Blog - Crediti


L'audio e i video © del Blog sono realizzati, curati e perfezionati da Lorenzo Doretti, che ha anche progettato l'intera collocazione.
L'aggiornamento è stato curato puntualmente in passato da diverse collaboratrici ed attualmente, con la stessa puntualità e competenza, se ne occupano Laura M. Sparacello ed Elisa Sori.

31 agosto 2010

COMMOZIONE PER FORD E SPENCER TRACY


L’altro giorno davo un’occhiata distratta, come spesso accade, a Sky, e di colpo vidi materializzarsi le immagini di un film che ho molto amato, “L’ultimo urrà” di John Ford. In America entrò nel circuito nel novembre del 1958, in Italia forse l’anno dopo. In ogni caso ho fatto a tempo a recensirlo (ero da poco tempo il critico cinematografico del “Corriere Mercantile”, dove sono poi rimasto sino all’inizio degli anni ’80) e a rimanerne affascinato. Non so quanti se lo ricordino. Personalmente lo ritengo una dei risultati più toccanti di uno dei più grandi registi della storia del cinema (1895 / 1973), Appunto John Ford, che per decenni ha arricchito di capolavori il cinema americano, per il quale ha fatto così tanto da restarne un simbolo ed un’immagine incancellabili. Per mezzo secolo egli contribuì in modo decisivo a fare del cinema una componente insostituibile della cultura del suo paese. Si può immaginare il mio dolore, essendomi imposto, nello scrivere il mio libretto “Guerra in 100 film”, la regola di “non” utilizzare film ambientati prima del XX secolo, nel dover rinunciare a dei capolavori assoluti come “Il massacro di Fort Apache” (1948) e “Cavalieri del nord ovest” (1949). Ove Ford riesce ad elevare un piccolo monumento alle tradizioni, alle ostentazioni ed alle compiaciute manie dell’Arma di cavalleria, tipiche dell’Europa ma avvertibili anche nelle più democratiche forze amate americane. Non è qui il caso di ribadire gli estremi di una fedeltà che riassume tutta la mia esistenza e per la quale ebbi amici e sodali di grande valore. Mi ricordo Tullio Kezich che nella Venezia degli anni ’60 mi diceva: “a casa ho un grande armadio, e tutto quello che trovo su Ford lo butto lì dentro”. Ed eravamo in molti che avrebbero voluto possedere un armadio come il suo. E’ chiaro che qui non posso ricapitolare i termini di un affetto larghissimamente articolato che riguarda titoli apparentemente assai differenti fra di loro, i quali affondano le radici nell’humus di cui è fatta l’America. Mi limiterò a tornare a parlare de “L’ultimo urrà”, opera decisiva nella filmografia dell’autore, ma poco ricordata, e forse anche poco apprezzata, in Italia. Ricordo che è tratto da un libro omonimo di Edwin O’Connor che noi non conosciamo per nulla, ma che evidentemente in America ha avuto un suo periodo di notorietà. Nato a Providence, nel Rhode Island, il 29 luglio del 1918, morì di emorragia cerebrale il 23 marzo 1968. Nel corso di una vita relativamente breve, fu protagonista di rubriche radiofoniche, giornalista e romanziere. Vinse anche un Premio Pulitzer per la “fiction”. Nella sua opera si occupò spesso dell’ambiente da cui lui stesso proveniva, e cioè degli americani di origine irlandese. E scrisse appunto questo “Ultimo urrà”, da cui lo splendido film di Ford (il romanzo è dello stesso anno del film), in qualche modo ispirandosi ad un personaggio realmente esistente, e cioè James Michael Curley (20 novembre 1874 – 12 novembre 1958) che fu quattro volte sindaco di Boston (dal 1914 al 1918, dal 1922 al 1926, dal 1930 al 1934 e dal 1946 al 1950) ed anche il 53° governatore del Massachusetts. Inoltre nel 1902 e nel 1903 fu membro della “House of Representatives” del suo stato. E, cosa più importante, fu almeno due volte rappresentante del Massachusetts al Congresso di Washington e, per anni, il naturale delegato della comunità irlandese-americana che nel corso dei decenni aveva mutato le caratteristiche “wasp” dei vecchi abitanti di Boston, facendo diventare i “papisti” il gruppo etnico più importante della città. Ancora oggi gli irlandesi rappresentano più del 20% del totale degli abitanti del Massachusetts, percentuale che, sommandosi al 14% degli italoamericani ed all’8% degli ispanici, fa dei (teoricamente) cattolici più del 40% del totale. Si ricordi che inizialmente il Massachusetts era uno Stato a carattere prevalentemente protestante e, in una città come Boston, dominata dalle antiche famiglie dei primi immigrati, erano palesi le stesse caratteristiche. Curley fu probabilmente il rappresentante più significativo dello sconvolgimento etnico e religioso conosciuto dalla città, che consentì appunto a tanti oriundi irlandesi di acquistare peso politico e finanziario (accadde con i Fitzgerald e con i loro parenti Kennedy, che non a caso fornirono agli Stati Uniti il primo, e per ora unico, presidente cattolico della nazione).
Si vede di qui quanto fu importante la presenza di Curley (finì anche in prigione per cinque mesi, ma poi fu “pardoned” dal presidente Truman, premuto dalla delegazione parlamentare del Massachusetts), il quale seppe per anni accontentare i suoi elettori con favori d’ogni genere, credo in qualche caso oltre i limiti del codice. Il romanzo di O’Connor ne disegna, chiamandolo Frank Skeffington, un ritratto forse un poco addolcito ma in certo modo esplicito per quel che riguarda le caratteristiche di base del personaggio. Non stupisce quindi che John Ford (molto sensibile alle sue origini irlandesi, basti pensare a “Un uomo tranquillo” del 1952) abbia attinto al testo. E lo abbia fatto sceneggiare da Frank S. Nugent, rispettato “script doctor” nel mondo del cinema: ha avuto una nomination per gli Oscar, ha vinto due volte il premio della WGA, Writers Guild of America, e per lo stesso premio ebbe anche due nominations. In particolare autore di fiducia del regista, tant’è vero che dei ventun film da lui sceneggiati fra il 1948 e il 1965, ben undici sono diretti da Ford, e mi limiterò a ricordare “La nave matta di Mister Roberts”, “Cavalcarono insieme”, il fondamentale “Sentieri selvaggi”, oltre a titoli già citati per motivi diversi (“Il massacro di Fort Apache”, “I cavalieri del nord ovest” e “Un uomo tranquillo”). Come si vede un interprete di talento del mondo fordiano. E lo si vede assai bene qui, dove il traliccio del racconto offre al regista un meccanismo straordinario per rievocare un frammento di quell’America provinciale ed “etnica” che fu uno dei suoi cavalli di battaglia. E poi, ovviamente, c’è un’altra cosa. E cioè quella forza della natura rappresentata da Spencer Tracy. In cui ritrovo la profonda fascinazione che su tutta la generazione a cui appartengo esercitò il grande divismo americano (dev’essere un problema mio di età, perché non avverto nulla di simile per gli attori del giorno d’oggi). Tracy – nome e cognome erano suoi, il secondo nome era Bonaventure – riuscì a dar vita ad una carriera assolutamente affascinante, pur invecchiando precocemente e morendo (il 10 giugno 1967) a soli 67 anni: nel corso di 37 anni lavorò in 78 film nella maggioranza dei quali ebbe parti di rilievo se non da protagonista. Tracy fece in tempo ad essere un attor giovane, un uomo di mezza età ed un vecchio, riuscendo in ognuna di queste apparizioni (inizialmente fu attivo anche in teatro) a lasciare una traccia decisiva nella storia del cinema americano. Fu successivamente “l’interprete ideale di giovani onesti e grintosi, pronti a rimboccarsi le maniche per sbarcare il lunario nell’America della Depressione” (Francesco Costa). Ma fece in tempo anche ad essere un sacerdote contrapposto a Clark Gable in “San Francisco” e via via ad allineare una serie di personaggi (il direttore di un giornale scandalistico, un coraggioso pescatore portoghese, il torbido eroe di “Dottor Jekyll e Mr. Hyde”, eccetera) senza contare la sua determinante presenza a fianco di un’attrice determinante come Katharine Hepburn. Che recitò al suo fianco una parte decisiva. Per molti anni fu la sua compagna affezionata (Tracy era sposato ma per motivi religiosi non volle mai divorziare, anche se la moglie non era cattolica come lui, ma Episcopale) e al tempo stesso la sua inarrivabile collega di lavoro. La coppia dette vita ad un inarrivabile prodigio di umorismo e di abile tristezza, in una serie di film che fanno parte di una delle più godibili pinacoteche del cinema americano. E che trovò, dopo decine d’anni di straordinari incontri, la sua crepuscolare conclusione nell’affascinante duetto che è alla base di “Indovina chi viene a cena” (curiosamente il personaggio “liberal” tocca a Tracy, che in realtà fu un cattolico conservatore, mentre nella vita reale fu Katharine il personaggio politicamente più avanzato). Non voglio aver l’aria di scoprire qui Spencer Tracy e la sua mostruosa sottigliezza di recitazione (in “Indovina chi viene a cena” fu doppiato dal grande Corrado Gaipa e non v’è dubbio che da questa estrema accoppiata si sprigioni un sapore di tristezza) ma è certo che egli fu mille personaggi diversi ed in ognuno di essi acquistò una coloritura particolare e in certo modo insuperabile: si ricordi che il doppiaggio ci toglie il gusto di udire la sua voce, ampiamente celebrata nelle cronache americane. Ne ”L’ultimo urrà” il suo sindaco Frank Skeffington è un miracolo di composizione: nel personaggio si alternano la paesana astuzia irlandese, la furbizia “papista”, la sapiente indulgenza politica filtrata dalla convivenza proletaria, l’uso spietato ma sorridente delle infinite possibilità offerte all’umana sagacia dal sistema politico della periferia americana ed intorno a lui Ford riesce a creare una strepitosa antologia di scaltre convenzioni narrative: si vedano gli uomini di fiducia del sindaco ed i suoi nemici, di politica e di classe, che sono i classici “bramini” bostoniani. Vale a dire la classe politica aristocratica e protestante che risale ai Padri Pellegrini e che fu costretta a vedere il suo mondo sconvolto dalla fastidiosa immigrazione cattolica degli irlandesi e degli italiani. Fu dei “bramini” che si disse una frase famosa, e cioè che i Lowell parlavano solo con i Cabot e i Cabot solo con Dio. Nell’originale è una poesia di J.C. Bossidy, che dice letteralmente: ”And this is good old Boston, The home of the bean and the cod, Where the Lowells talk to the Cabots, And the Cabots talk only to God".
Guardate la faccia di Spencer Tracy mentre si confronta con i suoi nemici “bramini” (c’è anche un vescovo protestante che in fondo gli vuol bene) e capirete che cos’è il volto di un grande attore.


30 agosto 2010

POSTA DOC RECENTISSIMA
Don Siegel con Clint Eastwood



Innanzi tutto un cordialissimo saluto.Mi presento, ho 44 anni, ligure (Rapallo), introdotto alla passione per il cinema da una mamma che mi ha sempre lasciato guardare i film in televisione anche quando avevo meno di 13 anni.Ricordo bene i cicli da lei organizzati sulla RAI e anche le sue schede di presentazione.Ricordo in particolare il ciclo su Don Siegel e quello su Peter Watkins.Vorrei sapere se sono mai usciti in Italia su VHS, o meglio su DVD, le versioni italiane dei suoi film.Il ciclo da lei curato lo avevo seguito per intero ma ho memoria solo di "Privilege" e de " L'ultimo degli Stuart".Le sarei molto grato di una risposta, le auguro tutto il bene possibile.P.S. grazie a Internet ho finalmente scoperto per che cosa è la "G"; mi pare di ricordare una vecchia trasmissione TV in cui questa incognita attanagliava Daniele Formica.

