Blog - Crediti


L'audio e i video © del Blog sono realizzati, curati e perfezionati da Lorenzo Doretti, che ha anche progettato l'intera collocazione.
L'aggiornamento è stato curato puntualmente in passato da diverse collaboratrici ed attualmente, con la stessa puntualità e competenza, se ne occupano Laura M. Sparacello ed Elisa Sori.

26 febbraio 2009

Uno Zelig genovese

Ho scritto questa lettera oggi a Sergio Romano, per la sua rubrica sul "Corriere della Sera", in risposta ad una missiva di Mario Taliani.
Credo di non commettere nessuna scorrettezza inserendo direttamente il testo della mia lettera nel Blog.


Caro Romano,
ho letto la lettera di Mario Taliani e la sua risposta riguardante la curiosa personalità di Giovanni Ansaldo. Giornalista, secondo me, di un talento straordinario: fra i migliori in assoluto della sua generazione, da un punto di vista di personale eleganza stilistica si collocava al livello dei Vergani e dei Monelli, ma rispetto a loro la sua cultura politico-sociologica era probabilmente molto più estesa. Ansaldo sofferse di una sorta di frattura morale: era in qualche modo avvelenato dal suo desiderio di continuare a giocare in Serie A, nonostante la sua militanza di sinistra che via via gli bloccava ogni sbocco di carriera.
Negli anni ’50 ho imparato a impaginare, lavorando alla “Gazzetta del Lunedì”, nella famosa tipografia de “Il lavoro”, in Salita Di Negro. I tipografi più anziani, grandi artigiani all’antica, non solo ricordavano benissimo il giovane Granzotto, prelevato da Mussolini in una redazione del G.U.F. e nominato, di fatto al posto di Ansaldo, direttore (uno dei tipografi insegnò a nuotare a quello scaltro giovanotto, quando questi temeva di essere richiamato alle armi e inviato in Albania per nave), ma erano anche testimoni della ormai antica presenza dello stesso Ansaldo che, come lei ricorda, fu una delle colonne de “Il lavoro”. La sua firma “Stella nera” per anni incoraggiò il latente antifascismo di quel frammento compatto del proletariato industriale di Genova che esisteva una volta e che garantiva un numero minimo di copie a “Il lavoro”. E il personale della tipografia aveva presente sia le complicazioni grafiche, sia le complicazioni causate dalla sua illeggibile grafia (come sempre in casi del genere c’era un solo linotipista in grado di interpretarla), sia la sua avarizia che ribadiva, ai limiti della barzelletta, la sua totale genovesità. Converrà ricordare che “Il lavoro” rappresentava una sorta di “imbarazzo” per Mussolini, che ai tempi delle dispute socialiste si era rifugiato nella redazione ed era stato salvato da non so più quali rappresaglie. La presenza di Ansaldo non gli consentiva di intervenire con la freddezza chirurgica con cui aveva evirato il giornalismo italiano, e non sapeva come regolarsi. La “conversione” di quest’ultimo all’ammiccante fascismo di Galeazzo Ciano gli tolse un peso dallo stomaco e gli consentì l’ “operazione Granzotto”.
Ho cercato per anni di capire la complessa personalità di Ansaldo, leggendo i suoi diari e cogliendo il suo stupore nel ritrovarsi, quando usciva dalla tipografia in un momento dato della sua carriera, non più nelle strade di Genova che lui amava con fisiologica intensità ma in quelle di Livorno, che gli rimanevano sostanzialmente estranee. Più largamente ho cercato di capire come potè adattarsi, con la sua potenza di stile e con la sua cultura, alle necessità di propaganda che si espressero alla radio nelle cosiddette “Cronache del Regime”, affiancandosi a Forges Davanzati, Gherardo Casini e persino Mario Appelius. E ho capito che, in realtà, lui soffriva della “sindrome di Zelig”: la massima vittima di questa malattia fu Galeazzo Ciano, vale a dire quegli che lo portò a Livorno a dirigere, dal 1937 al 1943, “Il Telegrafo”, antenato de “Il Tirreno”. Ciano infatti, come il personaggio di Woody Allen, si plasmava su tutte le persone che avvicinava. Diventava un fascista intransigente quando sfiorava Mussolini, un poliglotta mondano quando costeggiava le principesse romane al Club del golf, un aspirante letterato quando aveva il coraggio di entrare nella terza saletta di Aragno, un commediografo ambizioso quando trovava la forza di firmare dei copioni, un romanzesco pilota da guerra quando guidava gli aerei della “Disperata” a mitragliare i tucul degli etiopici, un diplomatico di carriera rigidamente ancorato alle tradizioni ed ai concorsi tipici della condizione, quando si trovava al Ministero degli Esteri. Terminò interpretando la parte di un condannato a morte del Fascismo a Verona. E, poverino, lo fece bene.
In altro senso, anche Ansaldo era un super-Zelig. Consapevole dell’ampiezza e della varietà del suo talento, non gli andava proprio di uscire dalla comune lasciando il campo libero a suoi colleghi, meno dotati di lui (quasi tutti, visti adesso guardandoli fuori dalla mischia). In effetti cosciente del fatto che le sue capacità tecniche erano di un tale virtuosismo, da concedergli praticamente tutto e il contrario di tutto. Naturalmente il suo adeguarsi alle personalità degli altri rimase condizionato dalla sua eccezionale personalità, sicché anche il suo “imitare” fu sottile e cautamente articolato. C’è una persona che lo ha intuito mirabilmente, e si tratta di un arguissimo scrittore, anche diplomatico (forse lei lo ha conosciuto), che, scacciato dalla carriera perché ebreo, ebbe poi, a guerra finita, l’eleganza di sapervi tornare senza fare drammi. Si tratta di Paolo Vita Finzi, autore di alcune biografie “apocrife” di straordinaria finezza nella riproduzione dello stile e del vocabolario di famosi letterati. Egli scrisse, fingendo di parlare di un famoso giornalista francese della seconda metà dell’ ‘800 che, se ricordo bene, aveva finito lui, repubblicano storico, con l’esaltare Napoleone III, un ritratto perfetto di Ansaldo, chiamato “Jean de l’Etoile Noire” (in virtù dello pseudonimo “Stella nera”, popolarissimo nella sinistra italiana d’epoca).
Termino qui avendo scritto delle cose che lei conosce benissimo, ma che forse per molti lettori, meno incuriositi dalle storie del Ventennio, possono risultare utili per cogliere quella straordinaria componente di verità e di menzogna che spesso è alla base della carriera di tanti giornalisti, anche di talento.
Cordiali saluti
Claudio G. FAVA

Lionello's Zena

Antonella Sica e Cristiano Palozzi, animatori del Genova Film Festival, hanno avuto la gentilezza di inviarmi le foto di Oreste Lionello, scattate nel corso di una sua visita alla 6° edizione dell' ormai collaudata rassegna cinematografica genovese, della quale Antonella e Cristiano sono i fondatori.





