei fatto più presto a vederlo io stesso ? Va a sapere) ed ho cercato, più ancora grazie ad Internet che alle abituali riviste, di leggere un po' di letteratura sull'argomento. Ho visto che anche gli americani, nonostante qualche entusiasmo passeggero, mostrano perplessità di fronte ad un film che si propone di rinnovare il meccanismo ed il mito (postumo) del vecchio "Fantasia" del 1940 (ai suoi tempi fu un disastro finanziario, il che influì molto sulle successive produzioni). Come è noto il film nacque dalla "estensione" di un cortometraggio dove Topolino, con la collaborazione musicale di Leopoldo Stokowsky, animava "L'apprendista stregone" scritto da Paul Dukas nel 1897. Disney volle allargare le dimensione del testo, aggiungendovi gli omaggi a Beethoven, Bach, Ciakovskij, Musorgskij, Schubert e Stravinskij, e dette origine ad un film in apparenza molto diverso dalle precedenti (e successive) vicende di bambini e di animali che avevano incantato e dovevano incantare generazioni e generazioni di bambini ed interessare altrettante generazioni di adulti. Tuttavia, con l'andar del tempo il vecchio "Fantasia" ha superato il distacco ed, a suo modo, è diventato un piccolo classico nella storia del lungometraggio di animazione. Non ci si stupisce, pertanto, nel vedere che anche l'attuale generazione di dirigenti della Walt Disney ha voluto, 60 anni dopo, riprendere il meccanismo del film di allora (il primo, sia detto incidentalmente, ad avere un suono stereofonico, senza che, peraltro, le sale dell'epoca fossero, in genere, in grado di "tradurlo") impaginato con lo stesso sistema antologico. Ma corretto, perfezionato e probabilmente peggiorato dal sostanziale mutamento della tecnica dell'animazione, a cui la meccanicità dei procedimenti attuali mi pare abbia tolto molto della trasognata e minuziosa delicatezza miniaturistica di quello di un tempo.
Non vorrei aggiungere altro, ma se qualche appassionato di cartoons" (malamente italianizzato, come si sa, in "cartoni") volesse intervenire sull'argomento ne sarei felice.

Finalmente Shakespeare è stato spolpato di tutto. Lentamente, inesorabilmente, film dopo film, le sue commedie e i suoi drammi sono stati ridotti a pura e semplice narrazione di fatti di cronaca. Persa qualsiasi traccia del suo linguaggio, di quelle parole che aprono all'immagine, film come "Romeo deve morire" di A.Bartkawiak (per l'esattezza: Andrzej Bartkowiak - n.d.r.) si sono appropriati di una storia per svuotarla di ogni contenuto erotico ed emozionale per dare vita ad un compiacimento della violenza e del sentimentalismo, come già accaduto nel film "Titus". A chi interessano questi film ?Non è difficile rispondere se pensiamo a quelle persone che quotidianamente si nutrono di telegiornali e programmi grondanti disperazione , a quelle persone le cui vite sono semplici cronache. Un bacio, un litigio…tutto viene catalogato come fatto e in quanto fatto osservato nel suo semplice accadere. Mentre Shakespeare ci insegna a ironizzare sui fatti che accadono permettendoci di imparare a riflettere sui sentimenti la cronaca a cui è stato ridotto da Bartkawiak (Bartkowiak -vedi sopra) rispecchia la tendenza contemporanea a commercializzare la violenza. ROBERTO BAGHINO (coll.re del Centro Ricerche Scienze Umane -Genova)

Da tempo avevo nella cartella questo "e-mail" di luglio, indirizzato anche all'Agis di Genova oltre che a moltissimi altri, fra cui Barbara Palombelli, "Il foglio, "Il Giornale", "La Stampa", "Cineforum". La pubblico per scrupolo, e per un vago senso di colpa, dato il ritardo. Non rispondo per mancanza di spazio, ed anche perché la sincerità addolorata del testo, meriterebbe una confutazione chilometrica (il film è la storia di un poliziotto cinese che si innamora della figlia di un boss nero, negli Stati Uniti). Risponda, se crede, ogni lettore nel suo foro interno, come scrivevano una volta i giuristi.
(Film D.O.C., anno 8, n. 40, Nov.-Dic. 2000)

27 marzo 2009

Lettera (semi) aperta a Paolo Garimberti


(Nella foto qui sopra: Paolo Garimberti, nuovo Presidente della RAI)

