Blog - Crediti


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18 gennaio 2012

MOVIOLA PERSONALE (SOLO CINEMATOGRAFICA)

“Midnight in Paris”
di Woody Allen

Soggetto e sceneggiatura: Woody Allen – Direzione della fotografia (colore): Johanne Debas, Darius Khondji – Musica: Stephane Wrembel – Scenografia: Anne Seibel - Montaggio: Alisa Lepselter – Produzione: Letty Haronson – anno 2011– Interpreti, personaggi e doppiatori: Owen Wilson (Gil) - ((Massimiliano Manfredi)); Rachel McAdams (Inez) – ((Chiara Colizzi)); Kurt Fuller (John) – ((Carlo Valli)); Mimi Kennedy (Helen) – ((Melina Martello)); Michael Sheen (Paul) – ((Loris Loddi)); Nina Arianda (Carol) – ((Franca D’Amato)); Carla Bruni (Guida a Versailles) – ((Se stessa)); Marion Cotillard (Adriana) – ((Elsa Mollien); Adrien Brody (Salvatore Dalì) – ((Neri Marcorè)); Corey Stoll (Ernest Hemingway) – ((Adriano Giannini)); Kathy Bates -  (Gertrude Stein) ; ((Ludovica Modugno)); Tom Hiddleston (Francis Scott Fitzgerald) - (( Riccardo Rossi)); Alison Pill ( Zelda Fitzgerald) – ((Alessia Amendola)); Léa Seydoucs ( Gabrielle) – (Diana Fleri)) eccetera. Doppiaggio : CVD – dialoghi italiani: Elettra Caporello – Direzione: Maura Vespini. (L’indicazione delle voci italiane è ricavata dal prezioso sito di Antonio Genna “Il Mondo dei doppiatori”).

