Blog - Crediti


L'audio e i video © del Blog sono realizzati, curati e perfezionati da Lorenzo Doretti, che ha anche progettato l'intera collocazione.
L'aggiornamento è stato curato puntualmente in passato da diverse collaboratrici ed attualmente, con la stessa puntualità e competenza, se ne occupano Laura M. Sparacello ed Elisa Sori.

28 ottobre 2013

L'OSSERVATORE GENOVESE

Eccezionalmente, per un disguido tecnico, la mia abituale rubrica domenicale sul "Corriere Mercantile" è stata pubblicata dal giornale solo oggi lunedì. E comunque il giorno in cui sono abituato a riportarla nel Blog, per cui, sotto questo profilo no vi è alcuna differenza.
Ecco quindi il brano della rubrica rigorosamente vietato (come in fondo, seppur in modo meno brusco, si dice anche nel testo) a chi non ha l'abitudine di seguire in televisione i principali avvenimenti calcistici.
Ecco dunque, per gli appassionati...

VISTO CON IL MONOCOLO

VORREI SENTIRE DI NUOVO BRUNO PIZZUL
Premetto che la puntata di oggi può interessare soltanto chi segue il calcio (altrimenti rischia di annoiarsi). Ho visto per caso una trasmissione di Rai Sport che rievocava “90o minuto”. Immagini sfuocate e flebili di volti un tempo famigliari, a cominciare da quello di Paolo Valenti, (uno degli ideatori insieme a Maurizio Barendson), che condusse poi la trasmissione sino al 1990 quando morì. A fargli corona molti volti di cronisti di sport, bravi o mediocri che fossero, divenuti famosi all’epoca fra gli appassionati perché apparivano regolarmente ogni settimana a introdurre brevi frammenti documentari sulle singole partite. Qualche nome? L’epico Tonino Carino (poverino, è morto nel 2010) Gianni Vasino e Giorgio Bubba, entrambi provenienti da Genova (con Bubba ricordo di aver fatto un viaggio in treno da Nizza, e non so perché), Beppe Viola (morto nel 1982, mentre stava montando un servizio su una partita) e poi, a caso, Emanuele Giacoia, Ferruccio Gard, Marcello Giannini (un toscano che sembrava sempre arrabbiato), il romanzesco Luigi Necco, da Napoli, (fu ferito nel 1981 prima di una partita) Cesare Castellotti, Franco Strippoli, Italo Kuhne, eccetera eccetera. A rivederli adesso sembrano provenire da un’epoca remota e ripropongono un’idea, come dire, ministeriale del calcio, la stessa che reggeva alcuni notissimi radio-telecronisti d’epoca, tutti eredi di Nicolò Carosio: Ameri, Martellini, Provenzali (anche egli scomparso; con lui ho diviso una cattedra in un corso universitario di giornalismo) eccetera. Per anni ci hanno abituato a delle cronache, tecnicamente esatte, forse un po’ ovvie a momenti, ma certo di grande competenza professionale. Vien fatto di raffrontarle con quelle attuali che si ascoltano su Sky: da un lato incomparabile superiorità tecnica e incredibile numero di partite trasmesse contemporaneamente ma dall’altro fastidiosi rumori in diretta che spesso coprono le voci dei cronisti. I quali sono due, l’uno descrittivo e l’altro “tecnico”: col risultato che spesso non si capisce niente e si perde completamente il filo di quel che vi dicono le immagini.
Confesso di avere una grande nostalgia di Bruno Pizzul e della sua intelligente diligenza friulana.

AD ALESSANDRIA UN CONVEGNO DI CRITICI SUL CINEMA E LA PRIMA GUERRA MONDIALE

Il giorno 19 novembre prossimo, grazie all'azione congiunta della Edizioni Falsopiano (casa editrice specializzata in pubblicazioni cinematografiche)  e del Circolo del Cinema Adelio Ferrero, verrà tenuto ad Alessandria, nella sala consiliare della Provincia, un convegno sul tema  "Il cinema e la Grande Guerra". Io sono stato invitato e l'amico Lorenzo Doretti ha avuto la gentilezza di registrare e montare un mio intervento della durata di circa 46 minuti. Una volta che l'intervento stesso sarà stato visto e udito ad Alessandria lo porrò nel Blog, ove, come è noto, esiste la sezione "video".
Intanto, sperando che possa interessare, riproduco qui sotto la bozza del programma, così come mi è stato inviato da uno dei responsabili di Falsopiano, Roberto Lasagna. Mi pare di capire che da qui al 19 Novembre sono possibili mutamenti di persone e di temi ma quella che segue dovrebbe essere l'ipotesi prevalente del programma della rassegna. 