Caro Paolo,
pochi giorni fa il "Secolo XIX" ha pubblicato un pezzo, esattamente articolato e comprensivo di quelle che mi sembrano essere le informazioni fondamentali su di te, però redatto e spedito da Roma. Il che ha implicato (evidentemente il redattore non lo sapeva) l’omissione di ogni riferimento al "Corriere Mercantile", dove tu ed io, seppure in epoche diverse, siamo "passati professionisti", come si usava dire una volta nei giornali.
Allora ho deciso di mandarti queste due righe, ed ho atteso fino a quando le notizie sulla tua nomina a Presidente della RAI si sono concretate, al di là della naturale nebulosità tipica della neurotica classe politica italiana, specializzata in una serie complicatissima di movimenti in avanti, all’indietro, laterali, prima di arrivare ad una accettabile definizione. Finalmente la cosa è fatta e quindi questa mia breve lettera spero possa acquistare un sapore attendibile, senza dare l’impressione che io voglia salire sul carro del vincitore. Tenuto conto del fatto che entro Ottobre compirò 80 anni, qualsiasi movimento in questa direzione risulterebbe ridicolo, salvo che – per fortuna si esclude qualsiasi riferimento a te ed al tuo cammino – non si trattasse di un carro funebre.
Perché ti scrivo? Perché penso sia doveroso, e forse la cosa non ti dispiace, riportarci al vecchio "Mercantile" di Via De Amicis, che qualcosa ha contato nella storia del giornalismo genovese. Ai tempi del vecchio Ernesto Fassio, e di Angelo Magliano direttore, il quotidiano, che affonda le sue radici nel passato sino a risalire al 1824, avvertì un improvviso soprassalto di vitalità e di giovinezza, lanciando alcuni nomi che in parte contano ancora oggi. Vorrei prima di tutto ricordare l’ormai dimenticato Franco De Salvo, che all’inizio degli anni ’60 operò una fondamentale rivoluzione nel giornale. Quindi Luciano Garibaldi, che ha una meritata fama di divulgatore di storia. Poi Giuseppe Mayda, che la stampa genovese ignorò per anni e che venne invece apprezzato a "La Stampa". Successivamente tu stesso - quasi vent’anni a "La Stampa", compreso l’incarico di corrispondente fisso a Mosca e la redazione di Roma – hai fatto l’esperimento de "La Repubblica", poi del TG3 e del TG2, per tornare a "La Repubblica" con molteplici incarichi. Un altro felicemente approdato a "La Stampa" è Alessandro Casazza, che cominciò al "Mercantile" come mio "vice" di cinema, divenne titolare della rubrica nel quotidiano di Torino, passò poi con un importante compito all’ufficio stampa della Fiat (di lui si serviva sistematicamente Gianni Agnelli) ed ora è ricomparso nel mondo della settima arte, con la lusinghiera carica di Presidente del Museo del Cinema di Torino (istituzione che se si trovasse a Roma e non nella città piemontese verrebbe esaltata alla RAI un giorno sì e un giorno no). Infine un terzo "visitatore" de "La Stampa" è proprio Giulio Anselmi, che iniziò anch’egli al "Mercantile", continuò una felice carriera sia al "Secolo XIX", che a "Stampa sera", poi a "La Stampa" ed a "Il Corriere della Sera", con responsabilità sempre più prestigiose, per riapprodare infine, come direttore, proprio a "La Stampa", facendone forse il più bel quotidiano italiano.
Come si vede, per una piccola squadra di provincia un allevamento non trascurabile. Approfitto per ricordarlo qui, non perché penso tu l’abbia dimenticato ma perché mi è utile per ribadire la laboriosa coerenza del tuo cammino e per permettermi quindi di inviarti dall’alto della mia petulante senilità alcuni minimi ammonimenti.
  1. Ricordati che la gente non sa bene quali sono le competenze di un Presidente della RAI e tenderà stoltamente a rinfacciarti i difetti o le pecche di molti programmi.
  2. Non è facile orizzontarsi nelle varie riforme che hanno di fatto sconquassato l’Azienda. Io ho passato sei anni nella RAI di Bernabei e almeno lì si sapeva con chi prendersela, fra lui e i suoi luogotenenti. Adesso i centri decisionali del potere sono molteplici e spesso paralleli e in conflitto fra di loro. La stessa decisiva istituzione delle Reti (introdotte nel 1976 in funzione di un gioco partitico fra le formazioni maggiori ma sempre all’interno di un monopolio statale) ha ormai consolidato più di trent’anni di complicate alternanze e di infiltrazioni politiche dalle tonalità spesso oscure. E altrettanto dicasi, seppure in misura minore, per i TG, che tu hai imparato a conoscere per un tempo relativamente breve ma penso in modo illuminante.
  3. Un uso spietato ma incongruo dell’immagine da un lato ha favorito le belle ragazze stridule ed i potenziali "tronisti" imprestati alla politica. Mentre dall’altro le regole misteriose ma ferree della lottizzazione hanno sospinto sulle poltrone degli "anchor men" individui misteriosi, dalle voci sconquassate e dalla sintassi barcollante. È un andazzo così forte e articolato che credo non si possa far nulla per contrastarlo. Ma penso che nelle riunioni che contano potrai ogni tanto far presente le apparizioni più provocatorie e fastidiose.
  4. Penso che sia necessario definire una volta per tutte in modo non ambiguo il concetto stesso di "servizio pubblico", in certo senso legato alla esistenza dell’Auditel. Se si forniscono degli strumenti - concepiti per le grandi cifre della televisione commerciale – in grado di misurare l’affluenza del pubblico, e quindi il gradimento concretato nell’affollamento dei televisori casalinghi, di fatto si rinuncia a ciò che nella vecchia RAI, influenzata dalla BBC, si chiamava "Indice di gradimento". E d’altronde proprio per individuare il concetto di "servizio pubblico" la varietà delle possibili sfumature è talmente grande da rendere quasi impossibile una ragionevole pianificazione. Nella RAI in cui sono entrato, nel 1970, tutto era molto semplice: quel che veniva mostrato in televisione era "La Televisione", senza possibilità di dubbio. Al punto che la gente usava questa espressione, per attestare la veridicità di una nozione. Ti ricordi la frase: Lo ha detto la Televisione", che ricorreva in modo determinante nel linguaggio comune?
  5. Ultima osservazione. In base a ventiquattro anni di esperienza, so che alla RAI (o almeno a Viale Mazzini, ma forse a Saxa Rubra non è tanto differente) il merito sosta nei piani bassi. Ci sono molti dirigenti palesemente incapaci, ma ci sono centinaia di impiegate e di impiegati che tirano avanti minuziosamente il lavoro di ogni giorno, portando a termine incarichi spesso complicati in funzione della fisiologica complessità del lavoro radio-televisivo. Cerca di non dimenticare mai questa gente umile, che spesso paga di persona per colmare i vuoti di potere e di lavoro provocati da una cattiva e complessa organizzazione generale.
Caro Paolo, avrei ancora molte cose da scriverti ma non voglio scocciare né te né gli eventuali lettori del Blog.
Ci sarà un’occasione per riparlarne in futuro? Me lo auguro.
Un abbraccio in nome di un lontano e comune passato.
Claudio G. FAVA

24 marzo 2009

In the name of Sabatini

Ho deciso di inserire qui una lettera che ho appena scritto a Goffredo Fofi, direttore de "Lo straniero", a proposito di "Scaramouche" di Rafael Sabatini, da poco ripubblicato con una sua prefazione.

(Nella foto qui sopra: Rafael Sabatini)