Mi ero occupato qualche tempo fa (vedi nel Blog l’ articolo “Solo la Parigi del passato funziona nell’Europa del presente”, pubblicato in data 3 dicembre 2011) di questo recente film di Woody Allen, chiarendo il tema di fondo, e cioè la fuga ossessiva verso un mito letterario del passato, molto forte nella letteratura anglo–americana, ossia la Parigi degli anni’20. Come è noto gli idoli anglofoni del tempo furono molti. Da Ezra  Pound a James Joyce si potrebbero via via citarne molti. Ad esempio Scott Fitzgerald e la moglie risiedettero in Europa dal 1924 al 1929. Dal canto suo Ernest Hemingway passò a Parigi interi periodi dal 1921 al 1928, dopo esservi arrivato per la prima volta, appunto nel mese di dicembre del 1921, con la moglie Hadley. Fu a Parigi che scrisse i suoi primi racconti, e fu anche a Parigi che, nei bar nella zona di Montparnasse, scrisse “Fiesta” (“Il Sole sorge ancora”) e iniziò la stesura di “Addio alle armi”. Sulla città, nella quale tornò trionfalmente nel 1944 mettendosi alla testa di un gruppo di partigiani, le sue testimonianze sono infinite, a cominciare da una frase rimasta famosa grazie alla quale egli inventò anche il titolo di un romanzo: ”Se hai avuto la fortuna di vivere a Parigi da giovane, dopo, ovunque tu passi il resto della tua vita, essa ti accompagna, perché Parigi è una festa mobile”.
Tornando al film non è qui il caso di rievocare il cammino del protagonista, Gil, che appunto a Parigi viene accompagnato ogni sera da una impeccabile automobile d’epoca (probabilmente una Hispano-Suiza) nella città e fra i suoi frequentatori proprio del suo passato più splendido. In particolare fra i miti, in parte anglosassoni, di quella Parigi (non solo gli Scott Fitzgerald ed Ernest Hemingway prima citati, ma anche Cole Porter, Josephine Baker, Man Ray, T.S.Eliot, l’inevitabile Gertrude Stein con Alice B. Toklas, oltre a Salvador Dalì, Pablo Picasso, Luis Buñuel, Henri Matisse, eccetera). Questa vena rievocativa, tipicamente americana, serve anche a riproporci uno dei risvolti del gusto personale di Woody Allen. Vorrei ricordare che noi, e la gente in genere, pensiamo ad Allen soprattutto come ad un attore filtrato dalla voce quasi altrettanto celebre di Oreste Lionello. Ma egli, in realtà, ha iniziato la carriera come gagman e come autore di sketch teatrali e televisivi, finendo poi col tradurre di persona i suoi scritti e, trascinato dal successo e dal talento, col proporli personalmente a doppio titolo come attore e come regista. Egli ha tante vocazione ed al tempo stesso una sola, che è poi quella di mettere in scena fiabe ora ingenue, ora esilaranti, ora feroci che divertano il trepido e malignetto fanciullino newyorkese rimasto dentro di lui nel corso degli anni. Si ricordi che Woody, è nato, come Allen Steward Konigsberg, nel 1935 ed ha pertanto 77 anni. Via via che si avvicina all’ottantina ,  e diventa sempre più fragile d'aspetto, si avverte visibilmente in lui il desiderio preminente di restare dietro la macchina da presa e di essere solo regista, probabilmente sia per sfogo creativo che per reggere meglio il terribile giuoco cinematografico consistente nell’ essere al tempo stesso autore e interprete di immagini. Giuoco logorante, sia dal punto di vista inventivo che da quello fisico: io ne so qualcosa come spettatore perché, a suo tempo, ho lavorato in qualità di modesto attore secondario in “Ladri di saponette” di Maurizio Nichetti ed ho visto Maurizio sopportare il duplice stress di dirigere e poi di entrare in scena, ed una volta terminata l’ una e l’ altra incombenza costringersi a giudicarle entrambe. In effetti gli ultimissimi film di Allen sono spesso soltanto opera di regia e sceneggiatura. Si pensi a “Melinda Melinda”, “Sogni e delitti”, “Vicky Cristina Barcelona”, “Basta che funzioni” ed a questo “Midnight in Paris” in cui il giuoco d’autore dell’invenzione è forse ancora più palese. Evidentemente egli tornerà ancora (lo fa quest’anno nel film realizzato a Roma) sotto l’occhio della macchina da presa, perché è qui che la gente lo preferisce, appunto come l’attore che ha creato un piccolo mito. Ma è certamente come solo regista che egli può abbandonarsi al libero fluire delle sue memorie letterarie di venti/trentenne newyorkese. Molte allusioni che ci sono in “Midnight in Paris” sono probabilmente difficili da cogliere per un europeo (e forse anche per un americano) di oggi. Si osservi il piccolo particolare  di un inquadratura in cui campeggia l’immagine di una libreria, “Shakespeare and Company”, che una libraia ed editrice famosa fra gli espatriati americani, Sylvia Beach, tenne aperta con successo a Parigi dalla fine degli anni’20 sino al 1941. Il nome e la libreria vennero riproposti  da altri espatriati americani, a partire dal  1964 e il locale è aperto ancora oggi. Non è un caso che la libreria sia stata mostrata non solo nel film di Allen ma anche in “Before Sunset - Prima del tramonto” di Richard Linklater nel 2004. 

In questo senso tutto il film è una patetica e toccante galoppata verso delle memorie che Woody Allen vorrebbe fossero veramente le sue. Forse per questo essa è ricca di strizzatine d’occhio allo spettatore,  come accade quando il protagonista propone a Luis Buñuel di realizzare un soggetto che  in realtà è l’inizio de “L’angelo sterminatore”, famoso film enigmatico il regista spagnolo che diresse poi veramente in Messico nel 1962. La cosa divertente è che Gil continua a dirgli che il film dovrebbe iniziare con un gruppo di personaggi i quali si trovano bloccati da una forza misteriosa in una casa e non riescono ad uscirne. Mentre Buñuel, dal canto suo, continua a dirgli che non comprende e chiede ripetutamente: “ma perché non possono uscire? Non capisco proprio”.
In un certo senso Woody si diverte e, in gran parte, anche noi…

BISCAGLINA NON ALLA BASCA MA ALLA GENOVESE

Minimo commento linguistico alla favolosa telefonata fra il Capitano di fregata De Falco e il Comandante Schettino della Costa Concordia.