Massimo Massa





Come promesso rispondo al suo e-mail di giovedì 19 agosto. La ringrazio delle informazioni che mi dà e del ricordo che lei ha dei cicli di film da me allestiti. Per molti anni, essendo io capo struttura, decidevo se farli o non farli, e pertanto li accumulavo con ritmo vertiginoso. Tuttavia devo fare una smentita. Sicuramente, anche se non me ne ricordo, avrò portato a termine un ciclo su Don Siegel, regista che mi fu sempre carissimo. Invece non c’entro niente con quello su Peter Watkins. Per fortuna, alla voce “L’ultimo degli Stuart – La battaglia di Culloden”, il Morandini, che scrive a lungo del film, ricorda che venne trasmesso dalla RAI il 14/1/69, nel ciclo “I giorni della storia”. Poiché sono stato assunto alla RAI nei primi mesi del 1970 non posso essere stato io ad aver curato il ciclo. Mi chiedo chi possa averlo fatto. Forse Pietro Pintus o Vieri Razzini o Francesco Savio o Gian Luigi Rondi. Cito a caso qualche nome di colleghi che già allora lavoravano alla RAI, come Pintus, o per la RAI, come gli altri tre, e che potrebbero essersi occupati di Peter Watkins. Sono ipotesi e non c’è niente di sicuro. Non posso dirle nulla sulla presenza in cassetta o in DVD dei film da lei citati. Come dicevo i cicli da me curati sono così ampi e numerosi che ho perso il conto. Cerchi di controllare qualche elenco specializzato di DVD trovabili. Diverse riviste di cinema se ne occupano sistematicamente. E’ esatto che la “G” è l’iniziale di Giorgio, ed in effetti fu Daniele Formica ad inventare il “tormentone” centrato sul mio secondo nome.
Da molti anni io tengo sulla rivista Film DOC una rubrica di corrispondenza con i lettori, intitolata “La posta di DOC Holliday”. Salvo suo parere contrario avrei l’intenzione di utilizzare la sua lettera e la mia risposta all’interno della rubrica in questione, per la quale, nei prossimi giorni, debbo fornire il materiale.



Claudio G. Fava

26 agosto 2010


CAVOUR VISTO DAL SUD


Ricordo qui che, in seguito ad un mio intervento riguardante un articolo di fondo di Ernesto Galli della Loggia, a proposito di Cavour, avevo scritto un brano, pubblicato nel blog, a cui hanno fatto seguito altri interventi. Fra cui uno, teoricamente “neoborbonico” a firma del dottor Napolano, cardiologo di Napoli, indirizzatomi sul mio e-mail. Ho ottenuto dal dott. Napolano l’autorizzazione a riportarne il testo, garbatissimo e appassionato, nel blog. Pertanto riprendo qui il materiale che prende le mosse dall’articolo di Galli della Loggia, proponendo quindi la lettera del dott. Napolano che mi sembra ricca di conclusioni giudiziose (su altre più apertamente “indipendentiste” mi riservo di tornare più in là). Intanto ecco riferimenti:

in data 10 agosto ho pubblicato “Cavour era italiano?”, seguito da “La mia fedeltà a Cavour” in data 20 agosto.Qui di seguito pubblico, come da autorizzazione, la lettera del dott. Napolano.



Egregio Dottore,
mi permetta di presentarmi, dato che mi ha citato in un suo intervento, reputo opportuno che mi conosca. Sono un cardiologo lavoro in una azienda sanitaria della provincia di Napoli, e molto attento all’attuale fase politica che vede avanzare il federalismo.
Sono molto favorevole al federalismo e vorrei che fosse quanto più duro possibile, poiché esso potrà permettere a noi del Sud di fare i conti con noi stessi, una volta per tutte.
Non possiamo ancora illuderci che ci sia qualcuno che venga a risolverci i problemi con una bacchetta magica, pronta ad elargire soldi senza alcun limite.
Questa è stata sempre la speranza e l’obiettivo di tanti amministratori dei nostri comuni, province e regioni. Questa è stata la causa di tanto sperpero di denaro pubblico. Questa è la causa del malgoverno oggi esistente. Tutto ciò si è realizzato maggiormente durante la prima Repubblica oggi le cose dovrebbero cambiare, ma ancora ci si lamenta contro i cattivi della Lega, senza minimamente riflettere, di cosa quel movimento porta alla loro gente, cosa che qui non è assolutamente possibile, in quanto vige ancora una mentalità feudale. Nelle Regioni del Sud il rapporto con la politica è di tipo patologico, di tipo servile e prettamente personalizzato.
Mi spiego meglio: il rapporto con la politica nelle classi più agiate, quelle più colte, quelle che dovrebbero essere da stimolo affinché vi possano essere uomini e donne capaci di amministrare nell’interesse non dico della collettività, ma almeno di quella parte più importante della società che con il loro lavoro e le loro attività danno spinta e forza ad iniziative capaci di produrre ricchezza e lavoro, da noi non esistono, esse sono solo autoreferenziali e servili, ieri con Bassolino, domani con Caldoro. Il loro ragionamento è: a noi non interessa se il politico di turno è capace, onesto e laborioso, quello che importa è che risponda alle nostre esigenze personali o di lobby, se ci accordiamo, i nostri voti sono i suoi! Di conseguenza anche nelle classi meno ambienti il rapporto con la politica è similare.
Infatti se lei frequenta qualche segreteria politica, vedrà tanti questuanti, ma mai coloro che con spirito libero chiedessero conto, perché Napoli è sporca, perché non vi sono vigili urbani per strada, perché nessuno rispetta le regole più elementari per un convivere civile, perché non vi è lavoro, ne una possibile speranza di rilancio effettivo dell’economia, ecc.
Da ciò, ho esaminato il percorso storico della mia città Napoli, che 150 anni fa era una capitale europea, che aveva una sua collocazione tra le nazione del vecchio continente ed improvvisamente tutto ciò si dissolve.
Finisce non solo Napoli come capitale, ma una intera nazione svanisce nel nulla più assoluto, come se improvvisamente, un giovane viene strappato alla sua famiglia e portato in un altro paese e gli si dice tu sei un trovatello, non hai mai avuto una famiglia, sei un piccolo delinquente, per cui da oggi avrai una nuova famiglia che ti accoglierà e questo ti darà diritto a poter campare, mangiare e basta!
Non avrai diritto a studiare, se non poche cose, non avrai diritto a chiedere cose che noi non vogliamo che tu conosca, ecc.
Quando nel lontano 1972, fui interrogato in storia alla maturità classica, il discorso cadde su Garibaldi ed io senza pensarci su due volte lo definii un avventuriero e conquistatore, può immaginare le facce dei professori del tempo ed il voto avuto. Il membro interno della commissione, dopo essere uscito dall’aula, mi richiamò fortemente, poiché dovette sudare sette camice per farmi promuovere. Nessuno dei commissari poteva passarci su, per aver infangato la memoria di Garibaldi.
Da cosa nasceva questa mia affermazione e convinzione?
Dal conoscere la mia città!
Nelle domeniche libere, prima della maturità, facevo il turista tra i vicoli di Napoli e scoprivo giorno per giorno una realtà che sui libri di storia scolastici non vi era traccia.
Napoli era stata una grande capitale europea, in questa città, si erano svolti conclavi, incontri tra imperatori, prese decisioni sui destini di vari ed importanti paesi europei, Napoli era visitata dai più illustri uomini di cultura d’Europa.
Come era possibile che di tutto ciò sui libri di scuola non vi era traccia?
Da qui la mia ricerca, fino ad arrivare ai nostri giorni, ed avvicinarmi e condividere la battaglia che molte associazioni di ricerca storica stanno portando avanti, quella di far venire fuori dall’oblio la vera storia del Sud, quella dello Stato delle Due Sicilie, che ci è stata letteralmente e scientificamente sradicata e occultata, in modo che nessuno potesse un giorno ribellarsi ad una unità italiana imposta per motivi tutt’altro che fraterni.
Dal mio punto di vista la conquista della mia Nazione fu dovuta a due motivi
1) – la questione degli zolfi siciliani, dove Ferdinando II di Borbone, anche se per un legittimo interesse nazionale, decise di offrire alla Francia la gestione delle miniere, perchè più remunerativo, non considerò la potenza dell’Inghilterra, che per due buone ragioni non doveva inimicarsela: a) l’Inghilterra aveva protetto i Borbone dal momento della conquista del Regno da parte dei francesi, fino alla sua riconquista con il cardinale Ruffo; b) l’Inghilterra era la vera superpotenza dell’epoca e non la si poteva sfidare impunemente (Stati Uniti docet!), quindi la questi zolfi, che erano il petrolio di oggi, andava risolta con la forza, per cui Ferdinando dovette tornare sui suoi passi e ridare le miniere agli inglesi i quali non dimentichi di ciò, decisero che questa nazione era poco affidabile per la loro politica imperialista, quindi andava eliminata!
2) – la questione del potere temporale dei Papi di Roma, che in alcuni ambienti europei, particolarmente quelli massonici, si era più che mai convinti di doverlo abbattere, per realizzare tale impresa bisognava neutralizzare lo Stato delle Due Sicilie, fedele e stretto alleato del Papa.
Ora il problema storico è importante solo ai fini di un riscatto del nostro Sud, per fare in modo che dalla conoscenza della nostra storia si possa mettere in moto un risveglio dell’orgoglio di appartenere.
Noi non abbiamo amor proprio e della nostra terra, in 150 anni dall’annessione al Piemonte, questi sono i risultati: ci hanno cancellato la memoria storica, le nostre sane tradizioni, la nostra grande cultura, hanno fatto in modo che la parte peggiore della nostra società emergesse, che la illegalità trionfasse, che ognuno di noi, dico ognuno di noi, consideri le leggi un fatto coercitivo e non il sistema regolatore per la convivenza civile. Un quotidiano cittadino giorni fa, a firma di Francesco Cormino, suggeriva che con il federalismo, la scuola del nostro Sud ha l’occasione di modulare i propri programmi sulle vere esigenze dei nostri giovani, poiché credo, solo modificando con la scuola, il modo di pensare e di essere delle nuove generazioni, abbiamo l’opportunità di far rinascere il nuovo cittadino napoletano.
Tutti i giorni, più di una volta, vedo i nostri concittadini fare i furbetti per le cose più banali, passare con il semaforo rosso, andare nei sensi vietati, parcheggiare dove uno vuole, ricordo che il famoso sindaco di New York, Giuliani, recuperò Harlem imponendo il rispetto delle regole più elementari, appunto, quelle stradali. Ma ci rendiamo conto che le nostre strade e di conseguenza la città tutta è una giungla senza legge, dove ognuno fa quello che vuole. Questo è lo specchio della nostra società! E non vi è amministratore che vi ponga rimedio.
Cordiali saluti

Stanislao Napolano



Complessivamente l’argomento risulta di largo interesse. Mi sembra che sfiori un tema fondamentale per quello che riguarda l’Italia di oggi e di ieri. Tornerò sull’argomento. Vorrei fare una precisazione, in modo nè polemico nè arrogante. Riguarda i risvolti avventurosi e culturali della mia adolescenza. Se c’è qualcosa di cui sono nostalgico è una situazione che non ho assolutamente conosciuto, e che pertanto posso solamente immaginare. E cioè il vecchio Regno di Sardegna, intendo dire quello di una volta, con la Liguria, la Sardegna, Nizza e la Savoia. Un piccolo stato, che certamente non avrebbe partecipato alla Prima Guerra Mondiale, risparmiando centinaia di migliaia di vite umane, e nel quale si poteva parlare francese senza essere giudicati degli snob (a Roma, dove ho vissuto per un quarto di secolo, accade proprio così). Torniamo al presente, in attesa di lettere e osservazioni. Ricordo che il mio e-mail è il seguente: claudio.g.fava@village.it .


Al lavoro!


Claudio G. Fava

25 agosto 2010

LA POSTA DI DOC HOLLIDAY (26)

A TUTTI. Dall’ultimo numero di “Filmdoc” mi si è accumulata nella cartella un numero notevole di lettere “inevase” (come si diceva nel gergo burocratico di un tempo, e forse anche in quello carcerario).
Cerco adesso di evaderle (!!). Più o meno nell’ordine di giacenza. E riducendo al minimo domanda e risposta così da sistemare il ”pregresso” (vedi gergo).