Caro Goffredo,
ti scrivo a proposito di un argomento di cui ti sei occupato due volte. Riguarda quello straordinario scrittore di origine italiana, poliglotta per educazione e inglese per scelta, che è Rafael Sabatini (Jesi, 29 Aprile 1875 – Adelboden, 13 Febbraio 1950). I due brani in cui hai parlato di Sabatini e in particolare di “Scaramouche” – uno dei suoi personaggi più famosi – sono l’uno sul bellissimo supplemento domenicale de “Il Sole 24ore” del 1 Marzo 2009 e l’altro su “La Stampa” del 19 Marzo. Gli articoli sono causati dal fatto che i primi di questo mese è stato ripubblicato dall’editore Donzelli proprio il romanzo “Scaramouche”, con una tua introduzione, primo volume della saga del celebre spadaccino insieme a “La congiura di Scaramouche”, che invece in questa occasione non è stato ripubblicato.
Io sono stato un vecchio, e un tempo fedele, lettore di Sabatini, e naturalmente disponevo delle due prime, fatidiche, edizioni italiane dei romanzi editi nell’ anteguerra da Sonzogno (le prime edizioni inglesi sono rispettivamente del 1921 e del 1931), che adesso non riesco più a trovare nel solito guazzabuglio casalingo. Il personaggio di Scaramouche è straordinario ed è talmente tipico dell’autore che le parole iniziali del suo primo romanzo sono anche quelle che la moglie, scultrice, fece incidere sulla sua tomba svizzera di Adelboden: “He was born with a gift of laughter and a sense that the world was mad” (Egli era nato con il dono dell’umorismo e la sensazione che il mondo fosse pazzo). La sincerità ci obbliga a ricordare che il nucleo centrale del romanzo di Sabatini (fra l’altro sembra che il suo vero nome fosse “Sabbatini”, con due “b”) rimanda irresistibilmente ad un famoso libro ottocentesco di Tèophile Gautier, “Il Capitan Fracassa”, pubblicato in Francia tra il 1861 e 1863: anche qui il protagonista, il barone di Sigognac, abbandona il suo castello semidistrutto per unirsi ad una troupe di commedianti smarriti ed alla morte dello specialista “Matamoro” (tipico personaggio d’epoca di pomposo spaccone) ne prende la successione con un personaggio equivalente, e cioè, appunto, “Capitan Fracassa”. Il suo cammino è molto simile a quello disegnato da Sabatini, nell’inventare la figura di André-Louis Moreau (figlio illegittimo di due aristocratici), avvocato di provincia costretto a fuggire perché l’arrogante marchese di La Tour d’Azyr, che in realtà è suo padre, cosa che entrambi ignorano, uccide spietatamente in duello Philippe de Villmorin. Questi, anch’egli un aristocratico ma non un buon spadaccino, è animato da sentimenti ingenuamente rivoluzionari e il marchese si avvale della sua propria esperienza nella scherma per spegnere una voce che giudica pericolosa. Moreau dapprima si scatena contro l’aristocrazia a Rennes e Nantes, con lo pseudonimo di “Omnes omnibus”, poi fugge nascondendosi in una compagnia di teatranti, dove scopre in sé eccellenti doti d’attore e di inventore di copioni in un tipico personaggio di spaccone militare nascosto dal nome reboante di “Scaramouche”. Chiaramente a questo punto i due percorsi si diversificano perché Moreau si inserisce in modo geniale, secondo le regole del romanzo d’appendice, nel tessuto inquieto della Francia agli inizi della Rivoluzione, ed egli dal teatro passerà a diventare titolare di una scuola di scherma e poi ad essere prescelto come rappresentante della sinistra all’Assemblea degli Stati Generali. Qui, la geniale invenzione di Sabatini lo conduce via via a diventare una sorta di simbolo delle profonde mutazioni della Francia dell’epoca: da spadaccino parlamentare, incaricato di uccidere secondo le regole aristocratiche del duello, proprio all’interno dell’Assemblea, i più arroganti esponenti del Primo Stato, finirà col capire quanto i nobili sentimenti, che avevano portato all’introduzione della democrazia nella vita pubblica francese, fossero degenerati fino a dare origine all’epoca del Terrore e della ghigliottina. Sicché - ed è questa la svolta più inattesa ed affascinante della saga – diventerà un adepto della monarchia in esilio, ponendosi coraggiosamente, come agente segreto, al servizio dei Borboni fuggiaschi, ed in particolare del più anziano fra i fratelli minori di Luigi XVI, il conte di Provenza. Di fatto questi fu il pretendente al trono con il nome di Luigi XVIII sin dalla morte del piccolo Luigi Carlo avvenuta in prigionia nel 1795. Nipote che dai legittimisti venne considerato Luigi XVII, ma che alla sua precoce scomparsa lasciò formalmente erede suo zio, riconosciuto ufficialmente a pieno titolo sovrano di Francia nel 1814, alla caduta di Napoleone. Tutti gli sviluppi della vicenda sono evocati da Sabatini con la felicità di invenzione che lo hanno fatto paragonare a Dumas, ma senza la vigoria romanzesca del francese ottocentesco, lingua tipica del “cappa e spada”. Sabatini, noto poliglotta – parlava correntemente italiano, portoghese, francese, inglese e tedesco - aveva deliberatamente scelto di utilizzare nella sua opera l’idioma della madre, e cioè l’inglese, perché era quello “in cui venivano scritti i libri più belli”. Perciò le sue avventure di agente – fra cui i tentativi di liberare i prigionieri del Tempio, da Luigi XVI a Maria Antonietta - si intersecano con i complessi accadimenti personali che continuano a tormentare la sua privata esistenza. E cioè la presenza continua e sprezzante del marchese di La Tour d’Azyr – entrambi continuano ad ignorare i legami che li uniscono – che si intreccia con la vita sentimentale di Scaramouche, ormai apertamente innamorato di una nobile bretone, Aline de Kerkadiou. Essa, salvatasi in Germania ad opera di André-Louis Moreau, è insidiata addirittura dal conte di Provenza, vale a dire da quello per cui lo stesso André-Louis rischia la vita ogni giorno.
Ricordo che il cinema ha largamente attinto ai romanzi di Sabatini e per questo rinvio al numero speciale di “Biblioteca Aperta” dedicato al Convegno di Studi su Rafael Sabatini (Il fascino della narrazione tra storia ed avventura) tenuto a Jesi il 9-10 Novembre 2001: dispongo degli atti del convegno grazie alla cortesia della dott.ssa Rosalia Bigliardi, allora direttrice della Biblioteca Planettiana, ospitata dalla città della Marche. L’elencazione mi sembra completa fino al 2001 e naturalmente oltre ai puntuali riferimenti a opere sabatiniane largamente conosciute – come il “Capitan Blood” – vengono citati tutti i film legati alla figura di Scaramouche. Dal muto di Rex Ingram del 1923 con Ramon Navarro, a quello di George Sidney del 1952 con Stewart Granger nella parte del protagonista e con Mel Ferrer in quella del Marchese (tutti gli spettatori d’epoca ricordano l’interminabile duello all’interno di un teatro).




(Nelle foto qui sopra: tre immagini dal film "Le avventure di Scaramouche" di George Sidney, 1952, interpretato da Stewart Granger e Mel Ferrer)

Caro Goffredo, ho indugiato in questa ricostruzione, i cui termini tu conosci perfettamente, perché intendo pubblicare il testo anche nel mio Blog (http://clandestinoingalleria.blogspot.com) ed è quindi doveroso da parte mia informare i lettori appassionati di Sabatini ma anche quelli che lo conoscono poco. Per concludere, vorrei ribadire una cosa, e cioè che la seconda parte delle avventure di Scaramouche” – in italiano “La congiura di Scaramouche” e in originale “Scaramouche–The King Maker”, ovvero “Il fabbricante di re”, - secondo me è la parte più bella della saga, e possibilmente dovrebbe essere pubblicata non disgiunta dal primo volume. E proprio nel subitaneo risvolto della clamorosa carriera repubblicana di André-Louis Moreau, diventato monarchico per lucidità di ragionamento, e quindi duramente punito nei suoi sentimenti per Aline, risiede la struttura più inventiva e bizzarramente coerente dell’intera vicenda.
Mi raccomando, siamo in tanti ad aspettare il secondo volume, naturalmente con una tua prefazione.
In the name of Sabatini
Claudio G. FAVA

19 marzo 2009

Omaggio a un regista amato



(Nella foto qui sopra: il regista Richard Brooks insieme a Maria Schell durante la lavorazione di "Brother Karamazov", "I fratelli Karamazov", del 1958)