L’incredibile ed esplosiva telefonata fra il Capitano di fregata Gregorio Maria De Falco della Capitaneria di porto di Livorno e l’ancor più incredibile Francesco Schettino Comandante della Concordia contiene  un minimo elemento linguistico che curiosamente mi indennizza, come genovese, in presenza di un avvenimento tragico che proprio Genova ha la sua capitale di armamento (anche se la proprietà della Costa Crociere è ormai americana e non più italiana). L’elemento a cui faccio cenno è la parola “biscaggina”, ripetutamente usata dal Comandante De Falco mentre rivolge a Schettino i suoi inutili rimproveri. Egli allude esplicitamente alla tipica scaletta di corda usata da moltissimi anni in marina, che è forse uno dei più antichi sistemi di locomozione verticale inventati dai navigatori. La cosa che mi ha colpito è che De Falco (credo sia campano come Schettino, il quale proviene da Meta di Sorrento, paesino, come Camogli, patria tradizionale di comandanti di mare) usa, come si è detto, la parola “biscaggina” che è la versione genovese dell’esatto nome italiano, e cioè “biscaglina”. La quale parola italiana denunzia l’evidente origine basca, come è esplicitamente indicato dal fondamentale “Grande Dizionario della Lingua italiana” del Battaglia. Che ne dà due significati: il primo, da me ricordato, di scala volante composta da due cavi di corda i quali sostengono due scalini orizzontali di legno, e quello di nave a vele quadre tipica dei marinai biscaglini. E precisa che prende origine dallo spagnolo “Viscaya”, cioè appunto Biscaglia, che ha poi echi francesi e provenzali (“biscaïen”, “biscain”, “biscayenne”, eccetera). Quello che dunque mi sembra interessante è l’uso che della parola genovese fa De Falco. Il quale sembra ignorare che la sua sia una versione dialettale, tanto evidentemente essa è entrata da secoli nell’uso marinaro, e che egli esplicitamente pronuncia all’italiana, poiché in genovese la pronuncia della “n” sarebbe tutta diversa e particolare.
E’ una minima soddisfazione all’interno di quella che io, in qualità di genovese, risento come una grande umiliazione. E, se vogliamo, come una riprova del vecchio detto che “la vita imita l’arte”. Non credo che vi sia uno sceneggiatore di film catastrofici il quale avrebbe il coraggio di inventare una telefonata come questa per un suo testo.
Nel “Corriere della Sera” di oggi il fondo di apertura sul tema è di Aldo Grasso, il quale giustamente rileva le caratteristiche di una telefonata che credo rimarrà nella storia della marineria. Vorrei muovere un minimo appunto ad una vecchia conoscenza come Aldo, il quale termina con la frase “Grazie capitano De Falco, il nostro Paese ha estremo bisogno di gente come lei”. Totalmente d’accordo con il senso della frase, mi permetto di far rilevare che probabilmente ad un ufficiale superiore di Marina da guerra (e quindi anche della Capitaneria di Porto) non ci si rivolge chiamandolo Capitano - l’elencazione burocratica dei gradi è generalmente sostituita, all’inglese, dalla parola “signore”- ma semplicemente Comandante.

12 gennaio 2012

"LA TALPA" VISTA DA NATALINO BRUZZONE

 Il Secolo XIX mi ha cortesemente dato il permesso di riprodurre il pezzo di Natalino Bruzzone sul recente film tratto dal romanzo di John Le Carrè. Faccio così per far piacere a molti appassionati che troveranno qui precisazioni e indicazioni decisive da parte di un grande specialista della "Spy Story".

Nel Secolo XIX di ieri 11/01/12 è apparso un bell’articolo del mio amico Natalino Bruzzone a proposito del film “Tinker Taylor Soldier Spy” tratto dal famoso romanzo di John Le Carré che in Italia, sia nel libro che in televisione o al cinema è stato, battezzato “La Talpa”. Poiché sono, come si dice, un “culture della materia”, il pezzo di Natalino mi è molto piaciuto. Al punto che ho fatto una cosa abbastanza inusuale per questo blog. E cioè ho chiesto al Secolo XIX il permesso di riprodurlo. Ho parlato con il vicedirettore Alessandro Cassinis il quale, con molta gentilezza e senso di colleganza, mi ha concesso di farlo. Con Natalino abbiamo vecchi trascorsi come fedeli lettori di Le Carré ed anche come sbigottiti testimoni oculari i quali assistettero a Courmayeur, in occasione del “Noir in Festival”, ad una clamorosa conferenza stampa del grande scrittore inglese il quale di fatto rinnegava quasi tutto il suo passato. Ho fatto cenno dell’avvenimento in questo stesso Blog in una nota in data 6 Settembre 2011 a cui rimando per ogni altra indicazione, compresa la citazione del libro che Natalino ha dedicato alla saga di Le Carré, e cioè “La quadratura del Circus”. Ricordando che in essa “Circus” è il gergo dato alla sede centrale del servizio dello spionaggio inglese conosciuto come MI6 (Military Intelligence 6). A Londra il Cambridge Circus è lì incrocio fra la Charing Cross Road con la Shaftesbury Avenue. Non sono tuttavia sicuro che in questo luogo ci sia mai stata una sede dei servizi inglesi.
Ecco dunque il pezzo di Natalino:

Uomini che odiano e amano altri uomini. Nell’esercizio di una professione da maschere e pugnali dove anche il burattinaio dei traditori ha uno pseudonimo femminile. Sono dei vampiri del sangue, della carne e dell’anima del potere. Così lo svedese Tomas Alfredson,  dopo i glaciali canini della ragazzina protagonista dell’ambizioso horror “Lasciami entrare”, rilegge in immagini un testo fondamentale della Guerra Fredda combattuta nella finzione, “La talpa”. In principio era il verbo leggendario dell’olimpo della spy story ovvero il romanzo di John le Carré, poi un serial televisivo con uno straordinario Alec Guinness e ora un film, da venerdì nelle sale, che vuole colpire al cuore i giurati degli Oscar. Come spesso accade quando i capitoli di un libro diventano sequenze si possono accendere più di una discussione  su libertà interpretative, fedeltà e travisamenti. Ma per non cadere nelle trappola di chi scambia, recriminando, il  pupazzo che accoglie i visitatori dei parchi Disney con il vero Topolino dei cartoni, è meglio tenere ben separate le due dimensioni. E il primo consiglio, seppur paradossale, da rivolgere ai lettori del thriller è di dimenticare le pagine di le Carré. Sarà una sofferenza ma è indispensabile, altrimenti si rischia di non apprezzare il lavoro di Alfredson su uno spartito che rimanda all’inizio degli Anni Settanta, quando non solo era ancora in corso il conflitto iniziato nel 1917 con la Rivoluzione d’Ottobre, ma dilaniava il ricordo della generazione perduta dei Kim Philby, i figli prediletti dell’establishment di Sua Maestà che erano passati, armi bagagli e informazioni letali, alla Santa Madre Rossa di Mosca.  Allora: dopo la disastrosa “Operazione Testimone” fallita nel sangue a Budapest e che avrebbe dovuto fornire a Control, il capo dell’Mi6 britannico, il nome della talpa impiantata dal Kgb di Karla tra i massimi dirigenti del Circus, denominazione delle centrale londinese d’intelligence, scatta una purga che insieme al direttore manda in pensione anticipata anche l’anziano George Smiley, un “rospo” con impermeabile e occhiali, angariato da una moglie bella e sfacciatamente adultera ma anche il più geniale dei cervelli che abbiano difeso il Regno. Ma il ritorno in patria di un supposto disertore convince ministro e sottosegretario che ci sia del marcio dove ora spadroneggia il pomposo Percy Alleline. Esiste e chi è l’infiltrato di Karla? E’ un’indagine che solo Smiley può condurre al capolinea sconfiggendo enigmi che si celano dentro altri enigmi.
Comprimendo in 127 minuti trame e sottotrame lecarriane, Alfredson ha imboccato il sentiero che sfronda , taglia e cambia: la sua stella cometa è l’allestimento di un’atmosfera paranoica all’interno di un nevrotico apparato burocratico dove per la sua macchina da presa più che il cappa e spada dello spionaggio contano i duelli tra i caratteri delle persone. Una fiera della vanità alla quale si oppone il quasi geometrico e risoluto muoversi di Smiley, il Convitato di Pietra che difende il senso della lealtà e della moralità. L’etica di Smiley comporta dolori e sacrifici, pietas e crudeltà, lacrime e vendette. Alfredson gioca con i suoi Tinker ,Tailor, Soldier, Spy, il titolo originale del romanzo e del film derivato da una cantilena infantile applicata da Control come etichetta in codice a ciascun sospetto, pedinandoli con carrellate a seguire e a scoprire nel rigore di uno stile che si ammenta di mistero e patologia anche sentimentale. Tanto per non equivocare: “La Talpa” di le Carré è un capolavoro assoluto, “La Talpa” di Alfredson no, ma possiede la gemma incastonata nel labirinto dell’inganno: l’interpretazione che Gary Oldman assesta a Smiley  è abbacinante, soggiogante, una di quelle prove d’attore che valgono una carriera intera. Il suo Smiley è impastato nella tempra dei Churchill, capace di trasformare una debolezza in virtù, minaccioso e ironico, quasi mefistofelico e che alla fine con compiacimento prenderà posto sulla poltrona di Control. Tutto il cast, con la prevalenza umorale di un grande John Hurt e il sottotono  di Colin First, è di eccellente livello. Ma ad Alfredson che rivolgeva sguardo e attenzione altrove sfugge il fatto che la “talpa” sia qualcosa di più di un assassino da arrestare e così l’opera risente della mancata incombenza del colpevole, surrogata, ma non basta, dall’incubo Karla.
Dato al cinema quello che è del cinema, il catecumeno e lo studioso di le Carré hanno molto di che lamentarsi. Per esempio: perché Peter Guillam, donnaiolo impenitente, diventa gay?; perché spunta alla fine un fucile di troppo?; perché la Cecoslovacchia è diventata l’Ungheria e perché l’agguato tra i tavolini di un bar e non in una foresta di notte?; perché inventare che gli americani hanno torturato e strappato le unghie a Karla?; perché un party natalizio, creato dagli sceneggiatori,  che dovrebbe dare la sensazione del Circus come circolo aziendale e si rivela unicamente grottesco? Potrei continuare ma preferisco ricordare, invece, in  positivo, il montacarichi dell’archivio dei dossier riservati che allude alla fondamentale  religione dell’investigazione cartacea praticata da Smiley. E per chiudere, di Alfredson lascia assai perplessi una dichiarazione: "Ora che c’è un po’ di distanza dal periodo della Guerra Fredda possiamo avere uno sguardo più obiettivo sugli eventi di allora: i cattivi erano davvero cattivi?". Come dire: forse Dracula era un donatore di sangue.
(Natalino Bruzzone)     