23 febbraio 2009

Le voci di Oreste



Non è facile scrivere di Oreste Lionello in presenza di un plebiscito televisivo in cui tutti i suoi compagni di lavoro hanno gareggiato nel tesserne elogi d’ogni tipo, mi auguro sempre sinceramente. Così come non è semplice recuperarne i lineamenti artistici di fronte ad un successo globale, che lui non faceva nulla per diminuire o circoscrivere. Sarebbe anche troppo facile dire che la sua partecipazione, come quella di Leo Gullotta, era fin troppo superiore al livello medio del Bagaglino ed a quello dei comici che ne compongono il tessuto. In realtà, Oreste aveva una straordinaria capacità di adeguarsi alla tenuta dei suoi compagni di lavoro, ed al tempo stesso di lasciarseli alle spalle con un solo movimento del sopracciglio. I suoi talenti erano eccezionali ma sembravano comuni proprio per la sua estrema semplicità di muoversi e di parlare. Non è un caso che egli eccellesse non solo nelle impennate improvvise della parodia (il suo Andreotti, senza la minima necessità di trucco, era diventato ormai una bandiera) ma anche nell’oscuro eppur delicatissimo lavoro di fondo del doppiaggio. Non faccio qui cenno della voce clamorosamente imprestata a Woody Allen (e probabilmente anche delle “aggiunte” al testo originale che egli praticava con lo scrupolo inventivo del grande adattatore), per non parlare di Gene Wilder e molti altri, ma proprio del lavoro di base e di rifinitura che costituisce il segreto della “traduzione” di una sceneggiatura in un’altra lingua. Lavoro solitamente trascurato e mal pagato e che pure implica una contestuale difficoltà. Come mi diceva sempre uno dei miei più cari amici nell’ambiente, “Il lavoro dell’adattatore è difficile e incompreso perché è uguale a quello del traduttore di un romanzo o di un testo teatrale, ma è condizionato dai movimenti labiali di un’altra lingua”.

Il suo retroterra era curiosamente intricato: nato a Rodi, era cresciuto a Reggio Calabria ma, adolescente, era stato partigiano in Veneto, trovando quindi il tempo, prima di approdare in teatro, per esperienze diverse, fra cui una Laurea in Legge.
Fra le sue capacità c’era, appunto, quella di lavorare sui testi. Io me ne accorsi anni fa alla RAI quando decisi di importare tutti i film inediti interpretati dai fratelli Marx. Purtroppo non ci riuscii per problemi di diritti e dovetti accontentarmi di “Duck Soap”, peraltro forse il più famoso. Tenuto conto della fragorosa irrequietezza delle immagini e dei dialoghi lo battezzai con un titolo, credo ancora oggi difendibile: “La guerra lampo dei Fratelli Marx”. Ed ebbi la fortuna che fosse proprio Oreste Lionello ad occuparsi del doppiaggio. Ed io che lo conoscevo poco ebbi modo di constatare la tranquilla ingegnosità con cui adattava il dialogo ai gesti, condizionati dai giochi di parole inglesi, dell’originale. Se si vede il film con calma e con attenzione non è difficile ammirarne il virtuosismo. Lo persi di vista per anni ma ebbi poi molte occasioni di incontrarlo alla Mostra di Venezia, quando veniva al Lido, invitandomi ogni volta, insieme alla cara Giuliana, in ristoranti di lusso, e nascondendo ogni volta la gentilezza dietro le pieghe di un garbo signorile. Andare in giro con lui al Palazzo del Cinema era sempre un divertimento e una sorpresa. Abituato sin dalla giovinezza ad andare in giro nei palazzi del Festival munito di tessere e “badge”, che mostravo ossequiosamente a destra e sinistra, non riuscivo ad accettare l’idea che andare in giro con Oreste rendesse tutto inutile: scattavano sull’attenti le maschere, ma anche gli ufficiali dei carabinieri, a testimonianza di una popolarità totale e automatica, paragonabile solo a quella di cui si godeva andando a passeggio per Roma insieme ad Alberto Sordi (i quiriti, inizialmente distratti o scettici, quando lo riconoscevano cadevano in catalessi. Le reazioni dei veneziani erano sostanzialmente affini, anche se meno clamorose).
Ebbi anche un’occasione più articolata per avere rapporti con Oreste. In una delle edizioni di “Voci nell’ombra”, il Festival del doppiaggio, prima di Finale Ligure e poi di Sanremo di cui sono dalla fondazione direttore artistico, Oreste ebbe la gentilezza di organizzare insieme a Tatti Sanguineti un omaggio vocale a Fellini che com’è noto gli affidò gran numero di voci di “Prova d’orchestra” (1979). E solo Lionello avrebbe potuto “sdoppiarsi” come Fellini richiedeva. Anche lì ebbi occasione di constatare non solo il garbo ma il grande scrupolo professionale di Lionello, che fece di quella serata un “unicum” non ripetibile.
Ecco dunque i frammenti di una conoscenza personale, protratta nel tempo ma anche ostacolata dal fatto che dal 1995 son tornato a vivere a Genova e che quindi le occasioni di andare a Roma sono diventate, anche per ragioni di salute, via via più difficili.
Adesso me ne rimane la tristezza e il rimpianto.