VITALIANO DARELLI mi aveva chiesto notizia del’”angelico giovinetto” di “Morte a Venezia” di Visconti. E’ svedese, si chiama Bjørn Andresen, è nato a Stoccolma il 26 gennaio 1955. “Morte a Venezia”era il suo secondo film, da allora ha lavorato una quindicina di volte fra cinema e TV. In Internet ho trovato suo risentite confidenze: dice non essere per niente omosessuale – è sposato ed ha avuto due figli - ma che l’esperienza è stata per più versi sgradevole: “Avevo solo 16 anni e Visconti e il suo team mi condussero in un locale gay e mi trovai molto a disagio” E continua su questo tono per diverse righe.
Sandro PASTORINO voleva sapere chi è il regista di “Ho incontrato anche zingari felici”, del 1967. E’ Aleksandar Petrovic, serbo, ovviamente allora jugoslavo, nato (1932) e morto (1994) a Parigi ma svoltosi preferibilmente in patria. In effetti fu uno dei noti autori jugoslavi del periodo ’60-’70. Gli “Zingari” gli valsero il Gran Premio a Cannes. Un altro suo film abbastanza conosciuto fu “Il maestro e Margherita” (1972) con Ugo Tognazzi e Mimsy Farmer. Considerato all’epoca in Jugoslavia molto importante, fu autore di libri di cinema ed insegnante all’Accademia di Arte Dammatica di Belgrado. Di fatto, per quanto mi risulta, è ormai praticamente dimenticato.
Dino CROVETTO. Vuol sapere chi era Nerone nel “Quo vadis” della RAI del 1985. Si tratta dell’eccellente Klaus Maria Brandauer. Il regista era Franco Rossi, autore di cinema forse ingiustamente dimenticato. Nel cast molti altri noti attori, anche di casa nostra: Barbara De Rossi, Massimo Girotti, Philippe Leroy, Leopoldo Trieste (un caro amico, intelligentissimo e in certo modo ingenuo), Gabriele Ferzetti, Françoise Fabian, Georges Wilson. Per non parlare del grandissimo Max von Sydow, l’apostolo Pietro.
Natale CORSO e ALDO SGORBINI chiedono che Film DOC pubblichi ritratti di grandi attori e spiegazioni su vecchi film trasmessi in TV. E’ una richiesta non facile da soddifare, anche per ovvi motivi di costi redazionali In ogni caso, e per mia fortuna, non è di mia competenza decidere in merito. Implicitamente ed esplicitamente giro la richiesta al direttore Piero Pruzzo.
Giovanna e Luca BOTTAZZI sono indignati per le parolacce che si odono nei film. E’ un discorso lungo, perché di fatto rispecchia il modo convulsamente volgare di parlare che è oramai di moda, soprattutto fra i giovani. Ma in realtà lo rispecchia oppure lo eccita e lo promuove? L’eterno problema dell’uovo e della gallina si ripropone qui con la schiacciante inevitabilità di sempre. Mi piacerebbe ritornare sul tema in una delle prossime puntate di PostaDOC.
Lauro DOMINICI mi pone una domanda su Garfield e mi chiede valutazioni e pareri tecnici sul film “Garfield 2”. Credo di non essere all’altezza e vorrei lasciare il campo a chi su intende di animazione più di me. Cercherò di avere una risposta da Claudio Bertieri.



Ultima lettera, per esteso:

Vorrei sapere, se si può, perché nei film moderni, sia italiani che stranieri, è sempre più difficile capire i dialoghi, specialmente se sono le giovani donne a parlare. Non saremo mica diventati tutti sordi. So di non essere il solo a protestare. Ma perché non imparano più la dizione, come invece facevano una volta ?Ah, se rimpiango la Simoneschi, la Pagnani e tante altre!
Fate qualcosa. Grazie, Salutissimi.

Armando GHIGLIONE (Nervi)

Andiamo nell’ordine:
1. Qualcosa facciamo. Almeno Bruno Astori ed io che, da dieci anni, mandiamo avanti, relativamente con pochi aiuti, il Festival “Voci nell’ombra” di Finale Ligure che intende appunto non solo celebrare ma anche analizzare il doppiaggio. Principalmente quello italiano. Di cui segnaliamo ogni anno, per il cinema e la televisione, i risultati migliori. premiando le voci maschili e femminili, le miglior direzioni, eccetera, in modo da dar vita ad una sorta di piccolo Oscar fonetico nazionale.
2. E’ vero. Le voci diventano sempore meno nitide e meno elegantemente articolate. L’ossequio alle ferree regole di pronuncia, un tempo severamente insegnate in Accademia, è sempre più sistematicamente infranto. Mentre, d’altro canto, aumentano i doppiatori “famigliari”, figli e nipoti di doppiatori, che imparano a doppiare in famiglia, diventando prodigiosi tecnicamente ma linguisticamente e foneticamente influenzati dal modo di parlare “circostante” che nel 90% dei casi è quello propriamentre romano e romanesco, visto che l’enorme maggioranza del doppiaggio italiano è pensato, organizzato ed eseguito a Roma.
3. In certo modo il doppiaggio risente della caduta vertiginosa dei modelli “ufficiali” di dizione. Per anni Radio e nei primi tempi anche la Televisione furono un modello fonetico da seguire. La scomparsa dei “lettori” di Telegiornale – lei si ricorda forse la figura irresistibile di “Guglielmo il dentone” impersonato da Alberto Sordi e diretto da Luigi Filippo D’Amico – ha lasciato il campo libero ad un banda di giornalisti e giornaliste dalle voci dialettali anarchiche e provocatorie, ora cupamente rotacistiche ora maniacalmente introverse. E il doppiaggio risponde ed amplifica.Non siamo tutti sordi, forse. Ma parli per lei. Io lo sto diventando, con l’aiuto dell’età, ogni giorno di più. Bel problema per un (teorico) intenditore di voci.


(Film D.O.C., anno 14, n. 70, Nov.-Dic. 2006)

LA POSTA DI DOC HOLLIDAY (25)

Pubblico qui, come sempre a frammenti, alcune lettere tratte dall'archivio della Posta di DOC Holliday. So che a qualcuno interessa, mentre altri si annoiano profondamente. Al di là della mia personale vanità credo che farle conoscere non sia completamente inutile, visto che le lettere rappresentano una autonoma iniziativa di lettori vari.

Saluti a tutti,

Claidio G. Fava



“Heri dicebamus”……Riprendo dopo diversi mesi la stesura della presente rubrica, a cui ho finito con l’affezionarmi, come mi sembra sia capitato - tenuto conto delle lettere che arrivano in redazione - anche a diversi lettori di “Film DOC”. Quel che mi è capitato in fondo è assai banale. Ai primi di febbraio sono stato colpito da ictus. Curato in modo eccellente in due reparti specializzati di San Martino, a fine marzo ero già a casa con le mie gambe. Uso anche un bastone che mi serve soprattutto per darmi tono ma posso camminare benissimo anche senza. Pian piano ho ripreso una vita normale ma uscendo ancora poco (dovrei fare più moto). Ecco perché ho visto in TV molto calcio e molti telefilm polizieschi (per cui ho un debole, lo confesso) e pochi film al cinema.
Adesso riaccendo la rubrica e cerco di smaltire le lettere che si sono accumulate in questi mesi. Vorrei rispondere a tutti ma non so se ci riuscirò. Coraggio, proviamo:



Innanzitutto debbo oramai dall’inizio dell’anno una risposta alla signora ENRICA PERISSINOTTI, che ringrazio (con ritardo !!) per la gentile lettera che mi chiedeva come mai, in presenza di una delle solite votazioni mensili dei critici liguri - pubblicate dalla “Gazzetta del Lunedì” in occasione della “Stanza del Cinema” di Palazzo Ducale – si verificasse una così netta disparità di giudizio fra l’uno e l’altro dei colleghi. Inutile ormai rifare la storia dei singoli film e dei singoli giudizi. Quel che è importante ribadire è che nessuno di noi è depositario di un metro comune e collettivo di giudizio, ma, se mai, che ognuno di noi arriva ad un giudizio (si spera meditato) percorrendo e ripercorrendo il proprio personale cammino critico, attingendo via via alla sua personale cultura (o incultura), alle sue letture, alle sue visioni (alludo a film, non necessariamente ad apparizioni mistiche), ai libri letti, agli anni od ai decenni di esperienza, che hanno via via contribuito a creare in lui una struttura critica ed analitica. Ed a dargli una sorta di obbligatoria e spesso rigida esigenza di giudizio. Grazie alla quale, per fortuna, sovente non siamo d’accordo. Tutto qua.


Altra persona da me citata nella puntata di Film DOC di Marzo-Aprile il signor VITALIANO DARELLI di Genova che mi chiedeva informazioni varie. Nell’ordine: ancora notizie su Marika Rökk; su Nelson Eddy e Jeanette MacDonald; sull’attore Nino Martini e su Eddie Cantor. Ultima domanda: “che fine avrà fatto l’angelico giovinetto di Morte a Venezia ?”
Risposte nell’ordine (salvo Marika Rökk): 1) Nelson Ackerman Eddy nacque il 29 giugno 1901 a Providence , Rhode Islands e morì il 6 marzo 1967 (attacco di cuore) a Miami Beach. Figlio di cantanti e nipote di musicisti, svolse i soliti lavoretti assortiti tipici delle biografie americane, ottenne da un mecenate il denaro per studiare canto a Dresda e Parigi, cantò sino al 1928 nella Philadelphia Opera Soc. Nel 1933 ottenne un contratto con la MGM. Nel 1935 primo successo in “Terra senza donne” (Naughty Marietta) a fianco di Jeanette MacDonald – che però non figura nel “cast” di “Fantasma dell’opera”, dove recita invece, nella parte di Christine, Susanna Foster . Con Jeanette doveva dar vita ad una coppia cine-canterina allora di grande successo ed ora praticamente dimenticata (salvo che dal signor Darelli!).. Ultima apparizione insieme in “I Married an Angel”(1942). Dopo la separazione Nelson e Jeanette ebbero ancora qualche occasione ma è chiaro che la carriera ed il grande successo della coppia erano legati alla fascinazione della musica colta e popolare tipica degli anni ‘30, vale a dire quella del trionfo definitivo del sonoro nel mondo intero. Le loro carriere cinematografiche terminarono di fatto entro gli anni ’40, con qualche successiva apparizione un TV per Jeanette. Nata a Filadelfia il 18 giugno 1903 e morta a Houston, Texas, il 14 gennaio 1965, anch’essa per attacco di cuore, due anni prima di Nelson.
2) Nino Martini (confesso che non ne sapevo nulla ed ho dovuto fare ricerche) nacque a Verona l’8 agosto 1905 ed ivi morì il 9 dicembre 1976, ma svolse la parte decisiva della sua carriera sempre negli Stati Uniti. a Verona
Divenne ben presto un cantante di successo avendo “in dono dalla natura un registro acuto limpido, esteso e di tipica consistenza tenorile”. In Italia cantò solo tre volte nel 1927/1928 ed una volta per una “Madama Butterfly”. Andò subito negli Stati Uniti come concertista e ancor più come cantante d’opera iniziò una carriera che gli diede una grande notorietà e lo portò anche occasionalmente a far del cinema. Non molti titoli, alcuni di successo anche in Italia (“Here‘s to Romance” da noi “Canto d’amore”, e “The Gay Desperado” ovvero “Notti messicane”, con Ida Lupino, Leo Carrell, Misha Auer diretto nientemeno che da Rouben Mamoulian). Il cinema fu per lui un momento occasionale mentre il canto rimase a lungo uno strumento per cui fu largamente amato negli Stati Uniti. Il 9 dicembre del 1976 – tornato per la terza volta in tutto a Verona - fu colpito da infarto mentre si trovava fra le bancarelle allestite in piazza Bra per comprare regali per i bisnipotini. Ricoverato all’Ospedale di Borgo Trento, morì la notte stessa.
3) Veniamo ad Eddie Cantor (New York, 31 gennaio 1892/Beverly Hills, 10 ottobre 1964) personaggio ben più conosciuto. Fu anzi celebre per lungo tempo, negli Stati Uniti ma anche in Europa . Era uno di quegli attori comici di cui fu così generosa, sino a qualche decennio fa, l’emigrazione ebraica askenazita negli Stati Uniti. Si chiamava in realtà Edward Israel Iskowitz, ma poiché entrambi i genitori erano morti quando lui era piccolo, prese il nome della nonna, Esther Kantrowitz, poi a scuola accorciato in Cantor, che divenne il suo pseudonimo ufficiale. Già popolarissimo in rivista nelle Ziegfeld Follies, approda al cinema e negli anni ‘30 impone il suo personaggio. un giovanotto candido trasognato ed ottimista che lo rende famoso . Al punto che nel 1953 merita un film , “The Eddie Cantor Story” tipico punto d’arrivo degli omaggi che Hollywood rende ai suoi idoli. Ma già negli anni ’50 cominciava ad essere dimenticato dalle giovani generazioni. A suo tempo, alla Rai , ho risuscitato qualche suo film, fra cui, mi pare di ricordare , “Il Museo degli scandali” “ (Roman Scandal,1933)4) Non ho più spazio per “l’angelico giovinetto” e rimando lei e molti corrispondenti alla prossima puntata. Fatevi coraggio, io ci ho già pensato per mio conto nei mesi scorsi !!!


(Postadoc 42, 2giugno 2006)
RISPOSTA PER "BLACK HAWK DOWN"


Egregio signor SG,

rispondo alla sua lettera per un problema di elementare cortesia ma anche per farle presente che quanto lei mi propone non è possibile. In effetti, è evidente che non posso imporre all’editore di allegare una scheda integrativa del libro. Al massimo, se la mia salute me lo consente, potrei dare un’occhiata al suo dvd e poi scrivere qualcosa per il blog. Aspetto però una mia decisione in materia, perché questo è un periodo in cui non mi sento molto bene, e non posso prendere molti impegni.