11 gennaio 2012

A DOMANDA RISPONDE

Scrivo qui alcune risposte riguardanti i post via via ricevuti dopo la pubblicazione degli ultimi quattro brani sul Blog: naturalmente parto a ritroso in ordine di data, iniziando dal più lontano per tornare man mano in avanti.

Inizio con i post ricevuti dopo la pubblicazione del brano “Documentari bellici di Claudio Costa” avvenuta il 26 novembre 2011.
Ringrazio la fedelissima corrispondente Rosellina Mariani che ha apprezzato la qualità dell’ opera documentaria di Costa e so che ha avuto successivamente la possibilità di conoscerlo, visto che entrambi risiedono a Roma. Ringrazio anche un altro fedele, PuroNanoVergine il quale mi segnalava la proiezione su Iris del film di Enzo Monteleone  “El Alamein - La linea del fuoco”. Visto che mi sembra che il cinema di guerra gli interessi riproduco qui, proprio per gli espliciti riferimenti ad Enzo Monteleone ed alla sua opera, un articolo sul tema che il Professore Giorgio Fedel, purtroppo subitamente scomparso poco tempo fa, ha avuto l’estrema cortesia, inaugurando la rubrica “Ghiribizzi”, di voler pubblicare sul numero di agosto 2011 della rivista quadrimestrale “Quaderni di Scienza Politica”. Essa ha sede presso il Dipartimento di Studi Politici e Sociali, Sezione di Scienza Politica dell’ Università di Pavia ed è l’organo del Centro Interuniversitario di Analisi di Simboli e delle Istituzioni Politiche (CASIP) “Mario Stoppino” (è una dizione un po’ lunga ma mi sono limitato a copiarla integralmente dalla rivista stessa). Ecco dunque il brano che mi auguro non sia troppo lungo:



- Fra il 14 e il 17 aprile 2011 ha avuto luogo nel Palazzo Ducale di Genova un’ampia  edizione de  "La Storia in Piazza” dedicata questo anno a “L’invenzione della Guerra”, durante la quale moltissimi convenuti, storici, filosofi, antropologi, hanno parlato di “come la guerra sia una chiave di lettura dei processi di modernizzazione, della costruzione dell’immaginario collettivo e della memoria pubblica”, giusto per ripetere le frasi dell’opuscolo introduttivo. Per i non genovesi ricordo che Palazzo Ducale è l’antica sede dei “Dogi” di Genova: intorno si apre la piazza centrale della città, Piazza De Ferrari. Da diversi anni l’edificio è stato completamente recuperato e riattato, con l’obbiettivo di riportarlo alla struttura di un tempo e nel giro di questi ultimi anni è diventato una delle sedi principali dell’attività museale e culturale della città. Almeno di quella ufficiale, visto che la manifestazione (la ritengo abbastanza costosa dato l’amplissimo numero di convenuti) è stata finanziata, mi è parso di capire, dal Comune di Genova e presumibilmente da altri enti pubblici. All’interno di quest’amplissima iniziativa ha avuto un piccolo spazio anche il cinema. Per l’organizzazione ci si è rivolti ad Antonella Sica e Cristiano Palozzi che da molti anni mandano avanti, sempre con meno aiuti ma con grande tenacia e capacità di invenzione, il Genova Film Festival, vale a dire la manifestazione specializzata più importante in Liguria. Poiché entrambi sono amici che mi vogliono bene mi hanno riservato, fra l’altro, mezz’ora di tempo per parlare di un mio recente libretto intitolato “Guerra in cento film” edito da Le Mani. La mezz’ora successiva era stata riservata ad un regista, Enzo Monteleone,  autore fra l’altro di ”El Alamein- La linea del fuoco”, il più recente dei diversi film centrati sulla tragica battaglia che dalla fine di ottobre e l’inizio di novembre 1942 vide l’Armata Italo-Tedesca di Rommel e Bastico schiantata e distrutta dalle forze armate inglesi in quegli avamposti del deserto egiziano che erano stati occupati con eccessivo ottimismo. Gli organizzatori hanno deciso all’ultimo momento di fondere il mio spazio con quello di Monteleone, dando vita ad un incontro di un’ora che, debbo ammettere, è stato salutato da un grande successo di pubblico. Va anche detto che nell’ora precedente è stato proiettato un commovente documentario girato dallo stesso Monteleone e centrato su alcuni superstiti della battaglia. Tutti inquadrati nella Divisione Pavia che, anche se se ne parla meno, è stata distrutta a El-Alamein come altre Divisione più note: la “Folgore”, L’”Ariete”, la “Trieste”, eccetera. La Divisione Pavia discende dalla brigata omonima costituita nel 1860 e che ha combattuto in tutte le guerre, da quella data sino alla Prima Guerra mondiale. Nell’ agosto 1939 diventa, con l’ordinamento binario, la 17° Divisione di Fanteria “Pavia”, sempre centrata sui due tradizionali Reggimenti di Fanteria, il 27° e il 28°, insieme al 26° Reggimento di Artiglieria ed ai diversi reparti di servizi collaterali. In Libia la Divisione venne dislocata nel 1940 prima sul confine Libico-Tunisino e poi nella zona ad ovest di Tripoli. Nel 1941 vi rimase sino all’aprile per essere poi trasferita, tra l’altro, nella zona di Tobruk, contenendo fra novembre e dicembre gli assalti inglesi. Successivamente venne spostata in diversi luoghi, fra cui alcuni spesso citati ora con la rivolta in Libia. Ad esempio Bengasi e Agedabia. Nel 1942 infine, dopo diversi spostamenti fra Tobruk, Bardia e Sollum, la “Pavia” fini con l’arrestarsi davanti ad El-Alamein. In ottobre e sino al 3 novembre la Divisione dovette arretrare verso la cosiddetta depressione di El Qattara. Qui le retroguardie, raggiunte dalle unità corazzate inglesi, furono annientate. Successivamente tutti gli altri reparti vennero accerchiati e sopraffatti. Il 25 novembre la Divisione, che in patria aveva sede a Ravenna, venne sciolta e non mi risulta che sia stata più ricostituita. Alcuni dei superstiti intervistati nel frattempo sono morti (i più giovani erano ultra ottantenni) e la loro testimonianza risulta al tempo stesso decisiva e terribile. Un esercito di reclute spedite con fucili modello ’91, fasce mollettiere, scarpe da tennis e pesantissimi caschi coloniali (quelli inglesi erano saggiamente leggerissimi) a morire nel deserto, con poco cibo scadente e pochissima acqua. Io mi sono commosso diverse volte nel vedere il documentario- credo sia allegato al DVD del film- anche perché la lucida consapevolezza dei protagonisti sulla terribilità della guerra si sposava anche ad una sorta rattenuta dignità: quei vecchi spesso ribadivano che non si erano mai arresi formalmente e che avevano cessato la resistenza quando non avevano più munizioni, viveri e rinforzi di fronte ad un nemico ricco e organizzato, splendidamente armato e rifornito di ogni ben di Dio, dalla frutta sciroppata ai liquori ed all’acqua che giungeva spesso in prima linea direttamente grazie a tubature (gli italiani, quando la ricevevano, dovevano accontentarsi di un liquido disgustoso contenuto nelle taniche inizialmente destinate alla benzina e alla nafta).