Da tempo mi ronzava per il capo (scrivo come un minore toscano dell'Ottocento) la tentazione di scrivere un brano meditato su un regista che ho molto amato in passato e per il quale continuo a provare una profonda tenerezza: Richard Brooks. Ho cominciato a raccogliere materiale, ad analizzare i giudizi di Morandini e le recensioni contenute in "Internet Movie Database", ed a fare ricerche di un suo prezioso romanzo - "Hollywood nuda", in originale "The Producer" - di cui possedevo un raro esemplare (uscì in Italia nel 1956, inserito nella preziosa collana "I romanzi del Corriere", dove vennero pubblicati, molti anni prima di Garzanti, alcuni dei romanzi di Fleming della serie "James Bond) che non riesco più a trovare. Infine decisi di dare un'occhiata alle enciclopedie che ho in casa. Nell'Enciclopedia del cinema della Treccani - ho compilato diverse voci nella sezione diretta da Gianluca Farinelli - non esiste la voce "Richard Brooks". In compenso c'è nel "Dizionario dei registi del cinema mondiale", pubblicato dal Einaudi nel 2005, diretto da Gian Piero Brunetta, affiancato alla "Storia del cinema mondale", e articolato in tre tomi. Ho cominciato a consultarla, compiacendomi per l'ampiezza del testo ed anche per la fondatezza delle ragioni critiche, con cui mi sentivo di concordare al 100%. Pieno di buona volontà sono andato a controllare la firma ed ho scoperto che il brano lo avevo scritto io! Mi ricordavo di aver collaborato all'iniziativa ma avevo totalmente dimenticato quella voce specifica. Naturalmente ho rinunciato (almeno per ora) all'idea di scrivere un testo che, almeno in parte, sarebbe ineluttabilmente una ripetizione di quello apparso nell'enciclopedia. In compenso ho deciso di pubblicarlo nel Blog. Penso di poterlo fare senza danneggiare né l'editore né Brunetta (avviserò quest'ultimo via e-mail). Per scrupolo ripropongo qui i dati editoriali: "Dizionario dei registi del cinema mondiale" (Tre tomi), Torino, Einaudi, 2005-2006. Volume A-F: 78€, Volume G-O: 78€, Volume P-Z: 85€.
Mi auguro che l'eventuale lettore voglia apprezzare se non l'attendibilità del mio testo, almeno l'affetto che lo permea.

RICHARD BROOKS

(Filadelfia, Pennsylvania, 18 maggio 1912// Beverly Hills, Los Angeles, 11 marzo 1992). Frequenta la West Philadelphia High School poi la Temple University. Giornalista sportivo all’ “Atlantic City Press Union”, al “Record” di Filadelfia ed al “World Telegram” di New York. Qui lavora anche alla stazione radio WNEW e viene infine assunto nel “writing pool” del network NBC. Dopo un anno come direttore di un teatro, il New York Mill Pond Theatre, ecco l’inevitabile trasferimento “cinematografico” a Los Angeles ove scrive drammi radiofonici e sceneggiature per film di serie B e per seriali. C’è la guerra e dopo due anni di servizio nei Marines, Brooks esordisce nella narrativa con “The Brick Foxhole”, un romanzo che sarà poi la base di Crossfire (Odio implacabile,1947) di Dmytryk. (ne scriverà altri, fra cui “Il produttore”, interessante affresco di vita hollywoodiana al centro del quale un personaggio che ricorda molto Mark Hellinger). Dal 1942 al 1950 cresce come “writer” per il cinema: fra l’altro Brute Force(Forza bruta, 1947) di Jules Dassin e Key Largo (L’isola di corallo,1948) di John Huston. La buona fama che si è procurato grazie alle sceneggiature, gli consente nel 1950, con l’intercessione di Cary Grant (sarà il protagonista), di esordire nella regia con un piccolo film ingegnoso: Crisis (La rivolta). Complessivamente nel corso di 35 anni dirigerà 24 film, quasi tutti su sue sceneggiature. (nel corso della scheda indicherò solo le sceneggiature in cui Boooks è assente, dando per scontato che in tutte le altre il testo sia suo). Negli anni ’50 e ‘60 la sua carriera è in netta ascesa e sul suo nome c’è convergenza di attenzione dei critici e dei produttori: è considerato un” indipendente” anche se continuerà ad essere inserito nello “studio system” sino al 1965. E’ il suo periodo di maggior fortuna. Si può dire che dal 1956 al 1968 la gente di Hollywood gli riconosca una sicura preminenza: in dodici anni ben 5 volte entra nelle “nominations” per gli Oscar. Tre implicano addirittura una duplice candidatura per la migliore regia e la migliore sceneggiatura. E cioè nel 1959, Cat on a Hot Tin Roof (La gatta sul tetto che scotta), per il testo insieme a James Poe, nel 1967 The Professionals (I professionisti), nel 1968 In Cold Blood (A sangue freddo) dal libro di Truman Capote. Due, invece, le candidature solo per la miglior sceneggiatura: nel 1956 Blackbord Jungle (Il seme della violenza). E infine nel 1961 quella che gli frutta il premio pieno per Elmer Gantry (Il figlio di Giuda). Due statuette toccano anche a Shirley Jones ed a Burt Lancaster, i due protagonisti.


(Nella foto qui sopra: Burt Lancaster e Shirley Jones ne "Il figlio di Giuda", "Elmer Gantry", del 1961)

Da quel momento, pur proseguendo in modo abbastanza soddisfacente, la carriera di Brooks ha una sorta di incrinatura. Il cinema via via gli cambia intorno e così, si può dire, in fondo degli stessi Stati Uniti d’America ulcerati dalla crisi del Vietnam. Al momento della morte non v’è dubbio che Brooks, un tempo al centro dell’attenzione, si trovi ormai, ingiustamente, alla periferia degli interessi del pubblico mondiale e della critica (non ovunque: ad esempio, in Francia “Positif” continuerà ad interessarsi della sua carriera). Dal 1960 al 1977 Brooks è stato sposato all’attrice Jean Simmons (già moglie di Stewart Granger)da cui ha avuto una figlia, Kate.
Come molti intellettuali, giornalisti e scrittori americani cresciuti con la Depressione , Brooks aveva un fondo “liberal” ed una gran voglia di raccontare l’America con una senso di partecipazione ma anche di polemica E’ tipico il caso del suo primo romanzo, “The Brick Foxhole”, ove si narrava dell’assassinio di un omosessuale ad opera di un soldato fanatico. Nel film già ricordato (sceneggiato da John Paxton) l’omosessuale diventa un ebreo, soggetto anch’esso all’epoca quasi tabù, ma non completamente: non è un caso che nello stesso anno Elia Kazan porti sullo schermo “Gentleman’s Agreement” (Barriera invisibile) ove un giornalista si finge ebreo per capire a quali discriminazioni andrà appunto incontro nella società americana del secondo dopoguerra. Al tempo stesso Brooks possedeva un naturale talento per il racconto in qualche modo avventuroso, inteso a recuperare antiche tradizioni del cinema nazionale centrate su figure di coraggiosi e spesso spavaldi difensori se non della legge e dell’ordine quantomeno della libertà dentro la legge. Articolato, da uomo di scrittura e di libri, dentro un rapporto fisiologico con il romanzo, da cui quasi tutti i suoi film prendono le mosse. Lo si vede assai bene nel già ricordato e rivelatore film d’esordio “Crisis” (da un romanzo del versatile George Tabori) ove un noto chirurgo americano - Cary Grant - in vacanza con la moglie in un piccola nazione dell’America Latina è catturato da un feroce dittatore (Mel Ferrer, la cui origine ispano- portoricana qui ha un senso) che deve essere operato d’urgenza per un tumore al cervello. Si ritrovano intorno molti volti latino-americani anche troppo credibili e un tempo famosi: Ramon Novarro, Gilbert Roland. Antonio Moreno). E, soprattutto, si coglie la secondaria ma non trascurabile vocazione parapolitica del regista e insieme la sua esatta intenzione avventurosa, da vecchio giornalista pratico delle reazioni del pubblico e capace di intuirle tempestivamente. Il secondo film, The Light Touch (L’immagine meravigliosa) è una variazione ovvia e dignitosa su un tema classico: il ladro in guanti gialli che si innamora della pittrice di cui ha rubato un quadro (con Stewart Granger e Anna Maria Pierangeli, qui ribattezzata, come è noto, Pier Angeli). Ma già al su terzo film Brooks dimostra quali sono le sue qualità: di colpo il suo nome diventa famigliare a tutti gli appassionati dell’epoca. “Deadline U.S.A” (“L’ultima minaccia”) è in assoluto uno dei più bei film americani sul giornalismo ed i giornalisti ed un prova della maturità già raggiunta da Brooks. Il meccanismo del racconto è complesso e lineare al tempo stesso. Le frivole sorelle Garrison, figlie del famoso fondatore del quotidiano “The Day”, progressista e raffinato, sono ben decise ad accettare la rilevante offerta del proprietario del maggior giornale concorrente, vogare e populista, che vuole liberarsi di un antagonista fastidioso. Si battono per evitarlo solo Ed Hutchinson, l’abilissimo direttore, che per amore del giornale ha distrutto anche il suo matrimonio (in assoluto una delle migliori interpretazioni di Humphrey Bogart), aiutato nell’inutile lotta dalla vedova del proprietario Margaret Garrison (Ethel Barrymore: ancora una volta straordinaria, meno celebrata ma forse migliore dei più celebrati fratelli). Non riesce ad impedirlo ma porta a buon fine la lotta contro un gangster che avvelena la città. Come antologia di situazioni di un quotidiano americano (curiosamente manca solo la fase dell’impaginazione, determinante ai tempi del piombo) è un classico: la vita di redazione, le ricerche d’archivio, le inchieste, il brano famoso della veglia funebre del “Day” a cui partecipano, fra il tragico ed il comico, i redattori un poco ebbri. Il finale del film è ricordato da molti perché venne usato anche dalla pubblicità: il gangster (nell’originale si chiama Rienzi; il pudico doppiaggio italiano d’epoca lo ha mutato in Rozick) minaccia Hutchinson per telefono e chiede che cosa è questo “racket”(il rumore delle rotative). Il direttore tende il microfono verso le enormi macchine e risponde: ”E’ la stampa, Bellezza (nell’originale: “Baby”) e non puoi farci niente”. (Si dice che il tema della vendita forzosa rispecchi la fine del grande giornale di Pulitzer: il “New York World”).