Bozza in evoluzione convegno Cinema e grande guerra, Alessandria, 19 novembre

ore 10 introduzione (Roberto Lasagna e Saverio Zumbo, dedica del convegno a Gianni Volpi)
ore 10,30 Nuccio Lodato, "Altre fonti, altre trincee diverse dalle nostre"
ore 11,00 Paolo Micalizzi, "Un cineoperatore in guerra: Antonio Sturla"
ore 11,30 miscellanea di proiezioni, con commenti di Massimo Benvegnu' e Nuccio Lodato

Pausa pranzo

ore 14,30 Antonella Ferraris, "Vivement Tavernier"
ore 15,15 Antonio Tentori presenta il suo libro su "La grande guerra"
ore 16,00 Claudio G. Fava racconta il cinema classico su "La grande guerra"
ore 17,00 Massimo Benvegnu', "Peter Weir e Gallipoli"
ore 17,30 Beppe Varlotta, "Il mio Monicelli e La grande guerra"
ore 18,00 Barbara Rossi, "Anna Magnani in guerra"
ore 18,30 Franco Livorsi, "Paranoia"

ore 19,00 conclusione

nb. La mattina e' prevista la partecipazione di scolaresche. Sono in atto contatti con i cineasti Yanikian e Ricci-Lucchi per averli al convegno. Prevista la proiezione ripetuta di loro film.

21 ottobre 2013

L'OSSERVATORE GENOVESE

Cari amici, in attesa di qualche apporto più corposo , ecco il solito contributo del lunedì con la mia rubrica domenicale sul "Corriere Mercantile". Dato che voi non vedrete la pagina originale ma solo il testo, preciso che, come accade ogni volta, in redazione è stato incorporato nel brano la fotografia di una delle persone menzionate, in questo caso l'attrice Giovanna Ralli. Per i più giovani ricordo che è nata nel 1935, dopo essere stata utilizzata dal cinema quando era molto piccola (ne "I bambini ci guardano" di Vittorio De Sica" del 1942 era una bambina che giocava ai giardinetti). Esordì di fatto nel 1950 con "Luci del varietà" del 1950 di Lattuada e Federico Fellini, iniziando una carriera che proseguì sino a tutti gli anni '70 e che ha conosciuto dal 1980 ad oggi una decina di "ritorni" sino ai giorni nostri. Tant'è vero che è prevista nel cast di un film che Pupi Avati dovrebbe girare nel 2014: "Un ragazzo d'oro". Le sue prestazioni migliori le offrì nei panni di una romana, popolare  e popolaresca in molti film. Per citarne alcuni: "La famiglia Passaguai" di Aldo Fabrizi (1951); "Villa Borghese" di Gianni Franciolini (1953); appunto "Le signorine dello 04"; "Racconti romani" di Gianni Franciolini (1955); "Tempo di villeggiatura" di Antonio Racioppi (1956); "Era una notte a Roma" di Roberto Rossellini (1960) eccetera, eccetera.

VISTO CON IL MONOCOLO

TELEFONO E TELEFONINO UN FILO FRA DUE UNIVERSI
Credo che tutti vedano di continuo quelle terribili scene in televisione, quando su un terreno sul quale, come sempre, è stato consumato un crimine si aggirano presenti, parenti, estranei e indaffarati e, soprattutto in provincia, carabinieri. C’è sempre almeno un ufficiale che ha, come da tradizione, i guanti nella sinistra e un telefonino nella destra. Che cosa fa? Naturalmente telefona. Si direbbe che gli ufficiali dei carabinieri facciano inchieste solo telefoniche. Ma ormai tutti telefonano, anche se non sono carabinieri. Con il telefonino oggi si fa tutto: si parla, si fanno fotografie, si gioca, si va su internet, si leggono i libri, si frequentano i social - network, cosicché non si parla neppure più ma ci si scrive (male)  usando una sorta di cifrario simbolico che elimina anche le parole. Tutto questo in una ventina di anni che, anche sotto questo profilo, hanno di fatto sconvolto il pianeta. Due secoli fa passavano cinquant’anni e, pressappoco, i nipoti vivevano come i nonni. Adesso basta un quinto di secolo per entrare in un altro mondo. È uno spettacolo che ogni volta mi fa venire in mente un tenue ma garbato film di Gianni Franciolini del 1954, “Le Signorine dello 04” che, nel ricordo, sembra provenire da un altro universo. Come spiegare ad un giovane di oggi che sessant’anni fa (i prefissi naturalmente non esistevano) per parlare da una provincia all’altra, e forse anche all’interno della stessa provincia, era indispensabile passare attraverso un centralino (appunto lo 04) dove delle signorine indaffarate vi iscrivevano in una lista di attesa. Un’attesa spesso molto lunga che dava origini a litigi e contestazioni. Per accorciarla bisognava pagare di più. Richiamare il centralino e dire, con voce di pianto: “signorina, allora me la faccia urgente!”. E credo, magari, anche “urgentissima”. Naturalmente il film era popolato di attrici d’epoca, Antonella Lualdi, Franca Ralli, la cara Marisa Merlini, la geniale Franca Valeri (come sempre straordinaria), la catarrosa Tina Pica e di molti attori d’epoca da Antonio Cifariello a Peppino De Filippo. Ma anche essi sembrano uscire, nel ricordo, da un astronave fantascientifica. Il tempo passa troppo rapidamente.
(TITOLO ORIGINALE: "DAL TELEFONO AL TELEFONINO: UN ALTRO UNIVERSO")