A parte il fatto che ho dovuto superare il giusto imbarazzo e l’amarezza di Monteleone perché il suo film non era stato menzionato nel mio libro (mi sembra poco probabile che ci sia una seconda edizione, ma in questo caso farò il possibile per ovviare alla mancanza) dalle immagini e dalle nostre parole è balzato fuori ancora una volta il problema di fondo del cinema di guerra. E cioè la sostanziale impossibilità di ricreare nei volti degli attori – i protagonisti come le comparse – quel gelido sapore di paura che la guerra crea nel volto e negli occhi di chi deve sopportarla. So di cosa parlo perché, pure essendo nato nel 1929 (ero bambino all’inizio del conflitto ed entravo nell’adolescenza alla sua fine) ricordo lucidamente quel che si vedeva nei visi delle persone che mi stavano intorno durante i bombardamenti. Sia quelli aerei, che furono così intensi negli ultimi tempi del conflitto, sia quello navale del 9 febbraio 1941, quando la flotta inglese sparò almeno per tre quarti d’ora bordate su bordate di grossi calibri contro la mia città, Genova, totalmente incapace di difendersi (casa mia, nel centro della città, venne tagliata come una torta da un 305). Il paradosso dei film centrati sulla guerra, o che della guerra in qualche modo risentono, è tutto qui. Ed è straordinario il talento di alcuni grandi registi (a volte famosi, a volte dimenticati o per sempre sconosciuti) nel ritrovare nelle inquadrature almeno il sapore lontano di quella paura, così come dello sconvolgimento creato in un medio essere umano dalla necessità di uccidere (o di essere uccisi).
Varrà la pena di fare qualche titolo. Rimanendo nel discutibile ambito dei cento film citati nel mio libretto (per motivi di spazio ho rinunciato alla grande eredità del cinema muto, a tutti i film ambientati prima della Grande Guerra ed ho dedicato al massimo una scheda di film ad un regista, eventualmente evocando altre opere nel testo) vorrei menzionare alcuni dei titoli che mi sono più cari. Prima di tutto il film che in assoluto prediligo al mondo e cioè “La Grande illusione” (1937) di Jean Renoir, ove con mano magistrale sono disegnate le ascisse e le ordinate del modo in cui la guerra esplode. E cioè, nel momento stesso in cui i protagonisti cadono prigionieri, vengono alla luce, da un lato, la fraternità che si instaura fra i combattenti, e dall’altro, la sopravvivenza decisiva dei legami di educazione, di situazione sociale e di casta i quali si intrecciano fra nemici che sono molto più simili tra loro di quanto non lo siano con i camerati di combattimento. La silenziosa amicizia che nasce fra il patrizio tedesco  Erich von Stroheim e quello francese Pierre Fresnay (il primo sarà costretto ad uccidere il secondo) implica una secolare affinità che supera ogni senso patriottico di appartenenza. Ancora qualche titolo: “All’ovest niente di nuovo” di  Levis Milestone (1930), “Alfa Tau!” di Francesco De Robertis (1942) e dello stesso anno “Eroi del mare” di Noel Coward e David Lean, “Casablanca” di Michael Curtiz (1943), “Prigionieri dell’oceano” di Alfred Hitchcock (1944), “I sacrificati di Bataan” di John Ford (1945), “Paisà” di Roberto Rossellini (1946), “Bastogne” di William A. Welman e “Cielo di  Fuoco” di Henry King (entrambi del 1949), “Mare crudele” di Charles Frend (1953), “I ponti di Toko-Ri” di Mark Robson (1954), “Un condannato a morte è fuggito” di Robert Bresson (1956) “I dannati di Varsavia” di Andrzej Wajda  “Duello nell’Atlantico” di Dick Powell (entrambi del 1957) tempo di vivere di Douglas Sirk (1958), “La Grande Guerra” di Mario Monicelli (1959), “Tutti a Casa” di Luigi Comencini (1960) “317° Battaglione d’assalto” di Pierre Schoendoerffer, “L’Armata degli eroi” di Jean-Pierre Melville (1969), “Cognome e nome: Lacombe Lucien” di Louis Malle (1974), “Apocalipse Now” di Francis Ford Coppola (1979), “U-Boot” di Wolfgang Petersen (1981), “Anni ‘40” di John Boorman (1987), “Salvate il soldato Ryan” di Steven Spielberg (1998), “The Hurt Locker” di Kathryn Bigelow (2008).
E’ un elenco lungo, e spero non troppo fastidioso, ma è anche al tempo stesso un elenco breve perché mancano forse altrettanti film. E non è detto che in quelli che ho citato il fondamentale senso di paura a cui ho fatto allusione in precedenza sia sempre sensibile e consapevole. Ma probabilmente in tutte queste opere si avverte almeno un brivido di quel misterioso enigma, di quella forzata e infinità crudeltà, di quella disciplinata mostruosità che resta la guerra.-