(Nella foto qui sopra: un intenso Humprey Bogart sul set de "L'ultima minaccia". Si dice che il personaggio sia stato ispirato dalla figura di Joseph Pulitzer)

Da quel momento la carriera di Brooks, con alti e bassi, prosegue con disinvoltura. Battle Circus, da un racconto di Allen Rivkin e Laura Kerr, è la descrizione di un Ospedaletto da Campo in Corea (un “Mash”!) sfondo dolciastro di amori fra Bogart e June Allyson ma anche di corretta osservazione bellica. “ Take the High Ground !” è un buon esempio di film d’addestramento militare, genere di cui un tempo Hollywood aveva il segreto (con gente come Widmark e Malden anche la naia è credibile). Mentre The Flame and Flesh ed in parte anche The Last Time I Saw Paris (nonostante la intermittente ispirazione fitzgeraldiana del secondo) rappresentano l’inevitabile tappa drammatico- sentimentale che ha quasi tutti i registi hollywoodiani è stato chiesto di percorrere. Al contrario Blackboard Jungle, da un abile romanzo di Evan Hunter (ovvero Salvatore A. Lombino, e quindi anche Ed McBain), rappresenta l’ esplosiva intrusione nel cinema degli anni ’50 del rock e della violenza studentesca sulla sfondo della tensione razziale. E’ la definitiva consacrazione dell’autore come regista di successo. A questo punto, come si è detto, Brooks conosce un periodo di ineguale ma trepida felicità creativa.. Da The Last Hunt a In Cold Blood un galleria piena di fascino: riottosi cacciatori di bisonti, crepuscolari popolani d’origine irlandese, due coloni grandi amici fra di loro ma costretti a battersi perché uno è bianco e l’altro nero, una inevitabile variazione dostojevskiana, la liturgia teatrale sulle scottanti gatte di Tennessee Williams, la grande variazione ironico - religiosa dall’”Elmer Gantry“ di Sinclair Lewis, il rinnovato ed abile incontro con la torva compiacenza di Tennesse Williams, l’omaggio riverente al Lord Jim di Conrad, il grande bianco e nero che rende omaggio al libro di Capote su una strage feroce e doppiamente insensata. Dal 1969 al 1985 ancora sei film, prima della fine: almeno tre vanno ricordati con l’ammirazione affettuosa che merita un intellettuale pieno di doti e di articolata sensibilità che al cinema ha chiesto troppo, o forse troppo poco: $ (leggi: Dollars) nei film “da colpo grosso”è un piccolo classico, da giallista nato,; “Bite the Bullet” un insolito western di classe in un periodo dove il genere affrontava già la decadenza; “Looking for Mr. Goodbar” un disperato apologo di solitudine in un mondo in cui l’autore si avverte sempre più solo.
(c.g.f.) Claudio G. Fava

Filmografia:
Crisis (La rivolta, 1950), L’immagine meravigliosa (The Light Touch, 1951), L’ultima minaccia (Deadline U.S.A., 1952), Battle Circus (Essi vivranno, 1953), Take the High Ground ! (Femmina contesa, 1953), The Flame and the Flesh (La fiamma e la carne, 1954), The Last Time I Saw Paris (L’ultima volta che vidi Parigi, 1954), The Blackboard Jungle (Il seme della volenza, 1955), The Catered Affair (Pranzo di nozze, 1956), The Last Hunt (L’ultima caccia, 1956), Something of Value (Qualcosa che vale), Cat on a Hot Tin Roof (La gatta sul tetto che scotta, 1958), Brothers Karamazov (I fratelli Karamazov, 1958), Elmer Gantry (Il figlio di Giuda, 1960), Sweet Bird of Youth (La dolce ala della giovinezza, 1962), Lord Jim (idem, 1965), The Professionals (I professionisti, 1966), In Cold Blood (A sangue freddo, 1967), Happy Ending (Lieto fine, 1969), $ (Il genio della rapina, 1972), Bite the Bullet (Stringi i denti e vai !, 1975), Looking for Mr. Goodbar (In cerca di Mr. Goodbar, 1977), Wrong is Right (Obbiettivo mortale, 1982), Fever Pitch (Febbre di gioco, 1985).