Claudio G. FAVA

19 febbraio 2009

Morire per un'altra Germania

Operazione Valchiria

Precedenti storici

(Qui sotto: la vera immagine di Claus von Stauffenberg)

L’attentato ad Hitler del 20 Luglio 1944 fu il punto terminale di lunghi anni di sofferenza morale e di materiale cospirazione. Gli italiani e i francesi pensano di avere, fra i vecchi paesi militari, il monopolio della Resistenza. In realtà, l’esperienza lacerante che attraversò la Germania dal momento in cui Hitler prese il potere nel 1933 durò, sino alla fine della guerra, dodici anni, ponendo a migliaia di tedeschi un delicato problema morale. Infatti, una volta “incoronato” con il 48% dei voti ma in realtà senza opposizione nel paese”, il Führer, aveva in qualche modo unificato la carica di Cancelliere con quella di Presidente della Repubblica, pretendendo poi un giuramento che lo menzionava personalmente. Soprattutto per i militari che coltivavano la virtù prussiana di mantenere la parola data, questo giuramento fu un deterrente decisivo. Molti alti ufficiali, che personalmente disprezzavano Hitler e ritenevano che stesse portando la nazione alla rovina, si considerarono tuttavia sempre legati da un impegno che avevano esplicitamente prescelto, spesso con la migliore disposizione dell’animo. Per cui, rifiutarono sempre qualsiasi atteggiamento o atto che con il giuramento potesse contrastare.
Questo vale per la maggioranza ma non per tutti gli ufficiali. Qui non ho lo spazio per ricostruire il complesso panorama della parte via via non nazista della Germania, che doveva scoprire un mondo di potenziale rivolta. Bisogna anche ricordare che in certo senso le condizioni di partenza di Hitler furono quelle più adatte a farlo amare dai tedeschi. Combatté le conseguenze eccessive del trattato di pace, che praticamente rendevano impossibile l’equilibrio amministrativo del paese. Riuscì a riportare una stabilità contabile che eliminò la rincorsa furente al valore della moneta (con i biglietti di banca che valevano ognuno milioni di marchi ed il cui valore variava dalla mattina alla sera). Grazie alle grandi imprese di lavori pubblici ma anche a enormi impegni nel campo dell’armamento, riportò la maggioranza dei tedeschi al lavoro, creando ovviamente un clima di ottimismo. E seppe lusingare il vecchio ma sempre vivo sentimento di orgoglio patriottico che era stato una delle caratteristiche della società tedesca. Per rendersi conto che Hitler si stava avviando ad una guerra mondiale senza averne completamente i mezzi, e che al tempo stesso stava imprigionando la nazione intera grazie ad un meccanismo dittatoriale sempre più sfacciato e feroce, era necessario conservare lucidità ed equilibrio. Solo pochi fra i militari di carriera, che non di rado riproponevano l’altezzosa solitudine nobiliare degli “junker”, possedevano gli strumenti culturali e morali per arrivare a formulare giudizi freddi e lucidi, e ancor meno erano quelli disposti ad arrivare sino in fondo. Vale a dire a rendersi conto che se si voleva impedire che Hitler sporcasse per sempre il nome della Germania, viste le forsennate caratteristiche dittatoriali del suo regime, era inevitabile arrivare ad ucciderlo. Ovvero violare il giuramento di fedeltà nel modo più completo e traumatico. Eppure furono in migliaia nelle forze armate ad arrivare a tale decisione estrema. In parte per un ostinato legame con un’interpretazione lucida e restrittiva dei propri doveri militari. In parte per una cristiana consapevolezza (cattolica o protestante, poco importa) degli obblighi morali continuamente violati dall’organizzata ferocia in cui operavano le organizzazioni naziste in generale, e in particolare le S.S., ed i diversi gruppi e corpi di sicurezza che da esse derivavano. E in parte per furbizia, cercando di saltare in tempo sul carro del vincitore. Ecco dunque perché, sin da prima che la guerra scoppiasse, una frastagliata ma ostinata resistenza al nazismo si era affermata nelle forze armate e particolarmente nell’esercito, “Heer”: l’aviazione, la “Luftwaffe”, era la più nazista di tutte, cappeggiata da un ex asso della prima guerra mondiale divenuto uno degli esponenti più in vista del partito, e cioè Goering; la marina, “Kriegsmarine”, era rigidamente professionale, nello sforzo mai celato di imitare gli inglesi, ma certamente poco sensibile ad altre sollecitazioni, anche se fu proprio un marinaio, l’ammiraglio Canaris, a comandare per anni il servizio unificato di informazioni della Difesa, la “Abwehr”. Ove, operando con scaltra ambiguità, seppe chiudere spesso un occhio se non due su coloro, fra i suoi sottoposti, che palesemente cospiravano contro Hitler.
Un altro elemento fondamentale nella cospirazione fu rappresentato, come si accennava prima, da quell’elemento religioso che si incarnava in diversi prelati di ambo le chiese e in molti borghesi, spesso in grado di animare movimenti specifici di Resistenza. Come ad esempio il Conte Helmut James von Moltke, discendente del famoso maresciallo, che aveva studiato ad Oxford come molti del suo ambiente e fu al centro di quello che venne chiamato il Circolo di Kreisau. (si vedano le motivate riserve di Luciano Garibaldi nel suo articolo riportato in calce e per lo ringrazio ancora).
Non è pertanto un caso che, una volta scoppiata la guerra, vennero organizzati non meno di diciassette tentativi di uccidere Hitler. Spesso sventati dall’incredibile fortuna che fino all’ultimo lo protesse. Si ricordi che non era semplice isolarlo e arrivare a colpirlo all’interno del complesso sistema di controlli che lo circondavano nella cosiddetta “tana del lupo”, dove trascorse la parte finale del conflitto, per non parlare dei sotterranei della cancelleria, dove poi si suicidò.