14 ottobre 2013

ANCORA UN RICORDO DI LIZZANI NELLE PAROLE DI VALERIO CAPRARA

Mi pare giusto riprodurre qui (con l'amichevole autorizzazione dell'autore) quel che Valerio Caprara ha scritto sul suo sito in occasione della morte di Carlo Lizzani. Come si vede Valerio ed io, che non avevamo certo legami di militanza comune con lo Scomparso, abbiamo ceduto entrambi al moto più grande che possa guidare parole e sentimenti di un essere umano. E cioè a quello del cuore (e del rimpianto).

articolo integrale su scomparsa di Lizzani

05 Ottobre 2013


“A V. C. questo vagabondaggio attraverso un secolo che ha lasciato aperte tante ferite e tante domande. Con affetto”. Questa dedica di Carlo Lizzani, datata 2007 e vergata sul frontespizio di uno dei più formidabili libri di cinema mai scritti in Italia, “Il mio lungo viaggio nel secolo breve”, apparterrebbe solo alla sfera privata se non fosse per le ragioni che, oltre a rendere doloroso il compito di tramandarne la memoria, possono contribuire a illuminare la statura dell’uomo prim’ancora della sua opera. E’ indubbio, infatti, che troncando tragicamente la propria lunga e intensa vita –si è suicidato gettandosi ieri dal balcone del proprio appartamento del quartiere Prati a Roma, ricalcando incredibilmente il gesto compiuto dall’amico e collega Mario Monicelli tre anni orsono- l’anziano regista, sceneggiatore e storico ha ritenuto chiusa per sempre l’opera maieutica compiuta nei confronti di due generazioni di critici e cinefili, quella dei nostri padri e la nostra. Senza rinnegare la propria formazione umana e artistica, forgiata negli anni della fronda universitaria al fascismo, della militanza nell’orbita del Pci romano e nell’attiva adesione alle istanze estetiche ed etiche del neorealismo, Lizzani ha, in effetti, praticato, perfezionato e anche modificato con rigore e pazienza per oltre un cinquantennio alcuni assiomi, forse più “rivoluzionari” di quelli legati alla lotta politica: la passione per il mestiere non può ispirarsi solo ad astratti canoni autoriali e non deve mai disprezzare la ricerca di un autentico rapporto con le platee; fare i film può corroborare la possibilità di saperli analizzare, storicizzare e persino valorizzare sulle ribalte festivaliere; girare il mondo intero per realizzare documentari vuole dire essere sempre pronti ad aprirsi a tutte le nuove “metriche” sperimentate dal medium (arcinemica tv compresa); l’impegno civile e culturale non deve essere sinonimo di fideistica fedeltà ai lasciti fallimentari delle utopie totalitarie del sunnominato secolo breve.
Sono tantissimi, in questo senso, i segnali che ci ha generosamente lasciato sul percorso di appassionati di cinema periodicamente esposti alle ubriacature ideologiche, agli assolutismi teorici, alle conventicole specialistiche, al ricatto del box-office e a quello del cineforum. Sia pure legato all’attività critica della rivista “Cinema”, crogiolo dei futuri leader neorealistici, comprende presto come la sceneggiatura costituisca un forte background per la successiva libertà creativa delle riprese, tanto è vero che la sua giovane mano si fa sentire nelle collaborazioni con Vergano, Lattuada, De Santis, Rossellini.
Esordisce dietro la macchina da presa con un trittico di documentari infiammati dal clima del dopoguerra, ma il primo film di fiction è “Achtung! Banditi!” del ’51, che già contiene il dna di tutta la sua poetica: una sceneggiatura, appunto, serrata e consequenziale, un po’ all’americana; la ricostruzione di un autentico episodio della Resistenza, ma nell’ottica di un’immediata epica popolare; un estremo verismo di ambientazione e dialoghi, ma con il forte richiamo costituito dal protagonismo di due divi dell’epoca come Gina Lollobrigida e Andrea Checchi. Il primo successo internazionale arriva tre anni più tardi, quando la giuria del “mondano” festival di Cannes decide di riservargli un premio speciale per “Cronache di poveri amanti”, robusto melò d’azione sull’opposizione fiorentina alla presa del potere fascista tratto dal romanzo omonimo di Vasco Pratolini. Nella sua subito nutrita filmografia è evidente come l’interesse per la fase storica che lo ha fatto crescere, sia dal punto di vista intellettuale che da quello filmico, si confronta sempre più spesso e con esiti inevitabilmente alterni con il senso del ritmo, dell’avventura, dello scontro tra personaggi in cui il pathos privato può arrivare a surclassare quello sociale o di classe. Sono gli anni di “Il gobbo” (interpretato da Pasolini), “L’oro di Roma” “Il processo di Verona”, “La vita agra”, che ricevono, a causa della loro spigliatezza, accoglienze tiepide proprio da parte della stampa schierata a pregiudiziale tutela di un cinema antagonistico ai valori dominanti.
L’eclettismo del cineasta-gentiluomo, assiduo in ogni dibattito e in ogni polemica (anche perché nel frattempo ha pubblicato la prima “Storia del cinema italiano” dell’editoria nazionale esaustiva e circostanziata), ma sempre con un atteggiamento costruttivo, il tratto cortese e una lucidità non prona agli slogan abborracciati, lo conduce all’incontro con la commedia all’italiana. “La vita agra”, storia della dolorosa integrazione dell’anarchico Tognazzi nel confortevole tessuto del “miracolo economico” tratta dal romanzo di Bianciardi, non a caso è del ’64, ma Lizzani non si aggrega alla marcia trionfale dei Risi, Comencini e Monicelli e preferisce ritornare ai cortocircuiti con la cronaca (“Svegliati e uccidi”, “Banditi a Milano”, “Barbagia, la società del malessere”, “Roma bene”, “Storie di vita e malavita”, “San Babila ore venti”) che gli permettono di coniugare l’inchiesta con la spettacolarità. Che il cinema, inteso come arte di cuore e viscere, lo streghi da ogni punto di vista stanno a dimostrarlo tanti altri titoli, sparsi con allegra fluidità sino nei territori interdetti ai “colti” del suo livello: il western all’italiana (“Requiescant”), la storia (“Mussolini, ultimo atto”), il terrorismo mixato con l’erotismo (“Kleinhoff Hotel), il giallo (“La casa del tappeto giallo”). Non si creda che Lizzani, infine passato al piccolo schermo con una serie, anche questa, debordante di docu-dramma (da “La donna del treno” del ’98 a “Le cinque giornate di Milano” del 2004 e fino a “Hotel Meina” del 2007), abbia accettato passivamente di essere collocato in serie B dalla Nuova Onda iper-cinefila. Non solo, infatti, ha rilanciato, dirigendola dal ’79 all’82, l’agonizzante Mostra di Venezia, ma ha continuato instancabilmente ad alternare gli interventi, le discussioni, le rievocazioni e gli scritti con film non più incisivi eppure mai banali, mai raccomandati alla benevolenza dei critici (“Caro Gorbaciov”, “Cattiva”, “Celluloide”). E’ indifferente, a conti fatti, chiamarlo o meno maestro. Come ha sempre desiderato, ha di sicuro “lasciato tracce”: le uniche, peraltro, in grado di sfidare la sparizione, destino comune di ogni essere umano. 