Grazie del suo interessamento e cordiali saluti,


Claudio G. Fava

20 agosto 2010

LA MIA FEDELTA' A CAVOUR

Ho pubblicato nel blog un mio articolo motivato da un fondo di Ernesto Galli della Loggia, in data 10 agosto 2010, dedicato a quel personaggio straordinario che fu Camillo Benso conte di Cavour. L’autore si chiedeva il perché della scarsa popolarità del personaggio, e più largamente, “esito naturale della scarsa conoscenza- popolarità che da noi ha il Risorgimento, cioè quella parte della nostra storia che riguarda la nascita della nazione”. Nel mio articolo ebbi occasione di ricordare i profondi legami, tipici dell’aristocrazia piemontese del tempo, con la Francia ed i costumi francesi. Ribaditi, nel caso di Cavour, da quelli con la famiglia svizzera della madre, i Sellon, ed i numerosi parenti con cui era in contatto sin dall’infanzia. Questo richiamo verso la Francia in lui era paradossalmente ricordato perfino dal nome del suo feudo, appunto Cavour, che ha grafia e suono francesi, ma che in realtà si trova in pieno territorio piemontese. Infatti la cittadina (nel 2001 5.283 abitanti) è situata a 52 chilometri da Torino, ancora in provincia di Torino ma vicina alla provincia di Cuneo. Ed è circondata da altra località tutte dal nome italianissimo: Bagnolo Piemonte, Pinerolo, Bricherasio, Luserna San Giovanni, eccetera… (con qualche dubbio per quel che riguarda la pronuncia locale di Barge). Si direbbe che l’aver annesso il feudo di Cavour realizzasse in maniera simbolica una inconscia vocazione del personaggio: il primo antenato di Camillo ad essere legato a Cavour fu il marchese Michele Antonio (1600-1655), signore di Ponticelli, su investitura di Carlo Emanuele II di Savoia. Come si vede una configurazione antica ed ammonitoria.
Nel mio articolo avanzavo l’ipotesi che l’estraneità di Cavour dalla piccola storia d’Italia fosse avvertita dalla maggioranza dei nostri connazionali proprio come un segnale preciso. E cioè che il conte non fosse (per bagaglio culturale, per abitudini linguistiche, per sedimentazioni secolari) italiano per niente, nonostante il suo apporto decisivo all’unità d’Italia. Trauma che egli favorì in ogni modo con una sorta di estraneità di fondo per una nazione che voleva inventare ad ogni costo ma che gli restò, linguisticamente e geograficamente, estremamente lontana. Vorrei premettere che io ho profondamente amato Cavour, e che ho letto tante volte il suo affascinante diario giovanile (tradotto in italiano ma scritto in francese) anche se non sono mai riuscito a trovare l’originale, forse anche più ampio e minuzioso delle correnti versioni scolastiche nella nostra lingua. In questi ultimi anni l’avversione a Cavour è andata articolandosi e consolidandosi all’interno di quel movimento meridionale indipendentista, comunemente conosciuto come “neoborbonico”. Il quale appunto si richiama ai Borboni – mettendo tre gigli nello stemma – perché la dinastia fu il momento finale di un’indipendenza politica e morale scardinata e violentata dall’arrivo “criminale” dei rapinatori Savoia. In internet è facile trovare ampio materiale sull’argomento, con fior di esempi rabbiosi di massacri compiuti nel sud dai piemontesi, e ignorati, a magari glorificati, dalla retorica risorgimentale.
Probabilmente in questo atteggiamento ed in queste rivendicazioni c’è un elemento di verità, che non ha mai sfiorato noi settentrionali abituati a vedere la “liberazione”, garibaldina e regia, del sud, come un elemento automaticamente recepito nella storia dell’800 italiano. L’unità d’Italia, sotto l’impulso e la vocazione di Casa Savoia, ha reso questa polemica al tempo stesso inattesa e goffa. In una nazione usa a considerare l’argomento più nell’ottica de “Il brigante di Tacca del Lupo” che in quella, poniamo, de “L’alfiere” di Carlo Alianello. Il quale, romano di famiglia lucana, trasse dai ricordi del nonno, ufficiale borbonico sempre rimasto fedele al giuramento, tutti gli impulsi della sua opera di scrittore, cantore di un regno scomparso ma non dimenticato.
Il discorso qui meriterebbe di essere allargato concedendo un po’ di spazio alla rievocazione dell’esercito delle Due Sicilie, completamente cancellato nel ricordo dalla raggiunta unità. Forse l’ultima vestigia conservata è la Scuola Militare della Nunziatella, tutt’ora conservata a Napoli e ultima testimonianza di un’antica tradizione. Invece di conservare qualche nome di Reggimento e di Corpo, così da saldare il nuovo esercito alle vecchie armate meridionali, l’impronta delle forze armate sarde fu automaticamente impressa nelle province meridionali. Altrettanto si dica dei nomi degli ufficiali. Se i generali furono in genere scadenti, anticipando nel crollo dei Borboni quel che poi accadde all’esercito italiano l’ 8 settembre del 1943, vi furono singoli esempi di grande coraggio e grande valore. Si pensi ad esempio a Ferdinando Beneventano del Bosco (Palermo, 3.3.1819 – Napoli, 8.1.1881), di antica famiglia siracusana – i Beneventano del Bosco posseggono tutt’ora uno splendido palazzo ad Ortigia, situato proprio di fronte a quello del comune. Egli, poco prima della resa di Gaeta, era stato promosso maresciallo di campo, e per buona parte della campagna meridionale fu un simbolo di resistenza che arrivò a galvanizzare i soldati borbonici. Nell’ultima parte della sua vita egli girovagò per varie capitali estere fino a giungere in Spagna ed in Marocco, per tornare poi a Napoli, dove morì. Il nuovo esercito gli offrì al massimo il grado di capitano, rinunciando in questo modo a riconoscere il valore dei nemici, compiendo così un errore che personalmente considero fondamentale (ciò non accadde per tutti gli ufficiali: tipico fu il caso di Pianell, di sentimenti liberali e poco amato alla corte borbonica, che nell’esercito “piemontese” divenne generale, senatore del Regno, dopo aver rifiutato per diverse volte il ministero della guerra). Proprio sotto il profilo militare val la pena di osservare che, con l’abolizione della coscrizione, i meridionali si sono riversati nelle forze armate, involontariamente recuperando il carattere “regionale” del vecchio esercito borbonico. E’ un tema ampio e non molto analizzato, sul quale amerei ricevere commenti ed osservazioni dei lettori. Ci tengo a far presente che, per quanto mi risulta, non ho rapporti col sud: mio padre era di Porto Maurizio e mio nonno di Novi Ligure.


Claudio G. Fava

18 agosto 2010

CAVOUR ERA ITALIANO ?


Il 10 agosto Ernesto Galli della Loggia pubblicava un fondo nel “Corriere della Sera” intitolato “Nostalgia di Cavour”, in cui lo storico, proprio nella ricorrenza del duecentesimo anniversario della nascita del Conte, deprecava la scarsa popolarità di quegli che egli chiama “il gran Conte” in una Italia che sembra non volerlo ricordare. Galli della Loggia fa rilevare che, “fino a pochissimo tempo fa, nei manuali scolastici non gli veniva assegnato nessun rilievo particolare”. E ricordava nel suo pezzo la sostanziale impopolarità di Cavour e, più largamente, l’impopolarità della politica in cui gioca il “peso ininterrotto delle interne divisioni della Penisola”. Ma anche il “pregiudizio antinordista di una parte considerevole d’Italia e, in particolare, l’anitpiemontesismo per certi tratti costitutivi dell’animo e della cultura del Piemonte, percepiti come troppo diversi dal carattere nazionale: il rifiuto della retorica e della presunzione di sé, l’obbedienza alle regole, un radicato senso del dovere, la tenacia, un certo abito pessimistico, (…) tratti della mentalità subalpina (che) finiscono paradossalmente per riverberare una luce negativa sul grande Primo Ministro (…) ratificando il suo destino di straniero in patria. Di italiano da 150 anni in qua eternamente inattuale”.
Ho cercato qui di riassumere, forse inabilmente, il pensiero dell’autore (se non sbaglio discende egli stesso da una famiglia della nobiltà piemontese: un suo antenato, morto nel 1858, fu colonnello e senatore del Regno). Quel che si deve notare nel suo brano è che egli, in qualche modo, si spinge a sfiorare la verità. E cioè che Cavour di fatto non era veramente italiano, pur essendo il massimo responsabile dell’unità d’Italia. Non lo era come non lo erano nel fondo (compreso l’italianissimo e quasi romanizzato Massimo d’Azeglio) tanti componenti della nobiltà piemontese dell’epoca, con un fenomeno di “traslazione dei sentimenti”, affine ma diversa da quella che animava la nobiltà prussiana e russa: i componenti di queste ultime erano infatti giunti al punto di vivere all’interno del proprio paese, fondamentalmente distaccandosene in una delle manifestazioni più forti dell’adesione ad una realtà nazionale. Vale a dire la lingua. Avevano compattamente adottato il francese come idioma di casta (Tolstoj cita il caso di una nobildonna che, al momento dell’invasione operata da Napoleone, aveva convocato un precettore russo per riuscire ad abolire almeno parzialmente l’uso della lingua che era anche quella dell’orribile Corso). Anche con caratteristiche diverse – la lingua abitualmente parlata era il vernacolo piemontese - la stessa identificazione con il francese ebbe luogo, ma senza nessun senso di colpa, in Cavour e negli altri membri della società che egli frequentava. Egli, mentre nella lingua di tutti i giorni usava prevalentemente il torinese, non pensava di scrivere in un’altra lingua che non fosse il francese, l’unica che conoscesse veramente bene (come è noto il suo amico, il barone Severino Cassio, gli rimproverò spesso di battersi tenacemente per la remota unità d’Italia, ma di continuare ad ignorarne la lingua, che pure aveva dovuto obbligatoriamente usare come allievo della Regia Accademia Militare di Torino). Non so in quale idioma si rivolgesse alla marchesa Nina Giustiniani, che era poliglotta ma che scriveva anch’essa abitualmente in francese. Anche se va detto che l’ultima lettera diretta da lei a Cavour prima del suicidio fu addirittura in genovese. Io ne ho trovato nel preziosissimo Google una versione in dialetto che mi pare discutibile nella sua traslitterazione, ma che comunque per un genovese produce un effetto indubbiamente commovente (“… beseugna che m’adatte ae triste circostanze ne’ quali me treuvo, e che seggie ben contenta che ti te ricordi de mi. Te daggo tanti baxi …”).
In sostanza Galli della Loggia – assolutamente condividibili sono le sue osservazioni sul carattere prevalente del Piemonte d’epoca – arriva a sfiorare il tema centrale della vita di Cavour senza giungere alla logica conclusione. In effetti il conte “non” era italiano, anche se, in tutta innocenza, si sforzava di sembrarlo. La sua estraneità patrizia alla corrente definizione di quella che avrebbe dovuto essere la sua vera nazionalità era ulteriormente complicata dalla presenza determinante della parte svizzera della sua famiglia, che gli veniva dalla madre Adele di Sellon, ginevrina. Per brevità rimando a quel che ha scritto Sergio Romano ne “Il castello di Santena”, a proposito dello stato senza confini di cui – come dice Romano - portava l’eredità nel sangue: “una sorta di enclave a cavallo tra la Svizzera, la Francia e il Regno di Sardegna, (…) una provincia europea (…) assai più vicina a Parigi, Londra e Milano che non a Firenze, Roma, Napoli”. Non c’è dubbio che, in larga misura, la dimestichezza con lo zio Jean-Jacques e con il castello di Allaman, con la casa di La Perrière, le villeggiature dei lontani cugini di Cavour, i de la Rive, a Pressinge, o degli altri cugini, i Clermont-Tonnerre, a Le Bocage, influiscano in modo determinante sulla “francesità” del conte e la sua sostanziale lontananza da una nazione, ancora inesistente dal punto di vista formale e sostanzialmente estranea sotto il profilo geografico.
Italiano volenteroso ma complessivamente inattendibile, fu poi, come abbiamo detto e forse al di là dei suoi stessi desideri, l’artefice dell’unità d’Italia. Non è escluso che proprio l’ambigua eredità cavouriana abbia finito con l’influire negativamente su tutta la nostra struttura nazionale e statuale. A questo riguardo è interessante rilevare che proprio l’articolo di Galli della Loggia sul “Corriere della Sera” abbia provocato la stizzita, ma non totalmente infondata, risposta di un certo Stanislao Napolano nel sito “Comitati delle Due Sicilie”, uno dei tanti blog neo-borbonici che fioriscono nel mondo complesso dei blog nostrani. Ho trovato materiale sui Comitati delle Due Sicilie che, come scrive Gabriele Falco, “rappresentano l’uscita del Popolo meridionale dallo stato di minorità che esso deve imputare per prima cosa a 147 anni di scellerato colonialismo e in secondo luogo anche a se stesso”. Nel logo della pubblicazione figurano doverosamente tre gigli borbonici…
E’ un tema, questo della tardiva ma furibonda “opposizione” meridionale all’unità d’Italia, che vorrei riprendere in un prossimo intervento.