L’azione narrata nel film

La sceneggiatura di Christopher McQuarrie e Nathan Alexander ricostruisce puntualmente il meccanismo di fondo che portò un gruppo di alti ufficiali congiurati ad effettuare l’attentato del 20 Luglio 1944, che consistette nella posa di un ordigno esplosivo al’interno di un salone dove Hitler aveva indetto per quella mattina una riunione di tutti i maggiori responsabili della condotta della guerra. Come è noto, l’esplosivo era contenuto in una borsa che il più deciso e lucido dei congiurati, il colonnello Klaus Schenk Graf von Stauffenberg (Graf significa “conte”, ma era stato incluso nel cognome quando nel primo dopoguerra la Repubblica di Weimar aveva abolito i titoli nobiliari) era riuscito a deporre nel salone. Per attivare l’esplosivo Von Stauffenberg, che combattendo in Tunisia aveva perso un occhio, una mano e tre dita del’altra, dovette lungamente esercitarsi con una pinza, per riuscire a tagliare i condotti dell’acido destinato ad attivare la detonazione. E solo lui fra i congiurati aveva un pretesto per partecipare alla riunione, in qualità di Capo di Stato Maggiore dell’“Ersathzeer”, e cioè dell’esercito territoriale di riserva, che comprendeva un ampio numero di soldati. E che aveva elaborato un piano nazista, che si chiamava appunto “Valchiria” o “Operazione Valchiria”, per proclamare lo “stato d’assedio” nel caso i milioni di lavoratori stranieri ospitati in Germania avessero creato torbidi o si fossero rivoltati. I congiurati, fra cui Stauffenberg era forse il più deciso e il più intelligente, avevano premuto per utilizzarlo in modo da avere la forza per impadronirsi del potere, arrestare poi i comandi del partito e delle S.S., e proclamare l’avvento di un nuovo governo. Il film segue puntualmente la preparazione dell’attentato, l’avventuroso percorso di Stauffenberg all’interno della “tana del lupo”, le complicate manovre per attivare l’esplosivo in modo da collocare la borsa sotto il tavolo sul quale c’erano le carte geografiche che sarebbero state esaminate da Hitler, e infine il pretesto con cui Stauffenberg avrebbe dovuto lasciare la sala e, una volta constatata l’esplosione, raggiungere in macchina i posti di blocco esterni della “tana del lupo”, imbarcandosi sull’aereo che lo aspettava con i motori accesi. Uscendo da una sala devastata dall’esplosione Stauffenberg era ragionevolmente persuaso che Hitler fosse morto. Non poteva sapere che la borsa contenente l’esplosivo era stata spostata all’ultimo momento, sicché l’esplosione aveva ucciso diversi ufficiali ma aveva risparmiato miracolosamente la vita di Hitler, che pure ne aveva ricavato un incontrollabile tremito alla mano destra. Nel pomeriggio dello stesso 20 Luglio alla “tana del lupo” era giunto in treno Mussolini: i frammenti di cronaca girati in quell’occasione costituiscono anche una testimonianza sullo stato di salute del Führer. Sicuro di aver ucciso Hitler, come già detto, Stauffenberg riuscì a mettere in funzione il “Piano Valchiria” facendo arrestare a Berlino (ed anche a Parigi, ma qui non lo si vede) i comandi delle S.S. e del Partito Nazista, sfiorando il colpo di stato fino a quando Hitler non riuscì a mettersi in collegamento telefonico ed a riportare all’ordine le truppe. Com’è noto, tutti i responsabili del “putsch” vennero spietatamente uccisi a migliaia dalle S.S. (furono fortunati quelli ammazzati subito come Stauffenberg) mentre molti altri furono sottoposti a ignobili processi e impiccati poi a ganci di macellaio. Si arrivò al punto che il generale Von Stülpnagel, che aveva cercato di uccidersi e si accecò, venne trascinato al processo malgrado la sua dolorosa cecità. Per la verità vi fu anche qui si uccise come Von Treskov, mettendosi una bomba a mano sotto la gola. Il film è profondamente condizionato dalla presenza di Tom Cruise, che non ha la classe né la sottigliezza necessarie per restituire l’elegante distacco ironico del protagonista, un nobile bavarese di antica famiglia e di compiaciute frequentazioni culturali. Tom Cruise rende forse possibile la realizzazione del film, ma ne è anche un limite. Si confronti la sua recitazione allo scorrevole Von Treskov di Kenneth Branagh o all’austero Ludwig Beck di un irriconoscibile ma sempre dotato Terence Stamp (probabilmente dal film non si capisce l’importanza morale di Beck, profondamente rispettato da tutti, futuro Capo di Stato nei piani dei congiurati, e già Capo di Stato Maggiore dell’esercito, a suo tempo allontanato dalla carica a causa della motivata diffidenza di Hitler). Nel film resta impeccabile la struttura thriller, via via che ci si allontana dalla ricostituzione di un momento decisivo della coscienza morale tedesca, ove molti dei protagonisti, a cominciare dallo stesso Von Stauffenberg, agirono non solo o non tanto per scongiurare il pericolo di una sconfitta catastrofica ma per salvare le loro coscienze di fronte al ritratto di una Germania che bruciava i bambini nei forni.

I precedenti al cinema

(Qui sotto: un'immagine di Georg Wilhelm Pabst)











Sullo stesso tema è obbligatorio citare un film diretto nel 1955 da Georg Wilhelm Pabst (1885-1967), che riprende puntualmente tutti i risvolti di fondo utilizzati nel film di Bryan Singer, ma messi in scena da un tedesco con attori tedeschi a undici anni di distanza dagli avvenimenti che vi sono narrati e quindi con la sollecitazione di una memoria storica ancora prossima. Il film è “Accadde il 20 Luglio” (Es geschah am 20. Juli). La figura decisiva di Von Stauffenberg è affidata ad un attore di rilievo, Bernhard Wicki, che fu anche regista di qualche notorietà (si veda “Il ponte” e la parziale partecipazione a “Il giorno più lungo”) e, come interprete, ha lavorato in molto film ma in Italia è soprattutto ricordato per la parte dell’amico morente all’inizio de “La notte” (1961) di Michelangelo Antonioni. Per quello che riguarda il resto della distribuzione, la parte del fondamentale generale Beck (nel film recente non si coglie completamente la ragione della sua presenza) è affidata Karl Ludwig Diehl, quella del generale Fromm a Carl Wery, quella del generale Olbricht a Erik Frey, quella del generale Keitel a Jochen Hauer, quella di Goebbels a Willy Krause, quella di Von Witzleben a Ernst Fritz Fürbringer. Nel film tedesco figura anche, affidato a Malte Petzel, la figura del fratello di von Stauffenberg, Berthold, che fu anch’egli fucilato e che nel film americano mi sembra sia scomparso. Il film lo ricordo come ben diretto e compatto (è vero che è passato mezzo secolo!) e la presenza stessa di Pabst garantiva un soffio di dolorosa autenticità, risale alla parte finale della carriera. Vorrei ricordare che anche se questo film appartiene al frammento finale della carriera del regista (nato da famiglia viennese a Raudnitz, ora Radnice, attualmente compresa nella Repubblica Ceca ma che allora faceva parte dell’Impero austro-ungarico), Pabst è generalmente ricordato soprattutto per quella parte della sua traiettoria artistica che ai tempi del muto e del primo sonoro si svolse inizialmente in Germania (“Il vaso di Pandora”, “La via senza gioia”, “Diario di una donna perduta”, “Westfront ‘18”, “Kameradeschaft” e “Atlantide”), e poi per diverso tempo in Francia (“Mademoiselle Docteur-Salonicco nido di spie”) e negli Stati Uniti (“Shangai”). Contrariamente a tanti registi del cinema tedesco tornò in Germania poco prima dello scoppio della guerra e vi girò durante il conflitto diversi film, fra cui “I commedianti”, e dopo nello stesso anno, oltre al film su Von Stauffenberg prima citato, “L’ultimo atto”, ambientato nel bunker della Cancelleria durante gli ultimi giorni di Hitler.