L'OSSERVATORE GENOVESE

Come ogni lunedì (sta diventando una consuetudine) riporto il testo della mia rubrica domenicale sul "Corriere Mercantile". Le imprecisate accuse contro gli enti italiani che, bene o male, (ma in linea di massima direi bene) riescono a soccorrere le migliaia di emigranti i quali si aggrappano, esausti o moribondi, alle nostre coste meridionali, mi hanno indignato. Questa è pertanto la mia debole ma onesta risposta a tante parole inutili.

VISTO CON IL MONOCOLO

LE VITTIME DEL MARE DA SALVARE IN SILENZIO
Mentre mi accingevo a scrivere queste righe ho letto una notizia di cui non sapevo niente. Sembra che il 10 Giugno 2008 il battello “Michele Fiorillo” della Guardia Costiera, nel tentativo di salvare i 31 nigeriani fuggiaschi che andavano alla deriva su un barcone fra la Sicilia e Malta, abbia compiuto un errore di manovra. La scaletta laterale sarebbe caduta dall’alto, nel mare agitato, sul barcone, colpendo diversi migranti. Si dice che 10 persone ci abbiano lasciato la vita, ferite dalle eliche e annegate. Io riferisco da lettore, senza essere in grado di sapere se sono notizie fondate oppure no. Ma quel che mi sembra importante non è la notizia in sé ma tutto quello che la circonda e che essa evoca. In questi ultimi giorni ho sentito dire, da Autorità altissime, che i morti approdati a Lampedusa sono una vergogna. Certo, ma sono una vergogna soprattutto per le nazioni da cui le povere vittime provengono e per il Medio-Oriente e ancor più per il Continente Nero furiosamente mal governati, in preda a riprovevoli guerre tribali. Ove molto spesso una popolazione miserabile è ridotta a vivere circondata da territori che traboccano di materiali preziosi. Io non ho nessuna intenzione di vergognarmi di quel che accade a Lampedusa. Se mai sono, come italiano, orgoglioso (e non è retorica) di quel che da anni migliaia di italiani fanno, disciplinatamente e in silenzio, per aiutare quei poveri esseri che si gettano sulle nostre coste sfuggendo a tutte le insidie del mare. Vigili del fuoco, equipaggi della Marina militare, della Guardia di Finanza, dei Carabinieri della Polizia, sommozzatori di ogni estrazione (sembra che ogni organismo italiano disponga dei suoi propri sommozzatori), senza contare i civili di ogni organizzazione benefica, da anni si sacrificano salvando migliaia di vite umane senza che si senta una voce di lode da parte dei nostri governanti. Altre notizie dicono che dal 1992 ad oggi la sola Guardia Costiera avrebbe salvato 300.000 migranti. Sicuramente, in media, ognuno dei salvatori guadagna molto meno di un ministro o di un deputato. Danno a loro , ed anche  a noi, una grande lezione. E ci fanno provare non vergogna ma, come dicevo, un grande orgoglio.
(TITOLO ORIGINALE: "I NUMEROSI ITALIANI CHE SALVANO IN SILENZIO LE VITTIME DEL MARE")

9 ottobre 2013

A PROPOSITO DI MARCELLO MARCHESI (E DI TANTI ALTRI PICCOLI GENI)