17 marzo 2009

La posta di D.O.C. Holliday (13.a. puntata)

DA OGGI, 17 MARZO 2009, RIPRENDO A PUBBLICARE LETTERE E RISPOSTE TRATTE DA "POSTA D.O.C.", SPERANDO CHE INTERESSI AI CINEFILI. LE PROSSIME VOLTE, AUMENTERO' LA RAZIONE.
Stimo molto le sue risposte. Allora le domando: perché i giornali non fanno più le critiche dei film come una volta tutti i giorni, così che si sapeva di che cosa parlavano? Grazie.
VITTORIO RIDOLFI, Ovada

Non è facile risponderle (mi auguro di non perdere la sua stima). Io ho formulato una mia piccola teoria, che forse è fondata. O almeno me lo auguro. Quel che sta succedendo nei giornali d'oggi (intendo i quotidiani) è un profondo fenomeno di cambiamento. E' cambiato (in parte) il pubblico. Ma soprattutto sono cambiati i capiredattori. Quelli della mia età, o anche più giovani di 10 anni, o sono in pensione o ci stanno andando. Come è fatale, e logico, i loro posti son presi da giornalisti che hanno, generalmente, dai 35 ai 45 anni. Anche questi ultimi, e perciò i più anziani fra i nuovi, sono nati a partire dal 1955. E i più giovani sono del '60 ed oltre. Il che significa che sono stati completamente modellati dalla Televisione durante l'infanzia e l'adolescenza. Perciò quel che a loro interessa è la televisione, E cioè le cronache televisive, i personaggi televisivi, i pettegolezzi televisivi. Non dico che non gli interessi il cinema, ma resta pur sempre un interesse minore, meno febbrile (anche se le loro pagine sono riempite di "flani" cinematografici e non di pubblicità televisiva). Al cinema, si badi, sono pronti a pagare tributi formali. Ad esempio a concedere uno spazio enorme, in certo senso spropositato, quando arriva il momento dei grandi Festival. Non solo quello di Venezia ma anche quello di Cannes, che in genere non ottiene spazi eguali negli stessi giornali francesi. Ma si tratta, appunto, di "grandi" appuntamenti, con le stelle, le stelline, gli stelloni, le feste (quando ci sono) l'arrivo dei divi americani con le guardie del corpo e via citando. Quel che ormai in molti giornali (non proprio in tutti, la provincia in parte si difende ancora, ed anche alcuni quotidiani nazionali sono più regolari) è venuta a mancare è la recensione minuta, quotidiana, regolare, quella che appare il giorno dopo o, eccezionalmente, due giorni dopo la "prima", sicché lo spettatore sa come regolarsi, se per caso è interessato al film (sempre che il critico goda della sua fiducia, il che, evidentemente, apre un altro discorso). Un esempio tipico è quello offerto dal "Corriere della sera", che se non è più l'organo definitivo e supremo del tempo degli Albertini, resta pur sempre il più diffuso quotidiano italiano. Proprio il "Corriere" che, intorno alla fine degli anni '20, trovò il modo di istituire una rubrica sistematica di recensioni di film, coprendo una necessità redazionale legata ai tempi nuovi ma trovando così, anche, un posto regolare e di prestigio per Filippo Sacchi, giornalista di nome e di vaglia, ma sospetto perché antifascista. Sacchi ebbe una rubrica regolare ed i lettori si abituarono a ricercare sistematicamente la nota di servizio sul film appena uscito, come in fondo si faceva per le "prime" teatrali (Milano era allora capitale di tante cose e fra queste del teatro), per quelle delle Opere e per i concerti. Varrà la pena di ricordare che sempre in quel periodo avventurato, o poco dopo, Guglielmina Setti, tenne una rubrica di cinema su un quotidiano (la prima in Italia ad essere affidata ad una donna). Era una caratteristica italiana di cui andavamo orgogliosi. Il "Corriere " di oggi, se ho capito bene, ha concentrato in una pagina settimanale tutto quel che concerne il cinema, e quindi anche le (ridotte) recensioni di vecchi amici come Tullio Kezich e Maurizio Porro, che eravamo abituati a leggere da anni, come avevamo fatto prima con Arturo Lanocita, Leonardo Autera, Giovanni Grazzini….Certo, si scrive ancora di cinema , ma quel contatto quotidiano che fu tipico della nostra generazione di lettori, di spettatori e di giornalisti, è stato in certo modo interrotto e penso che non verrà mai più annodato. So di che cosa parlo, perché ho tenuto la rubrica del cinema sul "Mercantile" dal 1958 al 1981 (e per gli ultimi 11 anni da Roma, aggiungendo fatica a fatica) ed ho ancora nelle ossa e nei polpastrelli, il ricordo delle fatiche immense per restare aggiornato, per non lasciar indietro nessuna "prima" importante, per offrire sino in fondo il promesso servizio ai lettori ….
C'è una bellissima espressione genovese che si usa per alludere alle cose passate, trascorse, che non potranno più tornare. Si dice: "sun messe dite", ovvero "sono messe dette", e la risposta - tipica di un'epoca che aveva molta più famigliarità di ora con la liturgia cattolica in latino - era "…. E Vespri cantè" ovvero " ..e Vespri cantati".
Credo proprio che tutte le Messe siano state celebrate e tutti i Vespri cantati. Dobbiamo rassegnarci.
(Film D.O.C., anno 8, n. 39, Set.-Ott. 2000)

13 marzo 2009

Prove di funzionamento del sottogoverno


(Nella foto qui sopra: il Palazzo della Mostra del Cinema, al Lido di Venezia)