***************************************************************************************


Sul film mi è arrivato un articolo di Luciano Garibaldi (e lo ringrazio anche per iscritto), per molti anni mio collega al “Corriere Mercantile”, protagonista di un giornalismo di divulgazione storica di notevole peso, che a suo tempo portò a termine un’accuratissima inchiesta sulla storia del 20 Luglio. Un suo libro sull’argomento, intitolato appunto “Operazione Valchiria”, è stato riedito di recente a cura delle Edizioni A.R.E.S. Luciano mi ha inviato l’articolo via e-mail, precisando che la prima destinazione è stata “Il Domenicale”. Con l’autorizzazione dell’autore lo riporto qui integralmente, dato che Luciano è sicuramente, e non solo in Italia, uno dei più autorevoli nel giudicare l’attendibilità morale e storiografica del film.

«OPERAZIONE VALCHIRIA»: UN FILM RIUSCITO
di Luciano Garibaldi

Ho visto il film con Tom Cruise «Operazione Valchiria» in una multisala di Milano, domenica 1° febbraio sera, e la prima cosa che mi ha colpito è stata constatare come il locale fosse gremito in ogni ordine di posti: e non solo anziani curiosi o nostalgici, ma coppie giovani, gruppi di amici. Insomma, un indubbio successo. Dovuto al soggetto o al protagonista? Difficile rispondere. Più facile esprimere un’opinione sulla validità del film. Che, a mio modesto avviso, va riconosciuta. Sia per l’indubbia capacità espressiva di Tom Cruise, sia per la fedeltà agli eventi storici, narrati generalmente con adesione alla realtà (qualche critica la farò dopo), al punto che, seguendo lo sviluppo degli eventi descritti sullo schermo, mi pareva di rileggere le pagine del mio libro.
Non c’è dubbio che lo sceneggiatore e il bravo regista Bryan Singer hanno deciso di attenersi ai fatti senza lasciarsi trascinare da pulsioni sentimentali o voli di fantasia, dando vita così a quello che potrebbe definirsi un documentario storico reso avvincente dai primi piani dei volti dei protagonisti, dall’ottima ricostruzione ambientale (perfetti le divise, i veicoli, i carri armati, le telescriventi, i telefoni), dai dialoghi, assai verosimili.
Lo spettatore che non conosce a fondo la dinamica del 20 luglio ha perfettamente capito che l’insuccesso del complotto fu dovuto alla componente umana dei suoi ideatori: se fossero stati molto più duri con chi esitava, molto probabilmente il «Putsch» sarebbe riuscito, nonostante l’insuccesso dell’attentato vero e proprio. Sarebbe bastato tenere in pugno la sede della radio (onde impedire a Goebbels di accedervi per diramare il primo dei suoi comunicati-stampa) e porre nell’impossibilità di nuocere il generale Fromm, comandante dell’Esercito Territoriale (Ersatzheer). Ma né Von Stauffenberg, né Olbricht, né – meno che mai – l’anziano e umanissimo Beck (destinato a diventare il nuovo Capo dello Stato) avrebbero mai ucciso a freddo un oppositore. Difatti, si limitarono a «dichiarare in arresto» Fromm, invitandolo a ritirarsi nel suo ufficio, da dove il doppiogiochista (che, in un primo tempo, aveva lasciato intendere di aderire all’Operazione Walkiria) poté trasmettere una serie catastrofica di contrordini telefonici, contribuendo al fallimento del piano.
Se una osservazione posso fare, sulla sceneggiatura, riguarda piuttosto il momento dell’attentato vero e proprio. Non sarebbe stato male dedicare cinque minuti delle riprese a ciò che accadde nella «tana del lupo», a Rastenburg, dopo che Von Stauffenberg uscì dalla baracca dopo aver collocato la borsa con l’esplosivo a un metro da Hitler. Lo spettatore vede infatti il colonnello uscire dalla sala delle conferenze, precipitarsi di corsa verso l’auto dove lo attende il fedelissimo Von Haeften, e poi la terribile esplosione, che dà l’idea di una vera e propria strage. Sarebbe stata certamente una scena di grandissima «suspence» descrivere i vari movimenti che la borsa subì a opera dell’ufficiale al quale essa impediva di avvicinarsi alla carta geografica stesa al centro del tavolo delle conferenze. Prima spostata un po’ verso destra, poi spinta al di là del pesantissimo zoccolo di legno del tavolo che salvò la vita al Fűhrer causando per contro la morte di tre ignari e innocenti ufficiali.
Ma in fondo si tratta di particolari. Una critica, invece (come accennavo prima), va fatta, allo sceneggiatore, e mi sento di farla. Essa riguarda l’assoluta dimenticanza della componente religiosa sia nella personalità di Claus von Stauffenberg, sia nello svolgimento degli eventi. Nelle scene girate all’interno del Circolo di Kreisau, in un certo senso quartier generale del complotto, non compare mai, neppure una volta, un religioso. Eppure la componente, sia cattolica sia protestante, della Resistenza tedesca, non solo esistette, ma fu importante quanto quella militare e quanto quella della diplomazia (gli ambasciatori a Mosca e a Roma). Basterebbe ricordare due delle più illustri vittime della repressione, il pastore protestante Dietrich Bonhöffer e il gesuita padre Alfred Delp. Allo stesso modo, nel lavoro cinematografico non v’è traccia di un episodio fondamentale della vicenda storica di Von Stauffenberg: il fatto che, esattamente dieci giorni prima dell’attentato, ossia il 10 luglio, si fosse incontrato con l’arcivescovo di Berlino, conte Konrad von Preysing, al quale aveva preannunciato che intendeva uccidere il Führer. Il cardinale non aveva inteso frapporre ostacoli religiosi alla sua decisione. Debbo sottolineare che, sul punto, non è stata mai fatta completa chiarezza. Quando lo intervistai a Berlino, padre Harald Pölchau disse di avere appreso senza ombra di dubbio, dai numerosi capi del complotto da lui assistiti in punto di morte nel carcere di Tegel, di cui era cappellano protestante, che Von Stauffenberg si era confessato, era stato assolto e si era anche comunicato. Nel suo libro «Shirt of Nessus» (Londra, 1956), Constantine Fitz Gibbon, storico irlandese, uno dei massimi studiosi del 20 Luglio, sostenne che Von Stauffenberg si confessò senza tuttavia ricevere l’assoluzione. L’arcivescovo Preysing gli avrebbe però detto che «non si considerava autorizzato a trattenerlo in base a motivi ideologici». Nel 1963 fu inaugurata a Berlino, nel quartiere operaio di Siemensstadt, la chiesa cattolica Regina Martyrum, edificata in memoria dei religiosi impiccati in seguito ai fatti del 20 Luglio. All’inaugurazione era presente il cardinale Döpfner, attorniato da tutti i vescovi della Germania. Tutti dissero che, avendo fatto costruire quel tempio, la Chiesa di Roma implicitamente aveva ammesso la liceità del tirannicidio.
L’omissione riguardante il capitolo religioso è però compensata, nel film, dalla saggia e opportuna decisione di non scendere nel patetico indugiando in superflue scene di affetto tra Von Stauffenberg e la giovane moglie, la contessa Nina. La quale (scomparsa nel 2006) non avrebbe comunque gradito si parlasse di lei neppure al cinema. Come fece con me quando mandò a monte l’appuntamento che in un primo tempo aveva accettato per lasciarsi intervistare. Dovevo incontrarla a Francoforte, ma era improvvisamente partita per la sua residenza di campagna di Bamberga. Così, le feci telefonare da una signorina nell’ufficio di «Inter Nationes», che aveva organizzato il mio viaggio in Germania, e chiedere, anzitutto, se poteva mettere a mia disposizione qualche fotografia inedita di suo marito. La risposta fu negativa, nel modo più assoluto. La contessa disse che non intendeva più dare fotografie di suo marito per scopi propagandistici, e fece capire che non gradiva essere disturbata. Nina von Stauffenberg, all’indomani del 20 luglio, fu rinchiusa in un campo di concentramento con i suoi quattro bambini. Ebbe salva la vita per miracolo. Il suo primogenito, Berthold, divenne ufficiale fino al grado di Generale di Divisione nella Bundeswehr e adesso è in pensione. Anch’egli – come la madre e i fratelli – ha sempre rifiutato di concedere interviste a giornalisti e storici sia tedeschi sia stranieri. Il film di Bryan Singer, quindi, ha trattato con il dovuto rispetto la famiglia del grande tedesco.