Domenica 29 Settembre Pierluigi Battista (che non conosco personalmente) ha scritto ne "La Lettura" un bell'articolo intitolato "L'umorismo italiano ucciso dal Sessantotto" (il titolo rievoca giustamente una tragedia generazionale che investì tutto l'occidente e in Italia ebbe conseguenze particolarmente dannose). Battista si chiede infatti "Chi ha ucciso in Italia il senso dell'umorismo? Che fine ha fatto quella tradizione formidabile di battutismo beffardo, quel vulcano di epigrammi, calembour, motti sferzanti, arguzie, meravigliosi aforismi di cui la cultura italiana poteva andare fiera fino a qualche decennio fa?". E continua rievocando il "Malloppo" e il "Dottor Divago" dovuti alla geniale allegria di Marcello Marchesi. E via via Battisti rintraccia il disegno di quella che fu quell'Italia lontana ma irrimediabilmente perduta: quella di Marchesi, certo, ma anche di Valter Chiari, di Paolo Panelli e Bice Valori, di Vianello e Tognazzi e dei grandi sceneggiatori d'epoca: Age & Scarpelli, Rodolfo Sonego, Ennio Flaiano, Ettore Scola e via ricordando. 
Stimolato dallo scritto di Battista gli ho inviato il brano che pubblico qui di seguito e che mi auguro possa interessare qualche lettore. 

Battista ha avuto la cortesia di rispondermi una e-mail brevissima ma piena di gentilezza: "La ringrazio moltissimo per la Sua godibilissima lettera. Un caro saluto
Pierluigi Battista".

Ecco qui di seguito il testo della mia lettera:

"Caro Battista,

scrivo a proposito del suo articolo apparso domenica 29 ne “La Lettura” (non è stato facile trovare un indirizzo e-mail e ho dovuto scomodare Paolo Mereghetti: purtroppo nel settimanale non ci sono indicazioni redazionali e mettersi in comunicazione con il “Corriere della Sera” non è facilissimo). Volevo complimentarmi per la rievocazione di Marcello Marchesi, personaggio brillante e ingiustamente dimenticato da un’Italia capace soprattutto di dimenticare. Io lo conoscevo poco personalmente ma sono sempre stato persuaso che avesse un grande talento: di quel tipo che i francesi sanno valorizzare al massimo, spesso esagerando, mentre noi tendiamo a sottovalutarlo e, se possibile, a nasconderlo. Una volta mi capitò di dirgli (il momento storico era diverso) che lo consideravo “il Longanesi dell’ampex”. Mi rispose che la definizione gli piaceva.

Più largamente mi ha fatto piacere anche il ricordo di Oreste del Buono, con cui fraternizzai per anni, uniti dalla comune passione per il “noir”, dal Mystfest di Cattolica in poi. Mi raccontò molte volte la sua straordinaria storia famigliare: era il nipote di Teseo Tesei. Il quale, insieme a Eros Toschi, inventò i famosi Siluri a Lenta Corsa, detti “Maiali”, che rivoluzionarono all’inizio degli anni ’40 la guerra sottomarina e i cui sommozzatori riscossero la stupefatta ammirazione di Winston Churchill. Oreste, (forse uno non se lo aspettava in un personaggio così poliedrico, sfaccettato, aggiornato e aggiornante) aveva per lo zio una tale adorazione che quando questi, a 32 anni, morì a Malta saltando per aria nel porto di La Valletta, decise di seguirne l’esempio. Appena gli fu possibile entrò, nel 1943, all’ Accademia di Livorno. Tutti gli accademisti, portati in Veneto, vennero catturati dai tedeschi l’otto settembre, e Oreste passò due anni di prigionia (amante dei paradossi come era mi ripeteva sempre: “la cosa più bella è essere prigionieri di guerra: ti dicono che cosa devi fare e non devi pensare a nulla”).

Ma in realtà, come si dice chiaramente nel suo articolo, nel mondo brulicante di talenti in cui si mossero Marchesi, Del Buono e tantissime altre persone di grande talento, si avvertiva una sorta di grande pressione popolare, di immensa e semi-sotterranea vocazione all’ironia e allo scherzo, che trovò la più esplicita e clamorosa incarnazione nei due giornali umoristici: “Marc’Aurelio” e “Bertoldo”. Probabilmente senza di loro non sarebbe venuto nulla oppure sarebbe stato diverso. Non è un caso che tanti, da Fellini a Scola, si siano incrociati, con Age e Scarpelli, nella redazione del giornale romano, così come Mosca, Guareschi, Marotta e molti altri si incrociarono nella redazione del giornale milanese. Penso anzi che Age e Scarpelli siano fra gli scrittori italiani più interessanti, e non è un caso che con “ La donna della domenica” abbiano percorso un tratto di cammino con l’altra coppia fondamentale delle lettere italiane di qualche decennio fa, Fruttero e Lucentini. Probabilmente a causa della mia età sono molto sensibile a tutti i motivi e alle persone che ho evocato (mio padre gran lettore di giornali, comprava regolarmente sia il “Marc’Aurelio” che il “Bertoldo” e io bambino semi-ignaro li divoravo). E ho sempre orgoglio di essere stato l’unico che ha dedicato un ampio ciclo di prima serata proprio a Age e Scarpelli, che la cultura cinematografica italiana più altezzosa tendeva ad ignorare.