Claudio G. Fava
mercoledì 18 agosto 2010

Battute: 6.377

13 agosto 2010

Mi rendo conto che continuo a mettere delle prolusioni alla pubblicazione parziale di lettere tratte dalla rubrica "La posta di DOC Holliday". Ma mi sembra necessario perchè chi legge il blog non può essere obbligato a ricordarsi che ogni tanto do vita a questa antologia. Ecco dunque che qui appariranno 7 lettere della rubrica prima citata. Fatevi coraggio.


LA POSTA DI DOC HOLLIDAY (25)


Da tempo debbo delle risposte a Mario di Nervi, colonna, è vero, di questa rubrica, ma anche mosso da mille curiosità che cerco di soddisfare come e quando posso. Fra i vari interrogativi che mi ha posto ve n’è uno a cui rispondo adesso, che riguardava il mondo del doppiaggio italiano. Mario di Nervi chiedeva nomi e indirizzi di società, di direttori di doppiaggio, eccetera. Ho fatto ricorso alla cortesia di Bruno Astori - sin dagli inizi siamo condirettori di “Voci nell’ombra”, il Festival del doppiaggio di Finale Ligure - che mi ha inviato i seguenti dati, evidentemente parziali, ma rappresentano comunque un inizio di informazione specifica:

Alcune Società di doppiaggio:
Sefit CDC 00161 Roma, via dei Villini 5Tel. 06 442831 //Cast Doppiaggio srl Via Salaria 300 00199 RomaTel 06 068841687 //BiBi NC Via A. Tonelli 25 00197 Roma //Dea 5Via F. Gonfalonieri 1 00195 Roma Tel 06 36005478 77//Video Sound
Via G.Antonelli 35 00197 Roma Tel 06 8082945 //Video Delta Spa
Largo Vittorio De Sica 1 10090 San Giusto Canadese TO Tel 0124 350032 // Merak Viale Spagna 61 20093 Cologno Monzese MI Tel 02 27300902


Adattatori
Per quel che riguarda gli adattatori – non richiesti da Mario di Nervi ma determinanti nella effettuazione di un doppiaggio -consiglio di consultare il sito dell’AIDAC (Associazione Italiana Adattatori Dialoghisti) http://www.aidac.it/, assai ricco di dati.


Direttori di doppiaggio
Astori mi ha suggerito un elenco ridotto che menzioni qualcuno dei migliori direttori di doppiaggio, spesso decisivi nella resa finale di un film. Evidentemente ve ne sono anche altri,e spesso bravi, ma quel che mi preme è di fornire oggi alcune informazioni basilari su un tema molto specifico, di cui in fondo si parla poco (sul quale se interessasse ad altri lettori della rubrica, si potrebbe anche tornare).
Ecco questo primo elenco:
La vecchia guardia:
Mario Maldesi, Manlio De Angelis, Filippo Ottoni, Ornella Cappellini
Quelli che adesso lavorano molto:
Gianni Galassi, Marco Mete, Sandro Acerbo, Francesco Vairano, Ludovic Modugni, Teo Belli, Maura VespiniPer la Television :Cristina Boraschi, Roberto Chevalier

Ovviamente è un elenco di comodo, nel senso che è estremamente ristretto. Il mondo del doppiaggio è un mondo relativamente piccolo ma intenso. Si badi: molte delle persone succitate hanno più di un mestiere. Diversi direttori prima citati sono anche adattatori-dialoghisti e, ancor più, eccellenti doppiatori essi stessi.
Per fare qualche esempio. Cristina Boraschi ha doppiato non so quante volte Julia Roberts (compresa “Pretty Woman” !) senza contare Sandra Bullock, Ashley Judd, Geena Davis, Sarah Jessica Parker e molte altre attrici. Roberto Chevalier, attore sin da bambino, ha doppiato almeno diciotto volte Tom Cruise ( da “Top Gun” a “Collateral” !!) e molte volte Tom Hanks, Dennis Quaid, Andy Garcia, John Travolta, James Woods, eccetera. Ludovica Modugno ha doppiato Glenn Close, Angelica Huston, Cher, Emma Thompson , Lily Tomlin, Faye Dunaway, Anny Duperey, Angela Molina e perfino (da bambina. Sono le bambine in genere a doppiare i maschietti) Pablito Calvo in “Marcellino pane e vino” !! Come si vede, in genere, i buoni direttori conoscono il mestiere in ogni sfumatura. (vorrei aggiungere che in buona parte li abbiamo premiati a Finale Ligure e che molti sono diventati anche degli amici).

Infine vorrei ricordare che ho attinto gli ultimi dati dal preziosissimo sito http://www.antoniogenna.net/: lo consiglio vivamente a tutti gli appassionati di doppiaggio abituati a consultare internet. Genna è un trapanese che fa l’università a Pisa e che riesce misteriosamente ad alimentare informazioni d’ogni genere (non solo sul doppiaggio, ma anche sulla gastronomia della sua città!).E per questa volta Mario di Nervi è, almeno parzialmente, accontentato.


“…seguo sempre le Sue risposte. Mi piacerebbe se trovasse tempo e spazio per rispondere anche a me su una questione che mi sta a cuore e mi tormenta non poco. Quando vado al cinema sento sempre meno quell’attrazione, quel fascino che il cinema aveva una volta. Non sono vecchissimo, anche se cinquant’anni al tempo d’oggi forse mettono già “out.Ma mi senra tutto senza convinzione, tutte chiacchiere o fantasticherie senza senso .Cosa dice ? Sono io che non so più reagire o è proprio il cinema che è più debole? Perché un libro mi soddisfa di più? Non parlo di televisione perchè ne vedo pochissima. Grazie per l’eventuale risposta. Ossequi”.
GIORGIO ROSASCO

Non mi dica niente. Con Piero Pruzzo – ci stiamo baldanzosamente incamminando verso l’ottantina, si figuri, un cinquantenne è per noi poco più di un adolescente – abbiamo letto la sua lettera ed abbiano avuto la stessa reazione. Come ritrovare quel tirannico amor di cinema, quella rabbia affannosa di immagini, quella felicità distesa, attonita e insieme fervorosa di momenti, di inquadrature, di sequenze da ricordare che ci spinse, per decenni, nelle sale buie e che divenne poi per entrambi un mestiere? Senza parlare del profondo mutamento inflitto al cinema che imparammo ad amare da bambini, da adolescenti, da giovanotti e che non esiste più o quasi più….Per carità, se la capiamo……

Ho praticamente esaurito lo spazio a disposizione e mi accorgo che debbo ancora rispondere al Signor VITALIANO DARELLI ed alla Signora ENRICA PERISSINOTTI (se ho letto bene il nome). Quest’ultima mi chiede fra l’altro perché nella classifica dei voti dei critici genovesi pubblicata il9 gennaio 2006 ne “La Gazzetta del lunedì” si avvertiva una profonda disparità di voti fra “Memorie di una geisha” e “Storie di violenza”. Il signor Darelli vuol sapere invece un sacco di cose, fra cui informazioni su Nelson Eddy e Jeannette Mac Donald, su Nino Martini, Eddie Cantor e “l’angelico giovinetto” di “Morte a Venezia”. Cercherò di rispondere almeno in parte, nella prossima puntata.Il signor Darelli lamenta di non riuscire a trovare la rivista spesso esaurita al cinema. Vada alla sede dell’AGIS, in via Santa Zita 1/1, sc.sinistra. Ci sono due signore gentilissime, Barbara e Laura che lo riforniranno di quanto le serve.



(Film D.O.C., anno 14, n. 67, Mar.-Apr. 2006)
LA POSTA DI DOC HOLLIDAY (24)


Complimenti per Film DOC n° 65! Ho trovato tutto molto interessante! E quella copertina coi gatti ! Una meraviglia ! E mi servirà anche come calendario. Grazie e grazie anche alla bravissima Pongiglione che non delude mai i suoi ammiratori e ammiratrici, tra cui sono anch’io.
(firma illeggibile)
Genova, 8 novembre


Son stato molto incerto pubblicare la lettera, visto che rivolge complimenti, fra l’altro, anche a Elena Pongiglione, che, come è noto, è mia moglie da alcuni decenni. Tuttavia poiché è esplicitamente indirizzata alla rubrica, e quindi a me, compio un gesto in certo modo autoritario visto che essa esprime un entusiasmo reale, e la pubblico. Tanto più che Elena, ormai da molti anni, contribuisce con la sua vignetta ironica, collocata sempre nella seconda pagina di FilmDOC, a definire spirito, gusto e connotazione grafica, ma non solo grafica, della rivista.



Mi riferisco all’articolo su “Caccia al ladro” (Film DOC n° 64 –n.d.r.). Sono un frequentatore di Montecarlo ed ho visto quella pellicola ma non avevo riconosciuto quei posti ove Hitchcok aveva girato. Sono grato a”Film DOC” per avermeli fatti scoprire e alla prima occasione li visiterò. Posso sapere anche nelle risposte ai lettori se è vero che in America hanno girato una nuova versione del film ? C’è in ballo una scommessa. Grazie e ossequi.
Gianfranco Corvetti

Ho sempre pensato che gli esterni, non solo monegaschi, del film di “Hitch” fossero complessivamente riconoscibili, ma forse è una sensazione sbagliata, dovuta al fatto che la nostra memoria del cinema ha risvolti spesso bizzarri e in certo modo immotivati o superficiali, ma altrettanto spesso rivelatori (nel mio caso dell’antica sensibilità per le lingue ed i dialetti). Un esempio:ogni volta che mi è capitato di rivedere in “Caccia al ladro” la sequenza dell’inseguimento, ambientata, come si ricorderà nel mercato (all’aperto) dei fiori di Nizza, la mia prima reazione per così dire, è sempre stata sonora. Alla prima inquadratura automaticamente mi ricordo di essermi ritrovato nello stesso luogo (è successo più di mezzo secolo fa) e sento, come allora, la voce di un uomo, che rivolgendosi ad uno dei venditori, dice “Basta pià dui fleur” (Basta prendere due fiori). Credo sia stata l’unica volta, nei miei vari viaggi a Nizza all’epoca, in cui mi capitò veramente d’udire parlare nizzardo, l’estremo dialetto provenzale (il “nissart”) che pure, al momento della cessione alla Francia da parte del ama ufficialmente “Rouba capeu” (Ruba cappello). E poco più, creRegno di Sardegna, era l’idioma corrente della gente del popolo (credo lo fosse anche per Garibaldi, che pure era di genitori non nizzardi ma liguri e che in Marina aveva imparato il genovese).


Pubblico la lettera perché riguarda anche me e mi è sta consegnata di persona:

Ai critici del Ducale (intende, ovviamene, “La stanza del cinema”- n.d.r.)
Scusatemi se preferisco scrivere piuttosto che parlare. Ho notato, nel corso di questi anni, che talvolta le vostre valutazioni sui film sono molto discordanti. Si va addirittura da 1 stelletta a 4 stellette. E mi sono allora chiesta se non ci siano in un film alcuni elementi che dovrebbero avere valutazioni simili per tutti i critici, e trovar tutti d’accordo. Per esempio sulla recitazione, valida o no, il giudizio dovrebbe essere unanime, mi pare, così pure sul doppiaggio, sulla validità o meno dal’argomento trattato, interessante o banale, forse sulla colonna sonora, sulla dinamicità o lentezza della narrazione e così via. Tralascio ovviamente regia, sceneggiatura o quant’altro, che trascendono la mia competenza; ma sono indispensabili per determinare la bocciatura o la validità di un film, saltando magari tutti gli altri elementi ? E quando è che un sceneggiturs e una regia sono ben fatte ?Grazie e vi prego di non dare tutto per scontato…almeno per me!

Luciana Pozza

Mi pare una lettera molto interessante. La signora Pozza pone due ordini di problemi: la “differenza” di opinioni che avverte fra i critici mentre invece le sembrerebbero in certo senso non rinunciabili criteri di valutazione generali stabili e coerenti, come le scale Richter o Mercalli per i terremoti o i criteri di misurazione delle pulsazioni. Si badi: Non sto scherzando e non intendo essere ironico. E’ proprio la domanda fondamentale –come si valuta, come si misura l’are in generale , e il cinema in particolare ? - che scaturisce dalle intrecciate domande della signora, ad incitarmi a quel che i politici chiamano una pausa di riflessione. Vorrei che i colleghi del Gruppo Critici (ma non solo loro) si pronunciassero sul tema. E d’altro canto mi parrebbe utile (è stato fatto tante volte, che una in più non guasterebbe) procedere ad alla stesura di una sorta di essenziale glossario del cinema, per evitare di spiegarsi male o di non essere capiti per eccesso di tecnicismo verbale. Intendo tornare sull’argomento.



Rimando alla prossima puntata una sconsolata lettera di Giorgio Rosasco che, ahimè, mi trova totalmente consenziente, Ne riparleremo.