Mi è venuta in mente una cosa di cui non mi pare di aver fatto menzione nell’autobiografico “Clandestino in galleria”, pubblicato da “Le Mani” nel 2003. E cioè della mia riluttante ma disciplinata presenza all’interno di una commissione di critici (non so più se si chiamasse “commissione di consulenza” o “commissione di selezione”) che lo statuto dell’epoca prevedeva a fianco del Direttore della Mostra di Venezia e che avrebbe dovuto esercitare un compito preciso nell’individuazione dei film in concorso al Lido. Era il periodo in cui la carica era ricoperta da Guglielmo Biraghi, che era stato curatore della Mostra nel 1987 per poi subentrare come direttore a tutti gli effetti dal 1988 al 1991, vale a dire per quattro anni. Siamo dunque nel 1988 quando i partiti (che allora in Italia si occupavano di tutto, cosa che forse accade ancora oggi) decisero di nominare i membri della commissione di esperti che, appunto, doveva operare insieme a Biraghi. Scattò un meccanismo complesso di designazioni per cui dal Partito Liberale mi fecero chiedere se la nomina mi avrebbe interessato. E io, ignaro, risposi di sì. Di tutta l’operazione si occupò Ludina Barzini, figlia di Luigi Barzini Junior, e pertanto inserita in una famiglia che ha sempre avuto il suo peso nel mondo giornalistico italiano. Con Ludina diventammo amici e lei mi ha sempre dimostrato grande gentilezza e simpatia. Credo di aver capito che per inserirmi nella commissione dovette anche alzare la voce con Biraghi, che io conoscevo da anni perché da molto tempo era il critico cinematografico de “Il Messaggero”, giornale il cui peso e la cui incidenza sono estremamente dilatati per il fatto di essere redatto e stampato a Roma, sicché l’importanza di quel che vi è scritto è comunque decisiva perché proviene dalla Capitale. Il risultato finale fu che la commissione di esperti risultò composta, oltre che da me, da Giorgio Tinazzi, ordinario di Storia del Cinema a Padova, da Adriano Aprà, una delle figure storiche della cinefilia capitolina, da Michel Ciment, grande critico cinematografico francese ancora oggi direttore di “Positif” (una delle migliori riviste del mondo), e da Fernaldo Di Giammatteo. Quest’ultimo era un vecchio amico che ha avuto anche grandi meriti nella divulgazione libresca e televisiva di un suo antico amor di cinema. Vorrei ricordare qui il suo “Dizionario universale del cinema”, scritto insieme a Cristina Bragaglia, pubblicato nel 1984 da Editori Riuniti, e successivamente aggiornato dieci anni dopo con il titolo di “Nuovo dizionario universale del cinema”. Ed anche il fatto che fondò e diresse per molti anni la fondamentale collana monografica sui registi “Il Castoro”. Fernaldo aveva un pessimo carattere. Perciò non mi stupii molto che cominciasse a litigare con la Mostra non appena entrato in funzione. Di fatto, fu in disaccordo totale fin dal primo giorno e credo che, alla fine, abbia dato le dimissioni. Non sono mai riuscito a capire perché avesse accettato. Per la verità, rinunciare all’incarico è la cosa che avremmo dovuto fare noi altri quattro, perché Guglielmo, un gentleman di buona famiglia abituato sin da piccolo a parlare diverse lingue, sembrava fragile ma in realtà era sagomato nell’acciaio (ho scoperto adesso che era laureato in Chimica, cosa che nessuno di noi aveva mai sospettato). Non tornava mai sulle sue decisioni e nei nostri confronti adottò sin dall’inizio un atteggiamento molto preciso: non aveva nessuna intenzione di utilizzarci nella selezione dei film per la Mostra e in ogni altra possibile direzione. L’unica cosa in cui avremmo potuto aiutarlo era quella di dedicarci ai cosiddetti “Progetti Permanenti”, e cioè ad oscure e fumose iniziative che avrebbero dovuto contraddistinguere la Mostra da un anno all’altro, e che non riuscimmo mai ad avviare perché nessuna delle ipotesi da noi avanzate fu accettata da Guglielmo. In realtà, oltre che dal prima ricordato “amor di cinema”, che lo spinse ad essere per più di trent’anni il critico de “Il Messaggero” ed a dirigere, prima di Venezia, il Festival di Taormina, egli era animato da un’irresistibile passione: la malacologia. E cioè lo studio e la collezione delle conchiglie, di cui fu un inarrivabile raccoglitore e per cui in casa sua dovette far costruire appositi mobili da esposizione. Ogni tanto, in viaggio, me ne parlava con un misto di ostentazione e di vergogna, come probabilmente accade a tutti i cultori maniacali di raffinate e insospettabili specializzazioni periferiche. In realtà sembrava distratto e volubile nell’esercitare il suo mestiere di organizzatore ma, come giustamente ricordava Giuseppina Manin in un articolo scritto il 24 Aprile 2001 in occasione della sua morte (Guglielmo aveva 74 anni), operò scelte furbesche ed applaudite nel selezionare i film della Mostra. Con qualche approssimazione sembra sia dipesa da lui la scelta dell’Almodòvar di “Donne sull’orlo di una crisi di nervi”, della Jane Campion di “Un angelo alla mia tavola”, del Kieslowski del “Decalogo” e del Reitz di “Heimat”, per non parlare di opere come “Un pesce di nome Wanda”, “L’attimo fuggente”, “Indiana Jones e l’ultima crociata”. Questo a testimonianza della sua capacità di valutare desideri del pubblico e snobismi della critica. Di sicuro fu lui a portare a Venezia un potenziale film scandalo come “L’ultima tentazione di Cristo” di Martin Scorsese. Lo incontrai in giro per la città e mi parve eccitato dalla prospettiva di fare un colpo di mano cinematografico. Andare in serata a Parigi e lì prendere un volo per New York a bordo dell’allora famosissimo “Concorde”, che arrivava in America in poche ore. Una volta arrivato, abilmente utilizzando una serie di affannosi appuntamenti automobilistici, da New York sarebbe andato in provincia a vedere il film, per tornare poi subito a Parigi (o a Londra) con un altro volo “Concorde”. Era felice come un ragazzino e si apprestava, senza paura, ad affrontare le violente polemiche che poi ci furono veramente (a più di vent’anni distanza si fa fatica a ricordarle).
In sostanza, rimanemmo quattro anni a far parte di quella commissione fantasma, vergognosamente usufruendo degli svantaggi e dei piccoli vantaggi della situazione: i due o tre viaggi annuali a Venezia, ospitati all’eccellente Hotel Europa, con sala da pranzo sul Canal Grande; i complicati, inconcludenti incontri con Guglielmo, con noi che chiedevamo di fare qualcosa di utile e lui che tortuosamente giungeva a negarcelo; le cene a base di pesce in qualche ristorante caratteristico; le lettere a Biraghi in cui formalizzavamo il nostro scontento, e le sue risposte evasive; il ritorno a Roma con le pive nel sacco durante i lunghi e fascinosi trasferimenti in vagone letto (i “Wagon lits”, con i loro rituali amministrati dai conduttori in divisa e con berretto a pentolino, furono fino a pochi anni fa le ultime toccanti testimonianze della “Belle epoque”).
Per far mente locale e rievocare qualche particolare ho telefonato a Giorgio Tinazzi ed egli mi ha ricordato le lettere a Biraghi e gli scrupoli contabili del nostro amico Ciment, che ad ogni viaggio a Venezia chiedeva puntualmente se c’era un “jeton”, per ricompensarci in quella particolare occasione (e naturalmente non c’era mai).
Non so perché questo minimo accadimento televisivo e cinematografico degli anni ’80 mi sia tornato in mente. Ma è certo che rimane come un minuscolo tassello delle assurdità periferiche e delle piccole perdite finanziarie dovute al “sottogoverno all’italiana”.
È, per caso, ancor significativo anche oggi?

Claudio G. FAVA

2 marzo 2009

Obama, Semper Fi!


Credo che molti abbiano visto nei vari telegiornali le immagini di Barack Obama rivolgersi ad una platea di soldati e soldatesse Usa, doverosamente sull’attenti, fornendo le date e i dati del preventivato ritiro dall’Irak. Com’è noto ha promesso che la maggioranza delle truppe se ne andrà entro fine Agosto del 2010, ma verrà lasciata nel paese una guarnigione specializzata (addestramento degli iracheni, supporto logistico, “intelligence”, azione contro il terrorismo) almeno sino al 2011, e conterà da 30 a 50.000 soldati. Le immagini sono state ripetute sino alla noia, ma in Italia con tagli tipici che ribadiscono il sostanziale disinteresse del nostro giornalismo televisivo per le realtà minime ma essenziali della vita americana. Il discorso di Obama si è svolto il 27 Febbraio in un luogo estremamente significativo: a Camp Lejeune, Jacksonville-Nord Carolina, dove ha sede la base maggiore del corpo dei Marines, negli Stati Uniti. Lì sono dislocati il “Marine Expeditionary Force”, la seconda divisione dei Marines, altri tre fra i comandi più importanti del Corpo, ed un ospedale militare. La base occupa 637 km², comprende anche una grande spiaggia per gli assalti anfibi, due porti per gli spostamenti veloci dei Marines, e sei altri impianti stabili per ogni necessità bellica, compreso un aeroporto. Si calcola che in genere a Camp Lejeune vi siano normalmente almeno 40.000 Marines, il che ne fa un riferimento obbligato quando si fa cenno del Corpo, e un’icona della mitologia militare americana. Pronunciarvi un discorso – per specifici motivi bellici - diventa automaticamente un gesto simbolico, oltre che una comoda scorciatoia oratoria, visto che ci si rivolge ad un disciplinato pubblico militare, obbligatoriamente sull’attenti.