Spero di non averla annoiata e molti cordiali saluti."

TANTI PICCOLI RICORDI DI CARLO LIZZANI

Mi aggiungo anche io, con una testimonianza modesta ma spero sincera, a tutti quelli che hanno scritto, spesso con maggior conoscenza e competenza di quante ne possa vantare io, in occasione della morte traumatica di Carlo Lizzani. Io l’ho conosciuto molto tempo fa e l’ho visto abbastanza regolarmente ma con lunghi intervalli tra un incontro e l’altro. Non esistevano fra noi motivi di convergenza ideologica, ma semplicemente un grande senso di rispetto reciproco. Lizzani (3 Aprile 1922- 5 Ottobre 2013) era un uomo di gentilezza innata e di grande garbo, testimone di un educazione borghese di altri tempi che non è mai stato facile riscontrare in una società facilona come quella romana. Quel che me lo rendeva simpatico più della sua opera di storiografo-inizialmente centrata sul cinema italiano e poi risolta con testimonianze autobiografiche di natura più personale ma sempre legate al suo essere regista- erano appunto i suoi film. Non tutti ben inteso, ma soprattutto alcuni in cui risaltava il suo istinto di testimone del tempo, e di un tempo specificamente evocato: penso ai suoi film di fiction legati a momenti precisi della storia italiana. In questo senso è doveroso ricordare il suo lungometraggio d’esordio “Achtung! Banditi!” (1951) - girato nei dintorni di Genova, in Val Polcevera, fra Campomorone e Pontedecimo - ma ancor più film come “L’oro di Roma” (1961); “Il processo di Verona” (1963) che è forse la sua opera migliore, “Il gobbo” (1960); “Mussolini ultimo atto” (1974), “Celluloide” (1996) dove cercò di ricreare lo svolgersi misterioso della creazione di “Roma città aperta” di Roberto Rossellini. Naturalmente la sua attività si articolò in modo ben più ampio di quanto non sia implicito in questo breve riassunto. I lungometraggi furono ben più di trenta e, soprattutto negli ultimi venti anni furono numerose le opere documentarie, sia per il cinema che per la televisione. E anche qui si va spesso a rievocazioni d’epoca: “Luchino Visconti” (1999), “Roberto Rossellini: frammenti e battute” (2000), “Maria José, l’ultima regina” e via svariando. Naturalmente in una carriera così lunga - si va dal documentario “Togliatti è ritornato” (1948) a “Speranza” episodio del film “Scossa” (2011): come si vede più di sessant’anni - si rinvengono considerevoli alti e bassi, diverse incursioni nelle vicende “nere” e “gialle” dell’Italia contemporanea, “Svegliati e uccidi (Lutring)” (1966); “Banditi a Milano” (1968); “Roma bene” (1971); “Torino nera” (1972); “Storie di vita e malavita” (1975); eccetera. E perfino, come usava negli anni ’60, un Western pseudo americano, “Un fiume di dollari”, firmato doverosamente con lo pseudonimo di Lee W. Beaver (per stare al gioco anche Ennio Morricone firmò la musica con lo pseudonimo di Leo Nichols).
Le tragiche circostanze della sua fine aumentano il rimpianto per un uomo da cui si poteva dissentire sui temi della scelta propriamente politica ma che era professionalmente e personalmente estremamente rispettabile per la cauta ma autentica cortesia del tratto. Faceva le cose sul serio. Mi ricordo che quando venne chiamato (dal 1979 al 1982) a rianimare la Mostra di Venezia, praticamente svuotata di senso e di coerenza durante anni di contestazione, si occupò di tutto con estrema diligenza. Dal momento fondamentale della scelta dei film via via a tutti i passaggi organizzativi importanti e anche umili: mi ricordo che il primo anno, consapevole di essere in presenza di un meccanismo totalmente arrugginito, si preoccupava di controllare, sala per sala, se la proiezione era corretta e se venivano accese le luci durante l’intervallo; come tutti i veri registi conosceva l’importanza dei particolari apparentemente secondari. Vorrei aggiungere una piccola notazione della mia memoria personale. Un giorno, credo in un corridoio della Rai di Viale Mazzini dove l’avevo trovato in attesa (i corridoi della Rai erano sempre pieni di gente in attesa, a volte anche nota, perché i dirigenti della Rai amano farsi attendere) parlavamo dei nostri ricordi lontani e lui mi raccontò che negli ultimi giorni della campagna istituzionale del 1946, aveva assistito, insieme a Luchino Visconti, ad un comizio del solito intemperante Pietro Nenni, il quale improvvisamente esplose gridando alla folla: “volete voi un Re pederasta?” (allora non si usava abitualmente la parola omosessuale). E io chiesi a Carlo: “perché un Re omosessuale no e un regista omosessuale si?”. Rimase interdetto e perplesso: forse non si era mai posta la domanda. Fra i tanti ricordi che ho di lui c’è un piccolo particolare assolutamente secondario. Gli dissi, non so in quale occasione, come io avessi appreso che il pilota dell’aereo militare incaricato di condurre in esilio Umberto II il 18 Giugno 1946 fosse pilotato da un suo fratello maggiore, evidentemente ufficiale pilota di carriera. Ed egli poverino, un po’ seccato, mi disse: “Lo hanno scelto perché era uno dei migliori”. Quasi io sospettassi che il fratello avesse qualche debolezza monarchica …
Ultima notazione personale. Ho appreso dalle notizie tragiche sulla morte di Lizzani, e mi ha fatto un impressione tutta particolare, che egli attualmente abitava a Roma in Via dei Gracchi. Dove sono andato ad abitare io nel 1970 quando andai alla Rai. Vi rimasi sino ai primi anni ’80 per trasferirmi nella vicina via degli Scipioni. È una strada che ho ancora vivissima nella memoria. Quando la conobbi era ancora una tipica via del quartiere Prati di una volta, con le sue bottegucce, i suoi parrucchieri modesti, il suo famoso ristorante “Il matriciano”, allora prediletto dalla gente del cinema, il suo mercato rionale che aveva sede, in teoria, in Piazza dell’Unità, che di fatto non esisteva, perchè aveva conservato il nome ma era stata spodestata dalla strada, in omaggio a quelle bizzarrie comunali che sono così frequenti in Italia. Il quartiere Prati fu costruito dai piemontesi dopo il 1870 ed ha conservato una sua logica “quadrata” di vie e piazze poste a rettangolo. È nato, in certo senso, all’ombra di Castel Sant’Angelo e non a caso i vecchi romani lo chiamavano: “I prati der Castello”. In omaggio all’antico gusto romano di definire gli abitanti a seconda del quartiere che si abitano, quelli di Prati sono chiamati “I prataroli” (e me lo sentii dire dal proprietario di uno dei più grandi ristoranti italiani di Los Angeles, quando mi chiese dove abitavo, io risposi: “in via dei Gracchi” e lui entusiasta: “e io in via Marianna Dionigi. Allora semo prataroli”).
Anche io e Carlo siamo stati “prataroli”.