Luciano Garibaldi

11 febbraio 2009

Misteriosa e inspiegabile Margherita

Girovagare in Internet è uno dei piaceri sottili che la tecnologia ci ha offerto. L’altro giorno, e non saprei dire come, sono capitato su una voce dedicata a Margherita Sarfatti, a cura di una istituzione intestata a Don Milani. Francamente credevo che fosse un ente cattolico di sinistra. Invece era il Blog (www.donmilani.it) di una scuola superiore di una cittadina meridionale. Perché si sia dotata di un periodico culturale non saprei dire, ma quel che è sicuro è che la voce sulla Sarfatti era ampia e ben redatta. E ancora una volta ha stimolato la mia curiosità su un personaggio che resta uno dei più inquietanti fra i protagonisti della cultura italiana fra le due guerre. Evidentemente nel riproporne i dati biografici fondamentali mi rivolgo a persone sostanzialmente ignare o troppo giovani, perché chiunque abbia un minimo di conoscenza di quel che accadde in Italia fra i ‘20 e i ‘40 sa chi era la Sarfatti. Da ragazzo mi ricordo di aver letto la sua famosa biografia di Mussolini in Italia intitolata “Dux”, scritta per istigazione di Prezzolini e, come ho poi scoperto, venduta in tutti i paesi del mondo (solo in Giappone 300.000 copie). La Sarfatti è stata indubbiamente un personaggio romanzesco, ormai dimenticato per la rapidità sempre più incalzante con cui la nostra società accumula, ma anche annulla, ricordi e personaggi di rilievo. Senza farla troppo lunga, vorrei rammentare che, nata come Margherita Grassini a Venezia nel 1880 in una ricca famiglia ebrea divenuta fin da quando Margherita era piccola proprietaria di Palazzo Bembo sul Canal Grande, era stata allevata con i privilegi dovuti a una principessa. Ad esempio non andò a scuola ma ebbe tre precettori, tutti personaggi notissimi nella cultura italiana dell’epoca: Pietro Orsi, storico importante e senatore, Pompeo Molmenti, giornalista e deputato, e Antonio Fradeletto, intellettuale e ministro. Questo per situare Margherita all’interno di una collocazione sociale equivalente a quella di una nobildonna dell’epoca (si ricordi che proveniva da una famiglia probabilmente soggetta, solo qualche generazione prima, alla discriminazione del ghetto). Imparò ad amare Ruskin e Carducci, conobbe un noto scrittore inglese di origine ebraica, Israel Zangwill, che, colpito dallo scampato suicidio di Marco, fratello maggiore di Margherita, centrò su di lui un romanzo, individuandolo come il prototipo del giovane ebreo dell’inizio del secolo che, partecipe di un’antica tradizione religiosa, non riusciva a vivere nell’epoca della modernità. Abbastanza estranea alle tradizioni religiose della famiglia israelita (Margherita, come vedremo, più tardi si convertì al Cattolicesimo) e avvicinata al Socialismo da un professore quarantenne conosciuto al mare, cedette alla corte di un penalista ebreo - Cesare Sarfatti - anch’egli socialista, il quale riuscì a sposarla nonostante la posizione contraria della famiglia di lei. Al momento del matrimonio Margherita aveva solo diciotto anni. Sembra che durante il viaggio di nozze a Parigi la ragazza abbia dato prova della sua competenza artistica e del suo occhio di collezionista comprando ben due Toulouse-Lautrec. A Milano il marito divenne l’avvocato di punta del Partito Socialista e lei stessa si mise in luce fra le donne più importanti che militavano nel partito, quasi alla pari con le due famose russe Anna Kuliscioff e Angelica Balabanov, anch’esse ebree (non ho ancora capito se sono state entrambe, in qualche bizzarro momento della loro vita, amanti dell’insaziabile Mussolini) a testimonianza della decisiva presenza dell’ “intelligentzia” israelita, soprattutto femminile, fra gli intellettuali socialisti dell’epoca. Nel 1909 la Sarfatti divenne responsabile della critica d’arte dell’ “Avanti!” e cominciò ad esercitare un notevole peso in una città che all’epoca era all’avanguardia in Italia non solo dal punto di vista industriale-commerciale ma anche da quello giornalistico e artistico. La sua lussuosa abitazione al n. 93 di Corso Venezia divenne un punto di attrazione di scrittori come Massimo Bontempelli e Ada Negri, di scultori come Medardo Rosso e Arturo Martini e del gruppo tumultuoso dei futuristi, cappeggiato da Filippo Tommaso Marinetti. Non è un caso se Margherita insieme al gallerista Lino Pesaro, anch’egli ebreo, sia stata l’iniziatrice di un movimento inteso a mettere in luce il primo nucleo di pittori del novecento, fra cui Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppo e Sironi. Il 1912 fu un anno decisivo per Margherita perché il 1 Dicembre tale Benito Mussolini, a capo della sinistra del partito, si stava avviando ad impadronirsi del socialismo italiano e in questa ottica divenne in quel giorno direttore dell’ “Avanti!”