(Film D.O.C., anno 14, n. 66, Gen.-Feb. 2006)
LA POSTA DI DOC HOLLIDAY (23)


Non so che cosa lei pensa del recente film di Romero “La terra dei morti viventi” ma i fatti di New Orleans mi sono sembrati una specie di copia di quel che si vedeva in quel film. Mi piacerebbe leggere la sua opinione. Grazie. GIUSEPPE AVANZINI – GENOVA

Il discorso su Romero è semplice e abbastanza complicato al tempo stesso. Come è noto egli era di fatto sconosciuto, o quasi, quando, nel 1968, “esplose” il suo primo film, “La notte dei morti viventi”. Nato il 4 febbraio 1940 a New York, Romero frequentò la Carnegie Millon University a Pittsburgh, Pennsylvania,e subito dopo cominciò a girare cortometraggi e produzioni pubblicatrice. Si avviava alla trentina quando insieme ad un amico, John A. Russo (si badi, l’uno e l’altro con cognomi non anglosassoni, a dimostrazione del rivolgimento etnico in atto nella società americana) scrisse la sceneggiatura de ”La notte dei morti viventi” (Night of the Living Dead, 1968). I due disponevano di 10.000 dollari e riuscirono ad ottenerne 100.000 per produrre un film a basso budget, in bianco e nero, di 96 minuti di durata, centrato su un tema facile e terribile. Così lo riassume il Morandini: “Per motivi poco chiari (…) i morti insepolti tornano in vita con impulsi cannibaleschi. Ogni persona ammazzata si trasforma in uno di loro. Sette persone cercano di resistere barricandosi in una casa abbandonata. E’ il cult movie di basso costo che segnò una svolta nel cinema dell’orrore, portato da Romero fuori dagli studios, dalle convenzioni, dal ghetto.(……..).Ebbe 2 seguiti, 1 remake e innumerevoli imitazioni”.
In effetti, si trattò di una sorta di reciproca,vicendevole presa di coscienza: da parte di molti spettatori nei confronti di Romero, i quali lo elessero loro “zombi_director “ di fiducia, e del regista che di fatto capì d’aver intrapreso un cammino dal quale non gli conveniva discostarsi molto. La ventina di opere – in genere sceneggiate da lui stesso - a cui ha lavorato da allora son pressappoco collocabili quasi tutte nella stessa venatura e collocazione di cinema “horror”, che egli ha dimostrato di saper”fabbricare” con naturale, ed un poco maniacale e circoscritta, facilità. Inutile star qui a fare elenchi. Basterà ricordare qualche titolo: “La città verrà distrutta all’alba” (The Crazies, 1972), “Vampyr” (Martin, 1977), “Zombie” (Dawn of the Dead, 1978, in collaborazione con Dario Argento la cui figlia Asia figura invece nel film di cui ci occupiamo), “Il giorno degli zombi”(The Day of the Dead”, 1985), “La metà oscura” (The Dark Half,, 1993) e via svariando sino ai nostri giorni. Dai controlli che ho fatto sembra comunque che sia pieno di” lavoro:dal 2005 al 2007 sono previsti 4 film, naturalmente oggi come oggi in differenti stadi di preparazione.
Il più recente fra quelli pronti è appunto “La terra dei morti viventi “(George A. Romero’s Land of the Dead, 2005) a cui fa riferimento il signor Avanzino. Ed ove il tema degli zombie è giunto ormai quasi a compimento. Infatti la struttura intera del mondo, minacciato dalla peste e dalla guerra, è decisamente influenzata dalla presenza degli stessi zombi, che si sono moltiplicati e controllano quasi tutto il territorio mentre i “vivi” son ridotti a difendersi. Ma fra questi, mentre i poveri conducono una esistenza precaria in un mondo miserabile dove imperano la violenza, le droghe, il traffico di armi, la prostituzione, e il gioco clandestino, i ricchi vivono lussuosamente in edifici di pregio scrupolosamente difesi da reparti mercenari (le reali struttura economiche di quel mondo restano oscure, ma a Romero non sembrano interessare molto). Va anche detto che gli zombi, rispetto al passato, hanno saputo sviluppare una sorta di rudimentale capacità di “lavorare “insieme e di perseguire un obbiettivo comune, mentre dal canto loro i “sani” organizzano vere e proprie battute di caccia, utilizzando una sorta di immenso carro armato chiamato “Dead Reckoning” (avrebbe forse dovuto essere il titolo vero e proprio del film, quando qualcuno ha avuto il buon senso di ricordarsi che era anche il titolo di un film del 1947, di John Cromwell, con Humphrey Bogart e Lizabeth Scott . un ”nero” molto conosciuto anche da noi, in parte grazie al titolo reboante, lievemente ridicolo ma a suo modo furbesco, rimasto proverbiale presso tutta una generazione di spettatori: “Solo chi cade può risorgere”).Vedendolo si capisce perché il signor Avanzini sia stato stimolato a formulare un paragone in fondo inatteso ma curioso, e cioè quello fra la struttura figurativa del film e i reportages provenienti dalla Louisiana e particolarmente da New Orleans (la parola, almeno lì, è pronunciata “Niù òrlins” e non “niù orlìns”, come diciamo in Italia). E’ una osservazione curiosa, ma non incongrua . Non v’è dubbio che vi sia qualche misteriosa affinità fra i due sfondi e le due strutture urbane (tutti noi siamo stati colpiti, vedendo la TV, dalla franta e arresa desolazione urbana delle immagini: quei quartieri neri”, quei negozi febbrilmente ma stancamente saccheggiati, il frantume delle casupole. l’aria riottosa e sbalordita dei superstiti, le barche che si aggiravano di strada in strada come in un Venezia d’incubo). Insomma tutto un cupo armamentario visuale che , vedendo il film di Romero, fa proprio pensare al vecchio detto paradossale di Oscar Wilde secondo cui “la vita imita l’arte”. Chissà se Romero ha avuto qualche premonizione o se lo ha invece soccorso l’istinto opaco ma vivissimo del narratore ingenuamente (quasi) geniale……


(Film D.O.C., anno 13, n. 65, Nov.-Dic. 2005)
LA POSTA DI DOC HOLLIDAY (23)

Sono una sua assidua lettrice e vorrei sottoporle un mio pensiero. Fra poco avrò quarant’anni e forse per il mondo di oggi son già sorpassata, anche se mi considero abbastanza moderna. Ma se mi venisse voglia di fare l’attrice, lei pensa che dovrei sottoscrivere qualche contratto per dichiararmi disponibili a mettermi nuda in qualche scena del film? Perché mi pare che oggi non si scappi di lì. Non c’è film in cui ad un certo punto l’attrice non debba mettersi in mostra al naturale. Possibile che sia sempre necessario, e che sempre si debba far vedere l’amore fisico il più dettagliato possibile? Mi pare che venti o trent’anni , nei miei ricordi, ci fossero film dove l’amore avesse anche interpretazioni meno crude e tuttavia fosse lo stesso chiarissimo. Anzi ancor più espressivo. Mah!
Scusi e saluti rispettosissimi.ADELE CERVETTO


Mi auguro vivamente che lei non decida di fare l’attrice e che non sia perciò costretta ad una spietata scelta fra la carriera e la morale .....evidentemente sto scherzando per affrontare in modo non troppo tetro un argomento di per sè assai delicato ed importante. E’ vero. Da parecchi anni – non saprei collocare esattamente l’inizio della moda ora trionfante, ma saremo intorno agli anni ’70 - il cinema, un tempo maestro di allusioni furbesche e di raffinate simbologie, è diventato, via via, un meticoloso illustratore di nudi, tendenzialmente femminili ma non solo, ed un sistematico evocatore di amplessi. Non so quanto casualmente di fatto molto spesso si è impercettibilmente prima e percettibilmente poi avvicinato al cinema propriamente pornografico che sin dai tempi del muto, negli Stati Uniti, in Francia, e probabilmente anche in Germania, coltivò un mercato fiorente anche se nascosto e clandestino. In effetti il cinema, arte voyeuristica per eccellenza, si è gettata voluttuosamente nei varchi aperti dalla caduta di antiche frontiere, accontentando così un gran numero di spettatori e scontentandone altrettanti. E in qualche modo venendo incontro ai sogni di tanti produttori libertini degli anni ’20 e ’30 fino ad allora rispettosamente ingabbiati da ben altre convenzioni e convinzioni. E’ forse il maggior colpevole, ma non l‘unico. Pensi alla moda femminile ma anche maschile così come è illustrata da stilisti famosi e come viene riprodotta fedelmente da riviste un tempo goffamente perbeniste ed ora automaticamente aperte e registrare tutto, e quindi anche ai risvolti furbeschi e integrati del vivere quotidiano (quello che nel mondo intero, esclusi paesi e quartieri di rigida disciplina musulmana o ebraica, obbliga tutte la ragazze al di sotto dei trent’anni ad ostentare disciplinatamente l’ombelico scoperto). Comunque non diamo al cinema tutte le colpe: può darsi, è vero, che a momenti stimoli ed inciti, ma spesso registra e ripropone, in un gioco perenne di rimandi incrociati.


Noto che la vs/ bella rivista si occupa anche di personalità spezzine, e allora sarebbe carino ricordare una gloria locale come il forzuto per eccellenza “Galaor” ovvero Alfredo Boccolini, che contendeva a Maciste il primato. Grazie.ROBERTO SACCHI (Sp)

Cominciamo intanto a dire che era Alfredo Boccolini. Attingo alla voce che gli dedicò nell’oggimai dimenti= cato e prezioso “Film Lexicon degli autori e delle opere” - voluto da Fernaldo Di Giammatteo - Mario Quargnolo, attento ed appassionato studioso del cinema soprattutto muto, anch’egli scomparso (nel 2003). Boccolini era nato a La Spezia il 29 dicembre 1885. Forse perché aveva frequentato la scuola specialisti della Regia Marina, nel 1917 Augusto Genina lo fece esordire nel “Siluramento dell’ Oceania”, per l’Ambrosio di Torino. Va detto che il dimenticatissimo Genina (1892/1957) rappresentò qualcosa nel cinema italiano, muto e sonoro. Molti film sino a gli anni ’30, con grande successo. Nel ‘30 a Parigi firma “Prix de beautè” che , al di là dei difetti e grazie a Louise Brooks, segna un’epoca. Poi torna in Italia e dirige alcuni dei film più scaltri, seppur di decrescente sincerità, fra quelli ispirati dal Regime: “Squadrone bianco”, “L’assedio dell’Alcazar”, “Bengasi”. E nel dopoguerra terrà poi a battesimo una sorta di misticismo d’epoca con “Il cielo sulla palude”.
A Torino inizialmente Boccolini ebbe fortuna. Era alto quasi un metro e novanta e pesava 110 chili e quindi non casualmente venne prescelto per impersonare un personaggio avventuroso, appunto “Galaor”, da contrapporre ad un altro ligure, Bartolomeo Pagano, ben più noto di lui come “Maciste”(allora, almeno, al cinema i liguri erano forzuti). Per qualche tempo il personaggio gli portò fortuna e le cose andarono bene. Poi dopo il 1924 un decadimento progressivo lo coinvolse, sino a costringerlo a spettacoli sulle piazze, come una sorta di Zampanò. Nel 1956 ebbe un collasso in una camera d’albergo a Vladana (Mantova). E li morì. Va detto che la missiva del signor Sacchi è scritta a mano, su una sontuosa cartolina che riproduce un coloratissimo ritratto ad olio, ad opera di Martino van Meyens, di Maria Teresa imperatrice d’Austria, accompagnato da una didascalia entusiastica e bilingue. Confesso che la cartolina ha finito con l’intrigarmi ancor più del quesito su Boccolini e sarei molto curioso di sapere a che cosa si deve questa curiosa scelta absburgica.


La volta scorsa terminavo la rubrica con questa frase: “Come accade ad ogni puntata della rubrica ho ricevuto un messaggio dell’insostituibile Mario di Nervi. Questo in particolare depreca “La guerra dei mondi” di Spielberg e si schiera a favore del film di Byron Haskin del 1953, tratto dallo stesso romanzo di Wells di cui si è avvalso il regista di “Duel”. Se non sarà trascorso troppo tempo vorrei farne cenno la prossima volta, per vedere se qualche lettore condivide l’impressione del nerviese Mario, colonna portante de “La posta du DOC Holliday”.