7 ottobre 2013

L'OSSERVATORE GENOVESE

Abituale apporto del lunedì mattina, con la rubrica di domenica del "Mercantile". Per la seconda volta ho ceduto ad una tentazione calcistica, e non è detto che sia l'ultima. Mi auguro che interessi qualche succube del rettangolo verde (come me).
Molti saluti a tutti

VISTO CON IL MONOCOLO

Mi ha molto interessato la natura e la genesi delle due federazioni fondamentali del calcio: la FIFA, quella mondiale, e la UEFA, quella europea. Nella loro storia ho potuto vedere un sintomo significativo dei grandi cambiamenti nell’uso internazionale delle lingue e nel peso internazionale delle nazioni. La FIFA venne fondata nel 1904: la Francia la Germania e la Gran Bretagna reggevano il mondo. Significativamente la sigla FIFA è concepita in francese, perché allora non si immaginava (come ai tempi di Federico il Grande!) che si potesse usare un’altra lingua nei rapporti internazionali. Ma per metà è scritto in inglese perché il vocabolario del calcio e la vocazione stessa del gioco erano ancora britannici. E cioè FI significa “Fédération International de” (in francese) e FA significa invece “Football Association” (sembrerebbe in inglese). Invece l’UEFA fondata 50 anni dopo nel 1954, quando l’inglese si stava impadronendo del mondo, è apertamente soltanto in questa lingua: “Union of European Football Associations”. Si vede di qui il giro di volta completo di uno scontro internazionale che ormai, anche in Europa, sembra vinto dagli anglofoni. Il tramonto del francese come lingua internazionale è segnato da mille sintomi: ad esempio da molti anni non è più una lingua obbligatoria nei concorsi italiani per la carriera diplomatica. Due altre caratteristiche comuni a entrambi le federazioni sono presentate dal fatto che entrambe hanno scaltramente sede in Svizzera (la FIFA a Zurigo, la UEFA a Nyon nei pressi di Ginevra) e che coltivano un gusto tutto particolare per avere dei presidenti per lungo tempo in carica, come dei politici italiani. In 109 anni di vita la FIFA ha avuto solo 8 presidenti, alcuni dei quali in carica per un’intera generazione (il francese Jules Rimet per 33 anni, il brasiliano Joâo Havelange per 23). In 49 anni di esistenza la UEFA è stata un po’ più discreta (in media una decina di anni a testa) ed è l’unico dei due organismi che, quando il nostro calcio rappresentava qualcosa  abbia avuto un presidente italiano (Artemio Franchi, dal 1973 al 1983, perché morì). Ora c’è Platini. È difficile dire che il calcio non sia uno specchio del mondo. 