. La Sarfatti, che faceva capo alla corrente moderata di Filippo Turati, squisita figura di intellettuale travolto dai fascisti e dai comunisti, il giorno della nomina si presentò in redazione per rassegnare le dimissioni dall’incarico di critico d’arte. Quel che successe è diventato palese per le conseguenze. Fra l’aggressivo e contadinesco giornalista romagnolo di sinistra e la raffinata e ricca signora veneziana di ottima famiglia ebrea, scoccò la scintilla di Eros. Mussolini si vantava della sua fama di donnaiolo a tutto tondo (amava dire: “Io gli uomini li giudico dalla cintola in su”) e quindi si prese anche Margherita, che non seppe o non volle resistere, iniziando così una relazione che doveva andare avanti per molti anni. Infatti per un lungo periodo sopravvisse anche ai continui tradimenti dell’uomo, il quale non volle mai accettare la fedeltà a cui Margherita avrebbe tenuto. Non sappiamo esattamente quale era il tipo di rapporto che la legava al marito, dal quale ebbe tre figli: Roberto, Amedeo e Fiammetta. L’avvocato Sarfatti morì, poi, nel 1924 e non sembra che ignorasse la relazione della moglie con Mussolini. Tuttavia, rimasta vedova, la Sarfatti si legò sempre più profondamente a quegli che si accingeva a diventare Duce, e che essa seguì fedelmente nel complesso passaggio (non solo di loro due ma anche di tanti socialisti) dal pacifismo di sinistra all’interventismo di destra. Che si riassunse, sotto un profilo politico e personale, nell’espulsione dal Partito Socialista nel 1918, anno in cui essa entrò apertamente a far parte della redazione de “Il Popolo d’Italia”, e via via nell’invenzione post-bellica del movimento fascista che, dopo una nascita furbesca e ammiccante (ne fecero parte anche Toscanini e, si dice, Pietro Nenni, vecchio amico di Mussolini dal tempi della lotta nel 1911 contro l’intervento dell’Italia in Libia) si avviava a diventare lo strumento di potere totale di un uomo che non era più il “compagno Benito” ma tout-court “Il Duce”. La Sarfatti apportò alla definizione del nuovo personaggio un testo decisivo e cioè la già citata abilissima, scaltra e benevolente biografia di Mussolini, che appunto non a caso in Italia si chiamava “Dux”, come si è detto prima. Divenuto Mussolini Presidente del Consiglio, anche la Sarfatti si trasferì a vivere a Roma alla fine del 1926 in un lussuoso appartamento di Via dei Villini, dopo il trauma della morte in guerra del primogenito Roberto, diciassettenne, decorato di medaglia d’oro e sepolto nel Sacrario di Asiago, situato sul colle Leiten. Qui, giacciono le spoglie di 34.286 militari italiani caduti nella grande guerra, di cui solo 12.759 sono identificati, mentre 21.491 sono rimasti ignoti. In un articolo di “Moked”, portale dell’ebraismo italiano, ho trovato la testimonianza di un certo Federico Steinhaus, il quale ha scoperto che, nel settore del sacrario riservato alle 11 medaglie d’oro, gli ebrei decorati sono 2, cioè oltre a Roberto Sarfatti anche il sottotenente triestino Guido Brunner, e ha iniziato una lunga battaglia burocratica con il Ministero della Difesa. Ottenendo nel 2008 che i simboli cristiani, i quali comprendono tutti i caduti, fossero nella fattispecie sostituiti dalla stella di David e da una lapide commemorativa, “ulteriore prova” – scrive Steinhaus – “del forte patriottismo che ha sempre animato gli ebrei”.
Il periodo di Roma fu quello in cui da un lato si consolidava il rapporto fra la Sarfatti e Mussolini, che pure la tradiva quotidianamente e apertamente, e dall’altro si ribadiva l’importanza che aveva assunto la donna nel campo delle arti figurative e della pubblicistica specializzata. Al tempo stesso, si mettevano le basi per un progressivo distacco fra i due, concretatosi poi nella fascinazione esercitata su Mussolini dal Nazismo e nella subitanea accettazione delle teorie naziste da parte del Fascismo. Via via che le cose progredivano ne risentiva anche la relazione fra i due, finché nel 1938 essa non riparò in Uruguay, a Montevideo. Qui, grazie all’aiuto di Raffaele Mattioli, notissimo banchiere che alla testa della Comit era diventato in Italia una vera autorità intessendo rapporti d’ogni colore politico, era già riuscito a sistemarsi il figlio di Margherita, Amedeo. La Sarfatti continuò ad occuparsi intensamente di critica d’arte e rientrò a Roma nel 1947. Ma la società italiana preferì di fatto ignorarla, poiché la sua presenza era imbarazzante. Se da un lato essa riproponeva buona parte della storia figurativa e perfino uniformologica del Fascismo (si diceva che fosse stata lei ad ispirare fregi e orpelli tipici delle divise del Regime), dall’altro era difficile dimenticare che molti dei movimenti che avevano ispirato la pittura italiana durante il Ventennio risalivano a lei. Essa morì nel 1981 in una villa, comprata prima della prima guerra mondiale, chiamata “Il Soldo”, a Cavallasca in provincia di Como, dove si era rifugiata da tempo.
In realtà la Sarfatti rimane un enigma. Così come sua presenza di creatrice e divulgatrice culturale resta fondamentale, così egualmente la sua conversione al Cattolicesimo non fu un modo per sfuggire alle persecuzioni antiebraiche (anche se il realtà non sarebbe servito a nulla), ma risale ai primi rapporti avuti da bambina a Venezia con una istitutrice cattolica incaricata di insegnarle il tedesco. Contribuì molto, sino a metà degli anni ‘30, al “lancio” del Fascismo nel mondo e probabilmente portò dentro di sé questa dolorosa consapevolezza, insieme all’imbarazzo che forse provò sempre confrontando la sua eleganza intellettuale con la furbesca astuzia e l’improntitudine contadinesca che furono essenziali, in Italia ma non solo in Italia, nella formazione del mito mussoliniano.
Fra le testimonianze indirette ma significative sul personaggio-Sarfatti vi sono il romanzo “La notte italiana” di Nicole Fabre, in cui la giovane protagonista, Giulia, diverrà l’amante di Italo Balbo, presentato alla ragazza da Margherita Sarfatti, direttrice di un giornale in cui essa ha trovato lavoro. Altra inattesa testimonianza è quella contenuta nel film “Il prezzo della libertà” (“Cradle Will Rock”, 1999) diretto da Tim Robbins, ambientato nell’Estate del 1937 a New York. In esso, oltre a una miriade di personaggi storici, si ritrova anche, impersonata da Susan Sarandon, la “contessa” Margherita Sarfatti, che vende quadri di contrabbando per finanziare Mussolini…