(Film D.O.C., anno 13, n. 64, Set.-Ott. 2005)
LA POSTA DI DOC HOLLIDAY (22)


Prima domanda :Nei giorni scorsi (si badi, la lettera è del 17 marzo) sono stati assegnati i premi Oscar. Cosa ne pensa della premiazione ?
Seconda domanda: E’ stato programmato a Genova “La fiera delle vanità”, dal romanzo di William Thackeray , durata 2 ore e 20’. Ai nostri giorni si vuole dilatare tutto – è pur vero che il romanzo è molto corposo – ma 2 ore e 20 minuti sono notevoli. Il raffronto che voglio fare è che questo film è un ”remake” di “Becky Sharp” (1935) con Miriam Hopkins, Frances Dee, Cedric Hardwicke (aggiungo di mia iniziativa l’impagabile Billie Burke, troppo simpatica per essere dimenticata- c.g.f.). Il regista era Rouben Mamoulian, il quale seppe contenere la storia in 85 minuti !!
Terza domanda (riassumo): Lei è il direttore artistico di “Voci nell’ombra”, Festival del doppiaggio che si tiene da 8 anni a Finale Ligure. Ebbene mi piacerebbe sapere i nomi delle varie Società di doppiaggio che sono a Roma.
Ho visto i film “Il mercante di Venezia” di Michael Radford e “Million Dollar Baby” di Clint Eastwood. Ho trovato il doppiaggio eccellente !!
Grazie per le risposte e saluti a tutti quelli di “Film DOC”.
MARIO di NERVI


Nell’ordine:
1) Cerco sempre di non fare troppe considerazioni sugli Oscar perché so quanto sia complesso il meccanismo di funzionamento e di aggiudicazione del premio. L’”Academy of Motion pictures Arts and Science” è un organismo che ormai fa pensare ad un ministero. Più di 6000 soci votanti, circa 160 dipendenti, un vasta sede e diverse dépendences, librerie, cineteche, eccetera. Il premio ha sempre avuto, e naturalmente conserva ancor oggi, un netto carattere corporativo. E’ il cinema americano che premia se stesso attraverso quelli che il cinema lo fanno, grazie ad un sistema di votazioni a due turni (il primo settoriale per le nominations, il secondo globale con tutte le 14 sezioni professionali unificate). Rispecchia, certo, opinioni di gente del mestiere ma è ovvio che fra migliaia di votanti finiscano col prevalere alcuni sentimenti e stimoli - base maggiormente diffusi, esattamente come accade nelle votazioni politiche e nei risultati dell’Auditel televisivo. Adorato dalla corporazione e di grande effetto ovunque sugli incassi, l’Oscar è pur sempre un significativo indicatore di maggioranza (come una votazione alla Camera) e non un verdetto raffinato.
2) Verissimo. Ma è tutto il cinema contemporaneo che tende alla lunghezza, alla retorica turgida mascherata da aggressiva semplicità, all’interminabile ostentazione di sé. Tante volte con Piero Pruzzo abbiamo ricordato straordinari capolavori del passato che difficilmente superano l’ora e mezza. E Mamoulian in particolare, fu uomo geniale, di grande e raffinata vocazione figurativa e narrativa (per anni fu esaltato e celebrato, e poi scacciato di fatto dal mondo del cinema).
3) Per quel che riguarda gli indirizzi delle Società di doppiaggio, rimando ad un’altra puntata.Per i film citati ecco la risposta: in “Million Dollar Baby” Clint Eastwood è doppiato da Adalberto Maria Merli (eccellente attore di cui ci si dimentica troppo sovente), Morgan Freeman da Renato Mori e Hilary Swank - ha vinto il premio per la miglior interpretazione femminile - da Laura Lenghi (le ho telefonato ed ho scoperto che è la figlia di un caro collega, Marcello Lenghi, per molti anni dirigente di Raidue. Come si dice, il mondo è piccolo). Ne “Il mercante di Venezia” Al Pacino (Shylock) è doppiato da Giancarlo Giannini – non si sa se è più bravo come attore o come doppiatore – e Jeremy Irons (Antonio) da un’altra colonna del mestiere , Mario Cordova (pochi anni fa lo premiai a Finale come direttore di doppiaggio). Certo, se chi mi ha scritto, Mario di Nervi, non fosse una delle colonne di questa rubrica,(è presente quasi ogni volta...) sarei stato più conciso !!


Sono un’appassionata, o meglio lo ero perché non ce ne sono più, dei cinegiornali: “Incom”, “Ieri, oggi, domani” eccetera. So già che lei mi risponderà che non ce ne sono più perché ci sono i telegiornali, ma non mi sembra proprio la stessa cosa. E poi, prima di quella sfilza di réclames prima del film, non sarebbe meglio un bel cinegiornale o, al limite, un cartone animato ? Cosa ne pensa ? Grazie !TEA (?) GANDOLFI

Ma è vero. La cronaca spicciola furbesca, e comunque quasi subito superata da fatti nuovi, che fu tipica dei cinegiornali di una volta, non può più esistere, per mille comprensibili motivi. Bisognerebbe, se mai, confezionare dei veri e propri settimanali, calibrati, pensati, redatti, in qualche modo riassuntivi, come lo sono i rotocalchi. Ma i rotocalchi costano e non sono certo i magri incassi dei cinema di oggi in grado di alimentare un mercato del genere.Deve proprio rassegnarsi, glielo scrivo con un po’ di tristezza.


Caro Film DOC,
sono tua lettrice da due anni e non ne perdo un numero. Ho visto con piacere che ci sono anche articoli sulle colonne sonore. Ma tante volte poi non so dove trovare i CD. Non si potrebbe aggiungere, se sono già usciti, dove trovarli ? Grazie.
Per collaborare alla rivista come si deve fare ? Mi piacerebbe scrivere sugli attori americani: Di Capri, Depp e tanti altri. Spero in una risposta. Grazie.GAIA OLANDO


Per quel che riguarda la sua richiesta concernente i CD, giro la domanda alla collaboratrice che si occupa dell’argomento e che sicuramente –in questi numero o nel prossimo – troverò modo di risponderle.Per collaborare bisogna fare come tutti. Scrivere alcuni pezzi (su attori, ad esempio, visto che l’argomento l’interessa) cercando di renderli i più compatti e stringati possibile, ma al tempo stesso ricchi di informazioni e di ragionate comparazioni. E poi spedirli al direttore. Che legge tutto e con attenzione. In questi anni, seguendo questa strada, naturale e in certo modo ovvia, molti lettori sono divenuti collaboratori regolari di Film DOC (in maggioranza son donne; forse le ragazze sono più ordinate e tenaci, non so). Provi anche lei, se ne ha voglia, e accetti poi (senza drammi) riserve e osservazioni di chi ha decenni di mestiere alle spalle.


(Film D.O.C., anno 13, n. 63, Mag.-Ago. 2005)
LA POSTA DI DOC HOLLIDAY (21)



Ai primi di gennaio 2005 è giunta alla direzione di Film DOC una lettera di Mario Porella (via privata Tubino 23/1, 16035 Rapallo) nella quale si faceva riferimento ad un articolo di Nadia Pezzi che citava molte curiosità riguardanti la vita cinematografica della Rapallo di un tempo. Il signor Porella altre curiosità aggiungeva nella sua missiva. Alla quale risponde esplicitamente in questo numero (vedi pag. 16) la stessa Nadia Pezzi . Perciò non aggiungo altro. Passiamo ad un’altra lettera:


Spett.le Film DOC
Ho preso al cinema la Vs/ rivista che non avevo mai letto e che mi ha molto interessato per gli articoli, le segnalazioni, etc. Ho trovato molto giusto che parli del rispetto degli spettatori che pagano il biglietto e poi non hanno sempre il meglio: purtroppo ecco i i sonori troppo alti o troppo bassi, il riscaldamento che difetta o le figure sfuocate, etc. ect. Per non parlare di certi film dove si capisce poco o nulla di quello che vogliono dire. Spero che la voce della Rivista venga ascoltata, in ogni caso sarebbe bene battere su questi tasti. Spero leggere ancora altri numeri di Film DOC. Invio tanti saluti e buonissimo 2005.S. DAGNINO, GE-SAMPIERDARENA il...)


Credo che il problema affrontato da Piero Pruzzo nell’editoriale dello scorso numero di Film DOC (intitolato appunto “Rispetto del pubblico: un bene da rivalutare”) sia importante in un paese come l’Italia dove assai spesso ci si imbatte in proiezioni non all’altezza, in spettatori scarsi ma spesso villani, in sonori enigmatici (è vero che sto diventando sordo e di questo non sono quindi buon giudice).
Se tiene conto del fatto che Film DOC è edito dalla Regione Liguria e dell’AGIS –vale a dire dalla federazione di categoria che comprende fra l’altro, anche l’ANEC cioè l’Associazione degli Esercenti Cinema, oltre all’ACEC, che è quella degli esercenti cattolici – si apprezzerà l’indipendenza di giudizio di cui gode, in gran parte per merito di Piero, la nostra rivista. Difendere il pubblico è uno dei doveri di una stampa cinematografica sana. Però va anche ricordata una cosa. Certi rilievi sarebbero stati non solo doverosi ma largamente motivati qualche decennio fa, quando l’industria tirava, i cinematografi erano pieni e gestire una sala cinematografica di successo era probabilmente ancor più redditizio che gestire una pompa di benzina in una piazza affollata di auto. Un tempo. Ma ora...? Pensi alla situazione di Genova. Per decenni e decenni via XX Settembre è stata la strada dei cinematografi (ci ho abitato vent’anni, sono andato a scuola al “Vittorino” in via Maragliano, so di che cosa parlo). Risalendola verso piazza De Ferrari a sinistra c’erano il Corso, il Dioniso, più in alto l’Universale (quello grande, vecchia maniera, sostituito dalle tre sale attuali in via Ceccardi) poi il Lux e l’Olimpia. I primi tre sono scomparsi – il Dioniso rinacque in via Colombo, è l’attuale America su due sale - il Lux è chiuso, l’Olimpia mi sembra incerto. A destra c’erano l’Orfeo, il Moderno, l’Astor, il Verdi: in tempi diversi sono stati chiusi e quattro (tutti questi nomi mi rimandano a certi film, a certe scoperte, a certi stupori: solo ricordi di ricordi, ahimè). E non parliamo di locali più o meno vicini vicini: il Grattacielo, l’Augustus, l’Italia o Plaza (Tommaseo), il Rivoli (XII Ottobre), l’Odeon di via Vernazza (non quello di oggi che si chiamava allora, in onore di un grande produttore genovese, “S. Pittaluga”). E sempre in via XX, il “Margherita”, teatro che per alcuni anni funzionò anche come cinema di prima visione (c’erano le poltrone più comode di Genova). E perfino il nostro vecchio “Ritz” della Casa dei Mutilati, voluto dal Gruppo Critici e da Piero Saltamerenda del circuito Incisa e Mela. Un mondo di spettri per noi e per i gestori di infiniti guadagni sfumati. (Chi non ha conosciuto la calca domenicale dei cinema nel dopoguerra non sa di che cosa parlo).
Onestamente perché un esercente di oggi dovrebbe fare investimenti costosi (aria condizionata, macchine più moderne, sistemi sonori più raffinati, ecc.) in sale che spesso non sono sue, che rendono sempre meno e di cui lui è solo l’affittuario, mentre poi rappresentano per il proprietario una preda ghiotta per Banche e Grandi Magazzini ? Ci pensi un po’.


La volta scorsa, rispondendo a Mario di Nervi, avevo promesso di ritornare sul regista cinese Wong Kar-Wai e sul suo film “2046”. Intanto, al fine di stimolare qualche personale ricerca, per quanto possa sembrare ovvio, segnalo al lettore nerviese ed a tutti quelli che dispongano di un computer, fra le migliaia di siti e di riferimenti vari per chi vuole essere informato, il rituale sito internet “imdb” (ovvero “Internet Movie Data Base”) che ormai avviandosi, credo, ai 200.000 titoli, è un fonte senza pari di consultazione e di filmografie. Un’altra fonte ancora, ben più bonaria e casalinga, è il S.A.S. di Bergamo, che da decenni fornisce ritagli di recensioni tratte non dalle riviste, come si usa di solito in tutta la pubblicistica “colta”, ma dai quotidiani che sono quelli che rischiano per primi, in genere, e pagano per primi (l’ho fatto per più di vent’anni e so che cosa vuol dire). Indirizzo: via Bonomelli 13, 24122 Bergamo. Tel. 035/320.828, Home Page: www.sas.bg.it, e-mail: sas@bg.it., Ci si può abbonare, a scelta, all’invio dei ritagli cartacei e di quelli via e –mail. Per fare un esempio nelle due ”forniture”che ho ricevuto, sono riportate integralmente, nella veste tipografica originale, le recensioni fotocopiate di “2046” apparse, da fine ottobre ai primi di di dicembre 2004, ne “ La stampa” (Lietta Tornabuoni), “Il tempo” (Gian Luigi Rondi), il “Corriere della sera” (Maurizio Porro), “Il mattino” (Valerio Caprara), “Il gazzettino” (Roberto Pugliese), “Il giornale” (Maurizio Cabona), “”L’eco di Bergamo” (Achille Frezzato). Anche se la critica dei quotidiani non dispone più dello spazio sterminato che avevamo noi, continua ad avere una certa possibilità di esprimersi comodamente (almeno in qualche caso) e di analizzare i film. Se la cosa interessa qualche lettore, oltre a Mario di Nervi (una colonna di questa rubrica!) potrei fornire periodicamente i frammenti importanti delle recensioni almeno di qualche critico che mi paia significativo ( e non dimenticate, vi prego, gli amici e colleghi di Genova, Bruzzone per il “Secolo XIX”, Venturelli per “Il lavoro-Repubblica” e Fossati per il “Mercantile”. Tutto sommato, a Genova ci difendiamo).