TITOLO ORIGINALE: "FIFA E UEFA DUE SIGLE CHE RISPECCHIANO IL MONDO"


4 ottobre 2013

IL DIVISMO TRANQUILLO DI GIULIANO GEMMA

Mi dispiace, pochi giorni dopo aver scritto delle estreme parole di commiato da Luciano Vincenzoni, dover dettare un brano che riguarda un altro decesso. Quello di Giuliano Gemma, morto il I° ottobre nell’ospedale di Civitavecchia dove era stato trasportato dopo un gravissimo incidente stradale subìto nei pressi di Cerveteri (antica cittadina laziale situata a circa 40 chilometri da Roma, notissima per i suoi siti archeologici) dove risedeva da tempo. Ma se, scrivendo di Luciano, potevo fare riferimento ad un’amicizia relativamente recente ma intensa, nel caso di Giuliano mi è concesso solamente la possibilità di rimproverarmi per una mia lunga distrazione; e spiegherò meglio questa frase. Appresa la notizia attraverso la televisione ho avuto la forza di chiamare sua moglie al cellulare, di sentirne la voce affranta, (tuttavia è riuscita a parlarmi abbastanza a lungo) e di chiederle scusa per le mie mancanze. Mi auguro che la moglie, Baba Richerme, che è molto sensibile voglia perdonarmi. Molta gente la conosce o, più esattamente, conosce la sua voce perché Baba è da molti anni una delle migliori giornaliste di Radio Rai, specializzata in intelligenti cronache degli spettacoli, in cui si avverte la sua finezza e la sua buona educazione di signora torinese. Da molti anni ormai era la moglie di Giuliano: questi aveva avuto una prima moglie, poi deceduta, e dal matrimonio erano nate due figlie. Una di esse Vera, è attrice e scrittrice. Ho letto in internet un suo sito in cui parla con affetto del padre e ricorda che la madre le diceva sempre “ricordati che sei una vera gemma”. Ha anche prodotto e diretto, cosa di cui è molto fiera, un documentario su suo padre.
Quali sono le mie mancanze? Non avere giustamente celebrato Giuliano quando, alla Rai, sino agli inizi degli anni ‘90 mi riusciva relativamente facile progettare e allestire cicli di film, a carattere monografico (attori, registi, temi, eccetera). Probabilmente mi ha indotto (ingiustamente) in errore il fatto che in buona parte il suo successo provenisse dall’essere stato un divo del western all’italiana. Che magari avrà formato il tessuto su cui si è allenata la cinefilia adolescenziale di Quentin Tarantino (il quale infatti ha testimoniato a Gemma affetto e rispetto) ma che per molti della mia generazione, amanti del western “vero” (da Ford a Peckinpah) costituiva pur sempre una dubbia “ri-creazione” di un tema per cui avevamo sin da bambini una venerazione autentica.
In realtà Gemma non era solo quello, anche se l’Ital-western è stato uno dei veicoli della sua popolarità, quando, spesso con lo pseudonimo “americano” di Montgomery Wood, fu amatissimo dal pubblico che lo conosceva come Ringo. In effetti veniva dallo sport (ho scoperto che, da ex tuffatore, era intimo amico di Giorgio Cagnotto, il grande specialista di salto, padre di Tania) e grazie allo sport divenne stunt-man e poi attore vero e proprio. Uno dei primi a intuirne le qualità fu il disordinato ma intelligente sceneggiatore e regista genovese Duccio Tessari, che gli affidò un ruolo di rilievo nel mitologico “Arrivano i titani” e poi, appunto, gli confezionò come un sarto di lusso, in almeno 4 film, i panni polverosi ed esplosivi di Ringo. Giuliano fece molto cinema in quegli anni e continuò sino ad ora (controllando la sua filmografia ho visto che era preventivato per il 2014 il film “Deauville”) e soprattutto, man mano, strada facendo, imparò sempre più a recitare. Divenne un attore solido, discreto, preciso, sorretto da un fisico atletico e da un volto che la macchina da presa catturava gioiosamente. Se si controlla la sua filmografia si vede che venne spesso catturato da grandi registi e comunque da registi di ottimo mestiere: vorrei ricordare, fra i molti Luigi Comencini, Giuliano Montaldo, Mario Monicelli. E in particolare vorrei ricordare un film, quel “Deserto dei tartari” che Valerio Zurlini trasse nel 1976 dal romanzo di Buzzati e che fu una vera adunata di attori di talento: Vittorio Gasmann, Philippe Noiret, Jean-Louis Trintignant, Max von Sydow, Laurent Terzieff, Fernando Rey e Jacques Perrin, che era anche produttore. Negli ultimi decenni di carriera Giuliano Gemma fu anche un puntale protagonista di molti sceneggiati televisivi di successo, spesso nelle parti di ufficiale superiore di reparti delle forze dell’ordine, nelle quali risultava particolarmente credibile per la naturale capacità di vestire una divisa militare. Mi ricordo che parlava con orgoglio della sua presenza in “Commando d’assalto” (La Légion saute sur Kolwezi) il film del 1979 di Raoul Coutard sui paracadutisti della Legione Straniera in Africa. Vorrei comunque ricordare che in questi giorni il web è ricco di testimonianze piene di affetto di persone che hanno lavorato con lui. Fra di esse ad esempio Stefania Sandrelli (con lui sul set di “Delitto d’amore”) oppure Claudia Cardinale (fra i tanti film le piace ricordare “Il Gattopardo” di Visconti).
So che da tempo egli si era scoperto una vocazione di arte: gli piaceva autenticamente fare lo scultore. Anche qui con quella estrema discrezione e dedizione che contraddistinsero tutta la sua vita pubblica e privata.
Non so cosa altro potrei scrivere per testimoniare del mio commosso rimpianto.