6 febbraio 2009

CAMERA EYE: TESTIMONIANZA SU SORDI



Un giornalista, Carlo Calabrese, mi ha scritto nei giorni scorsi chiedendomi una breve testimonianza su Alberto Sordi da inserire in un libro che egli, per conto della casa editrice Edi Lazio diretta da Winlly Pocino, sta scrivendo sull’attore. Vi saranno anche contributi di Gian Luigi Rondi, Giuliano Montaldo, Carlo Lizzani, Carlo Verdone, Mario Monicelli, Piera Degli Esposti, Franca Valeri, eccetera. L’ho scritta e gliel’ho inviata. Poiché, al di là della vanità personale, mi sembra un accettabile frammento di riflessione, ho deciso di ricopiarlo qui nel Blog (a giudicare dalle mancate testimonianze che riguardano quasi tutto quello che ho pubblicato in questo diario telematico, così facendo l’ho anche votata all’oblio).


Non è facile per me scrivere poche righe su Alberto Sordi. A suo tempo gli dedicai un librone (con utili collaborazioni di Umberto Tani ed Enrico Lancia) che a qualcosa deve essere servito, visto che un altro biografo di Sordi, Goffredo Fofi, a suo tempo mi ha inviato affettuosamente una copia del suo libro (“Alberto Sordi – L’Italia in bianco e nero”, edito da Mondadori nel 2004) con una dedica che dice: “Caro Claudio, senza il tuo “Gremese” avrei faticato il doppio. Te ne sono infinitamente grato”, concetto ribadito anche nell’introduzione. E questo perché l’operosissima vita di Sordi è talmente stipata di avvenimenti e di film che è impossibile ricostruirla in poche pagine. A dirlo così sembra strano, ma su Sordi ho molto riflettuto. Che cosa fa del suo tragitto professionale un “unicum”, anche sullo sfondo di una cinematografia fittissima di personaggi di talento e di invenzioni? Si tratta, in realtà, di una intrusione estremamente violenta delle sue caratteristiche “etniche” all’interno di un mondo di spettacolo che viveva in modo doloroso e creativo il passaggio fra il dialetto e la lingua. Con questo voglio dire che Sordi recupera, con inconsapevole ma straordinaria tensione morale, il taglio cesareo che, invece di dividere, paradossalmente salda l’Italia di Vittorio Emanuele III – dove, durante la prima guerra mondiale, i giovani ufficiali morivano in italiano e i loro soldati morivano in dialetto – con quella già italofona di De Gasperi, ove De Sica sembrava un pericoloso rivoluzionario e il giovanissimo Fellini si apprestava, nel futuro, a fornire sogni barocchi per una Roma gongorista. All’interno di quella stessa Roma, Sordi si mosse con una fisiologica intensità che gli consentì, più volte, di porsi all’incrocio di diversi momenti della nostra storia: la sua apparizione nel cinema italiano venne salutata come l’occasione d’una ritrattistica nostrana che ne faceva un tipico esempio di italiano dei tempi moderni. E cioè cinico, furbesco, all’occasione prepotente o servile, pronto a gettarsi sul carro del vincitore, ma anche a incarnare inaspettati risvolti morali. Quando cominciò a diventare noto, io scrissi un suo ritratto intitolato “Un italiano formato tessera”. Con l’andare del tempo ho capito di avere sbagliato. Non vorrei che questa affermazione offendesse qualcuno, ma credo che la vera dizione dovrebbe essere “Un romano formato tessera”. In effetti, in un cinema italiano girato e pensato a Roma, dove in apparenza le commistioni linguistiche fra la lingua e il dialetto sono continue, automatiche, insistite e a volte maniacali, una distinzione del genere può apparire immotivata. Mentre invece risponde ad una profonda esigenza, che vorrei definire “narrativa”. In un cinema ambientato a Roma, Sordi era uno dei pochi, veri romani, capaci di superare il folklore, sia pure toccante, dei Carotenuto e dei Fabrizi. Tutto in lui implicava una cittadinanza capitolina che lo riportava indietro di secoli. Il suo rapporto con la Chiesa e con il Papa è splendidamente implicato in alcuni film di Gigi Magni e ne “Il marchese del Grillo” di Mario Monicelli: quando apparve nel 1981 sembrò soprattutto un divertente elzeviro romanesco e invece, visto e rivisto adesso, possiede molte caratteristiche di un capolavoro. In realtà Sordi era un romano anteriore all’unità d’Italia, il quale ha continuato silenziosamente a vivere, con il Papato e con la Chiesa, un rapporto profondo e “contemporaneo”, che non solo non escludeva, ma anzi implicava, unghiate ironiche e strizzatine d’occhio, tipiche di un popolo che ha sempre visto nel Papa un personaggio duplice: vicario di Cristo ma anche prefetto di Trastevere e di Monti, delegato ad occuparsi non solo della salvezza dell’anima ma anche della fisica amministrazione della “monnezza”. Una sua straordinaria battuta su Giovanni Paolo II poteva nascere solo sulle labbra e nel cuore di un suddito di altri tempi (infatti una volta mi disse: “Ma questo Papa, quando dice – e qui imitò l’accento polacco – “La Matonna”, che fa? Bestemmia?”).
Questo era il mondo come lo vedeva Sordi e come lo reinventava Sordi, romanescamente capace di beffardi ritratti di monsignori (si veda quel suo personaggio al centro de “L’ascensore” di Luigi Comencini, episodio contenuto ne “In quelle strane occasioni”, ove vestendo e svestendo abilmente la tonaca, possiede appunto in un ascensore la Sandrelli e poi le spiega che non sono colpevoli perché, dato il guasto meccanico, erano privi del libero arbitrio).
Ma egli fu anche capace di offrirci sofferte partecipazioni all’umanità dei personaggi, con una scioltezza ed una testarda applicazione al lavoro che adesso ci fanno capire che, in realtà, si trattava di un genio.

Claudio G. FAVA