(Film D.O.C., anno 13, n. 62, Mar.-Apr. 2005)
LA POSTA DI DOC HOLLIDAY (20)


E’ stato molto bello il ricordo del film-rivista tedesco pubblicato con ricordo particolare di Marika Rökk. Quella si che era una grande artista ! Sapeva fare di tutto, una grande ballerina, e sapeva anche cantare. E che corpo. Altro che certe soubrette di casa nostra !! Mi è spiaciuto sapere che è morta, ma non mi meraviglia che ha cantato sino all’ultimo. Aveva una vitalità!! Gli artisti pubblicati mi hanno fatto ringiovanire di un bel numero di anni.
Grazie di cuore.
MORELLI Corrado, Genova


La ringrazio per le lodi, che peraltro vanno girate, ancora una volta, a Piero Pruzzo, il cui entusiasmo per il musical tedesco è stato (ed è) fruttifero. L’entusiasmo che lei dimostra per la Rökk – deve molto al marito Georg Jacoby che fu il suo regista - pare nella sostanza giustificato se si ripensa all’epoca, ed anche a quel che passava il convento durante le guerra quando era troncato il grande cordone ombelicale con il musical americano. Fu indubbiamente longeva: nata al Cairo il 3 novembre 1913 è morta quest’anno (esattamente il 16 maggio) nei pressi di Vienna. Pertanto più che novantenne. Lavorò per circa un trentennio– dal 1930 ai primi anni ’60 – riuscendo a recuperare in piccola parte nel dopoguerra l’antica notorietà, evidentemente legata non solo al suo talento ma anche, e forse soprattutto, ad un momento di obbligato fulgore della cinematografia tedesca, in cui questa oriunda ungherese svolse quasi tutta la carriera. Ho trovato anche due tardivi titoli da lei interpretati. L’uno del 1973, per la TV, “Der Letze valzer”, l’altro del 1988 “Schlos Königswald”. Non mi chieda di più.



Caro D.O.D Holliday non ho più avuto risposta alla mia lettera di mesi fa riguardante i caratteristi del cinema italiano, come mai? Posso sperare in un suo riscontro? Grazie(....) Cordiali saluti e sempre tanti complimenti per la stupenda rivista “Film DOC” che vedo e leggo sempre con molto interesse.
MARIO di NERVI.


Ho tolto una sua richiesta di parere riguardante “2046”. Non ho visto il film e perciò non ne parlo (se avrò spazio, la prossima volta tornerò sul regista Kar Wai Wong). Sin qui non ho risposto alla sua lettera precedente (di molti mesi fa, ma sempre attuale) perché era - ed è - di una lunghezza tale da sbaraccare l’intera rubrica. Il tema di fondo era questo. Mario di recente aveva visto due film, “Gente di Roma” di Ettore Scola e “Ti spiace se bacio mamma” di Alessandro Benvenuti; in entrambi lavora Arnoldo Foà (classe 1916) e nel primo anche Fiorenzo Fiorentini che recitava il Belli ai passeggeri di un autobus (purtroppo Fiorentini nato a Roma il 10 aprile 1920 vi è morto il 27 marzo 2003. La sua carriera è stata marginale e insieme eccezionale, varrà la pena di riparlarne. Foà, personaggio straordinario che io conosco bene, è invece fortunatamente vivo e vegeto, attivissimo e strabordante, sempre in giro per l’Italia a dar vita a inarrivabili recital, grazie ad una baldanza fisica da giovanotto e ad una voce narrante di fatto ormai senza pari ).
Mario di Nervi prendeva lo spunto dalla presenza di due attori d’eccezione come Foà e Fiorentini – curiosamente sono entrambi ebrei, anche se assolutamente non praticanti ed osservanti, a testimonianza del vitale talento artistico proprio di tantissimi israeliti come la storia di Hollywood insegna - per poter ricordare quella che fu una gloria del cinema italiano, e che ora, salvo qualche caso, è soprattutto una gloria del passato. E cioè la presenza di una schiera numerosa e valorosa di caratteristi che hanno fatto grande il cinema italiano (lasciamo stare qui il periodo muto) almeno dagli anni’30 sino agli anni ’80.
Non posso citare tutti gli attori ricordati da Mario di Nervi. Mi limito a qualcuno soltanto: Guido Alberti, Ernesto Almirante, Gigi Ballista, Gugliemo Barnabò, Arturo Bragaglia, Carlo Campanini, Nando Bruno, Mario e Memmo Carotenuto, Claudio Ermelli, Giacomo Furia, Corrado Gaipa, Armando Bigliari, Luigi Pavese, Cesare Polacco, Franco Coop, Camillo Pilotto, Turi Pandolfini, Mario (e, più rivistaiolo, Raffaele) Pisu, Gigi Reder, Virgilio Riento, Carlo Tamberlani, Saro Urzì, Vinicio Sofia, Vincenzo Talarico, Nino Vingielli, il mio caro amico Leopoldo Trieste e tanti, tanti altri, che Mario nomina e che lascio nel computer (un tempo si diceva nella penna!). Molti, lo ricorda anche lui, sono stati grandi doppiatori. Altri, che egli cita sono quasi protagonisti, come Paolo Stoppa, Claudio Gora, Enrico Glori, quelli che un francese chiamerebbe forse “Deuxieme couteaux”, diciamo deuteragonisti.
Perché sono importanti? Per spiegarlo bene ad un eventuale lettore giovane - ma ce ne saranno per questa rubrica ? –bisogna ricordare che in ogni industria cinematografica in qualche modo organizzata sono in fondo i caratteristi a dar vita alla struttura portante del racconto. Senza di essi i divi non hanno modo di campeggiare e di accentrare lo sguardo degli spettatori. Ed ogni cinematografia vitale conta in genere su un gran numero di caratteristi. I quali consentono divagazioni e ritorni al permettendo di riproporre alcune figurette fondamentali (il cameriere sciocco, l’amico discreto, il provinciale pomposo, la servetta stravolta, la bottegaia astuta, eccetera) su cui si articolano da tempo immemorabile le commedie e le tragedie dell’arte. Grazie ad un mondo diverso da quello attuale (il pullulare delle compagnie di giro, il fiorente avanspettacolo, fucina di comici minori e geniali, le centinaia di film in produzione e quindi l’alta richiesta di personale, eccetera), i caratteristi nascevano, si formavano, erano utili e riconosciuti. Il cinema li alimentava ed essi alimentavano il cinema.
Un mondo perduto, su cui vorrei tornare in qualche prossima puntata.


(Film D.O.C., anno 13, n. 61, Gen.-Feb. 2005)
LA POSTA DI DOC HOLLIDAY (19)


Come anticipato ricomincio qui a pubblicare alcune delle lettere della Posta di D.O.C. Holliday nel consueto ordine cronologico. Di seguito apparirà la corrispondenza tratta da 7 numeri di Film DOC.

Ho letto tante critiche di “Spiderman 2" ma non mi convincono. Secondo lei è meglio del n° 1? Spero che risponderà sulla rivista. Grazie anticipate.” –
GINO SAVIO, Corso Sardegna , Genova.



Il problema è che (lo confesso) non ho visto il numero 1. In compenso ho visto il n° 2. Tuttavia per quel che riguarda il primo film – diretto anch’esso da Sam Raimi e centrato su un personaggio di fumetti inventato nel 1962 negli Stati Uniti, per i Marvel Comics, da Stan Lee e disegnato da Steve Ditko - ho cercato di documentarmi. Ad esempio ecco quel che ne hanno scritto a suo tempo due vecchi amici del cui giudizio, generalmente, mi fido. Cerco di ridurre al minimo le citazioni che tuttavia, perché abbiano un senso, debbono comunque avere un minimo di lunghezza. Do per scontato il fatto che si sappia preventivamente che il film, e prima il fumetto, si basano sull’ipotesi che un giovane studente miope, timido e solitario sia stato morso da un un ragno tutto speciale che lo trasforma così in un Uomo Ragno, Spider Man appunto, dotato di vista acutissima, di muscoli d’acciaio di una capacità unica di lanciarsi nel vuoto e di afferrare gli oggetti grazie ad una emulsione gelatinosa che sgorgando dai polsi può produrre infinite ragnatele gigantesche.
Cominciamo con Tullio Kezich (“Corriere della Sera”, 8.6.2002): “.......quella di Spider-Man 2. (..) è una leggenda metropolitana a sfondo triste. Se il fumetto è immobilità, il cinema è movimento. Molto difficile quindi trasferire un racconto dall’esposizione folgorante e congelata della pagina alle fantasmagorie dello schermo. Bisogna dire che il regista Sam Raimi, anche grazie all’operatore Don Burgess, che si avvale di effetti speciali estremamente raffinati, ci riesce bene: sicché la New York tetra e gotica del film, attraversata dalle parabole incrociate con l’arcinemico Green Goblin e terrorizzata dai loro conflitti, è una immagine da 11 settembre 2001. Il regista ha chiesto al “designer” Neil Spisak ed al costumista James Acheson, una ambientazione senza tempo (in mezzo a vari elementi postmoderni, i grattacieli sembrano castellacci medioevali e la redazione del giornale assomiglia a quella di “Front Page” negli anni ’30) mentre alla musica di Danny Elfman è affidato il compito di allarme perpetuo Tuttavia lo spettacolo si rivela vincente soprattutto sul piano dell’interpretazione”

Passiamo adesso a Valerio Caprara (“Il mattino”, 8.6.2002) (...) E’ del tutto inutile che il critico brillante e quello impettito s’affatichino a sanzionare se il film sia “bello” o “brutto”: l’aspetto innovativo e suggestivo dell’operazione sta nell’egemonia dello statuto filmico affermata dal regista Sam Raimi sin dentro le tipologie e i codici del fumetto. Dai grandi tableaux di Batman e Superman sono stati tratti film di tutto rispetto, ma raramente come in questo caso la contaminazione – una serie di innesti di forme visive e di ritagli narrativi- tra cinema e letteratura, pittura e sociologia è risultata così creativa e approfondita. Rispetto al supereroe inventato da Stan Lee (...) la stupefatta normalità del bravo Tobey Maguire (l’attore protagonista –N.d.R.) è perfettamente in grado di riprodurre, se non di radicalizzare, l’immersione del personaggio nei dilemmi tortuosi della doppia identità, il suo dibattersi in una rete di prigionie invisibili, di strappi emotivi che ne intensificano il pathos del dubbio e dell’incertezza da teenager. (......) Ciò che conta è il talento di Sam Raimi, che usa la cinepresa come una leva proteiforme, sia per favorire carambole ottiche degne di “Matrix” sia per mimare le fibrillazioni organiche di qualsiasi anonimo mortale, sia per fare scorrere l’adrenalina sollecitando le paure psicanalitiche, dalla tipica sensazione della caduta libera a quella primaria del non essere all’altezza delle private sfide e quotidiane (...).

Veniamo ora a questa seconda edizione delle avventure del timido studente/ragno volante, che mi pare sostanzialmente vicina al clima creato dal primo film anche se l’atmosfera di ogni “sequel” è sempre inevitabilmente diversa dal capostipite (a volte migliore, a volte peggiore, non c’è una regola fissa). Tutto è confermato: la duplice natura del ragazzo Peter Parker interpretato da Tobey Maguire, la trepida presenza di Kirsten Dunst (nei panni della giovane attrice Mary Jane Watson). E la nuova, cupa minaccia del cattivo (Doc Hoxk/Dottor Otto Octavius) sorretto con notevole disinvoltura dall’ambiguo Alfred Molina. La vocazione di recupero sofisticato di un popolarissimo fumetto è di nuovo evidente, in questo prodotto confezionato con grande impiego di modernissimi trucchi e di calibrata rievocazione d’epoca (un’epoca abilmente sospesa fra il presente, il passato ed il futuro, come accade con tanti cartoons). Io non mi sono annoiato a vederlo, ed è già molto. I bambini presenti erano doverosamente affascinati, come è giusto che accada, in presenza di un sogno incarnato che evoca tutti i grandi fantasmi della nostra infanzia: lo sdoppiamento fra il personaggio mediocre e l’eroe, la possibilità di volare fra la case come un acrobata senza confini, le reti che nascono dai polsi e consentono ogni sorta di acrobazie e di combattimenti.
E’ ovviamente possibile e doveroso, ma nel fondo non facile chiedere di più al cinema.

Mi pare di non aver risposto a Nicola Montaldo (Ge-Sestri) che mi chiedeva chi fosse il doppiatore di Richard Gere: da tempo è prevalentemente Mario Cordova. In altre occasioni il doppiatore è stato Michele Gammino.

(Film D.O.C., anno 12, n. 60, Nov.-Dic. 2004)