Veniamo adesso ai post pervenuti dopo la pubblicazione di “Solo la Parigi del passato funziona nell’ Europa del presente” (3 dicembre 2011) riguardante il film di Woody Allen “Paris in Midnight”(faccio presente che sul film stesso ho intenzione di ritornare fra breve con un brano che esamini la parte temporalmente più vicina a noi della sua opera di regista). Anche qui un ringraziamento a Rosellina Mariani, un altro a Anonimo che mi auguro nel frattempo abbia avuto occasione di vedere il film, ed a Ivana. È vero quel che scrive rilevando la consapevolezza “per cui è illusione pensare che saremmo più felici, più appagati, più soddisfatti se potessimo vivere in un’altra epoca”. Credo che tutti, in tutte le generazioni, abbiano la tentazione di cedere a suggestioni del genere (per esempio a me sarebbe piaciuto vivere nella Torino di metà dell’Ottocento, con Cavour Presidente del Consiglio; è vero che non avrei trovato dentisti come quelli di oggi, tute comode come quelle di oggi e taxi rapidi come quelli di oggi). Appunto come dice Ivana “è il presente che ci angoscia” (e non parliamo del presente di questi ultimi mesi che è particolarmente terrorizzante).

A proposito del “Mito dell’allenatore” (16 dicembre 2011) ringrazio Enrico per le citazioni riguardanti Cosmi, Chiappella, Pugliese, Sacchi (“il mellifluo”) e Scopigno (detto misteriosamente “il filosofo”). Su Nereo Rocco esiste in effetti un’ ampia letteratura che qui non si può rievocare. In fatto di seduzioni linguistiche ho notato che sono soprattutto i giornalisti meridionali a compiacersi di chiamarlo “El Paròn”.

La “Duplice moviola telefonica” ha provocato due interventi. Ringrazio Anonimo (M.S.) e rilevo che PuroNanoVergine ha ancora una volta ribadito la sua infallibilità facendomi rilevare che un autore da me menzionato si chiama Claudio Bartolini e non Bartoli. PuroNanoVergine si è anche accorto che scrivo su “FilmTv”. Per l’ esattezza vi tengo una piccola rubrica rievocativa, intitolata  “Salvate la tigre”, che appare ogni primo martedì del mese.

Il brano “I necrologi e la vita” ha provocato quattro post. In uno “pc”(so chi è) ha scritto allegramente che “ovunque sia la Marchesa legge questo Blog e sorride”. Dal canto suo Rosellina mi dice che l’ articolo l’ha aperta al sorriso…del che mi compiaccio. Strepitosa la rievocazione di Enrico che cita la suocera la quale, iniziando la lettura del quotidiano dai necrologi, esclamava ogni volta: “anche oggi io non ci sono!”. A proposito degli Incisa della Rocchetta e degli Incisa di Camerana ritengo che queste due vecchie famiglie aleramiche abbiano uno stipite comune, anche se non so indicarglielo con sicurezza. Incisa di Camerana ne ho conosciuto ben due, che curiosamente non erano in contatto fra di loro e non si conoscevano. Uno era un importante esercente di cinema sia a Milano che a Genova (professione un tempo particolarmente redditizia). L’altro era il mio amico Vincenzo (suo fratello Bonifazio fu anche Capo di Stato Maggiore dell’ Esercito Italiano”) il quale nella Rai di Bernabei ricopriva un incarico delicatissimo. A capo di quel che si chiamava il “Servizio programmi” era di fatto incaricato di una discreta e non invadente censura appunto sui programmi destinati alla imminente messa in onda. Morì in automobile durante un viaggio di servizio. Anche sua moglie apparteneva ad una nobile famiglia piemontese, gli Accusani di Ritorto. Il Carlo Incisa di Camerana, che lavora alla Sezione Grafici del Tg3 credo sia loro figlio.