Vorrei ricordare che l’impianto prende il nome da John A. Lejeune, uno dei più famosi generali del Corpo (lo comandò dal 1920 al 1929), le cui origini francesi sono ribadite dal fatto che è nato il 10 Gennaio del 1867 in una “parish”, cioè una parrocchia, chiamata Pointe Coupée, vicino a Baton Rouge in Louisiana. È stato un ufficiale di grande successo che, pur essendo un Marine, giunse nel 1918, durante la prima guerra mondiale, a comandare una divisione dell’esercito. Una volta passato nella riserva, morì il 20 Novembre 1942, in piena seconda guerra mondiale, all’età di 75 anni.
Quello che molte televisioni nostrane hanno rapidamente tagliato sono le ultime battute del discorso. Infatti, recuperando un automatico gesto religioso tipico del politici americani, Obama termina dicendo: “God Bless You, God Bless United States of America” - e poi, dopo una piccola pausa, un grido - “Semper Fi”, pronunciato “Sempa Fai”. È la frase latina abbreviata, che nel 1883 fu adottata come motto dei Marines per iniziativa dell’ottavo comandante del Corpo, il colonnello Charles McCawley. Naturalmente la frase completa è “Semper Fidelis”, che gli americani si compiacciono di usare in una forma tronca, rispondente alle tradizioni linguistiche indigene. È divertente notare come la frase costituisca anche il motto di quattro città (Exeter in Inghilterra, Lviv, cioè Leopolis, in Ucraina, St. Malo in Francia e White Plains negli Stati Uniti), oltre che di un numero infinito di enti e di istituzioni militari nel mondo: dall’Inghilterra alla Scozia, all’Olanda, al Canada, alla Svizzera, alla Repubblica di Cina e cioè Taiwan, all’Ungheria, al Brasile, via via sino alla flotta sottomarina del Cile. Negli Stati Uniti usare l’espressione “Semper Fi” acquista un evidente carattere simbolico, e il fatto che a farlo sia il Presidente degli Stati Uniti, comandante supremo delle Forze Armate, ribadisce un legame disciplinare ed al tempo stesso lancia un messaggio profondo a tutti quelli che sono sotto le armi (ricordo che dal 1973 la coscrizione obbligatoria è stata abolita negli Stati Uniti e che da allora tutti quelli che vedete in divisa si sono arruolati volontariamente). L’effetto della frase di Obama è visibile sui volti dei soldati, tutti sull’attenti e in tenuta mimetica. Non appena la frase “Semper Fi” viene pronunciata, essa esplode come un proiettile sul volto di una giovane soldatessa afro-americana, che udendola ride con inattesa felicità. Evidentemente sentirla sulla bocca del Presidente, dopo averla udita per centinaia di volte mentre era schierata con il suo reparto, crea un effetto sconvolgente ed una gioia sorpresa.
Si badi, la locuzione latina a noi sembra in qualche modo ostentata (anche se fa pensare al “Nei secoli fedeli” dei carabinieri), ma risponde invece ad un’esigenza culturale che si avverte molto profonda nelle tradizioni americane risalenti formalmente al XVIII°, e cioè l’uso in qualche modo obbligato di una lingua che era il simbolo stesso, in certo senso l’abbreviazione, dell’eredità culturale europea. Una rapida inchiesta sull’uso del latino nella vita pubblica americana ribadisce un rinvio linguistico molto più forte e significativo di quello che accadde in Italia e in Europa. Si pensi che, solo con Eisenhower, il motto ufficiale degli Stati Uniti è diventato “In God We Trust”, mentre fino a quell’epoca ed agli inizi, ed era incluso nel sigillo ufficiale dello Stato, fu “E pluribus unum”, fra l’altro più originale. Si potrebbero fornire infiniti esempi, mi limiterò a ricordare che almeno una quindicina di motti ufficiali dei singoli stati americani sono anche o esclusivamente in latino. Per il Kansas: “Ad astra per aspera”. Per il Kentucky vengono usate due lingue e quella latina suona “Deo gratiam habeamus”. Il Maine è brevissimo: “Dirigo”. Il Massachussetts è più lirico: “Ense petit placidam sub libertate quietem”. Il Michigan: “Si quaeris peninsulam amoenam circumspice”. Il Minnesota sceglie il francese ma anche il latino: “Quae sursum volo videre”. Il Mississippi è classico: “Virtute et armis”. Ed altrettanto lo è il Missouri: “Salus populi suprema lex esto”. Il Nuovo Messico è poetico: “Crescit eundo”. Quello di New York è brevissimo: “Excelsior”. Il Nord Carolina tira alla furbizia: “Esse quam videri”. L’Oregon è aeronautico: “Alis volat propriis”. Puerto Rico, che peraltro è uno stato sui generis, è misteriosamente biblico: “Joannes est nomem ejus”. Il Sud Carolina ha addirittura due motti latini: “Dum spiro spero” e “Animis opibusque parati”. Si passa infine al West Virginia: “Montani semper liberi”. Vorrei aggiungere qui una curiosità che riguarda il Maryland, il cui motto è in un italiano d’altri tempi: “Fatti maschii, parole femine”. Curiosamente è quello della famiglia Calvert, poi baroni Baltimore, che lo recava sullo stemma di famiglia, a testimonianza della diffusione della cultura italiana nell’Inghilterra dell’epoca, e che passò di peso allo stato del Maryland, fondato appunto da uno dei Calvert.
Non si contano poi i motti latini usati nelle Forze Armate. Ricordo che per i Marines, prima di “Semper fidelis”, vi furono “Fortitudine” e “Per mare, per terram”, e che in due accademie navali il motto è anche in latino. Per la “United States Naval Academy” (e cioè quella di Annapolis, da cui escono gli ufficiali di carriera, compreso John McCain, suo padre e suo nonno) abbiamo “Ex scientia tridens” (nel senso di “tridente”, diventato dal dio Nettuno in poi sinonimo di potere marittimo). E l’onnipotenza militare, che convive in America con radicate tradizioni civili, fa sì che anche gli ufficiali della Marina Mercantile provengano negli Stati Uniti dalla “United States Merchant Marine Academy”, che è stata fondata nel 1943 ed ha sede a Kings Point, nello stato di New York. Il suo sigillo ufficiale reca l’obbligatorio obbligatorio latino: “Acta non verba”.
Come si vede, l’avvocato Obama che ha studiato ad Harvard e che quindi, da una delle fonti massime, ha appreso l’inevitabile latino, tipico del gergo giuridico americano, si muove con riflessi colti nel solco della tradizione.

Claudio G. FAVA