Non è facile scrivere di Oreste Lionello in presenza di un plebiscito televisivo in cui tutti i suoi compagni di lavoro hanno gareggiato nel tesserne elogi d’ogni tipo, mi auguro sempre sinceramente. Così come non è semplice recuperarne i lineamenti artistici di fronte ad un successo globale, che lui non faceva nulla per diminuire o circoscrivere. Sarebbe anche troppo facile dire che la sua partecipazione, come quella di Leo Gullotta, era fin troppo superiore al livello medio del Bagaglino ed a quello dei comici che ne compongono il tessuto. In realtà, Oreste aveva una straordinaria capacità di adeguarsi alla tenuta dei suoi compagni di lavoro, ed al tempo stesso di lasciarseli alle spalle con un solo movimento del sopracciglio. I suoi talenti erano eccezionali ma sembravano comuni proprio per la sua estrema semplicità di muoversi e di parlare. Non è un caso che egli eccellesse non solo nelle impennate improvvise della parodia (il suo Andreotti, senza la minima necessità di trucco, era diventato ormai una bandiera) ma anche nell’oscuro eppur delicatissimo lavoro di fondo del doppiaggio. Non faccio qui cenno della voce clamorosamente imprestata a Woody Allen (e probabilmente anche delle “aggiunte” al testo originale che egli praticava con lo scrupolo inventivo del grande adattatore), per non parlare di Gene Wilder e molti altri, ma proprio del lavoro di base e di rifinitura che costituisce il segreto della “traduzione” di una sceneggiatura in un’altra lingua. Lavoro solitamente trascurato e mal pagato e che pure implica una contestuale difficoltà. Come mi diceva sempre uno dei miei più cari amici nell’ambiente, “Il lavoro dell’adattatore è difficile e incompreso perché è uguale a quello del traduttore di un romanzo o di un testo teatrale, ma è condizionato dai movimenti labiali di un’altra lingua”.
Il suo retroterra era curiosamente intricato: nato a Rodi, era cresciuto a Reggio Calabria ma, adolescente, era stato partigiano in Veneto, trovando quindi il tempo, prima di approdare in teatro, per esperienze diverse, fra cui una Laurea in Legge.
Fra le sue capacità c’era, appunto, quella di lavorare sui testi. Io me ne accorsi anni fa alla RAI quando decisi di importare tutti i film inediti interpretati dai fratelli Marx. Purtroppo non ci riuscii per problemi di diritti e dovetti accontentarmi di “Duck Soap”, peraltro forse il più famoso. Tenuto conto della fragorosa irrequietezza delle immagini e dei dialoghi lo battezzai con un titolo, credo ancora oggi difendibile: “La guerra lampo dei Fratelli Marx”. Ed ebbi la fortuna che fosse proprio Oreste Lionello ad occuparsi del doppiaggio. Ed io che lo conoscevo poco ebbi modo di constatare la tranquilla ingegnosità con cui adattava il dialogo ai gesti, condizionati dai giochi di parole inglesi, dell’originale. Se si vede il film con calma e con attenzione non è difficile ammirarne il virtuosismo. Lo persi di vista per anni ma ebbi poi molte occasioni di incontrarlo alla Mostra di Venezia, quando veniva al Lido, invitandomi ogni volta, insieme alla cara Giuliana, in ristoranti di lusso, e nascondendo ogni volta la gentilezza dietro le pieghe di un garbo signorile. Andare in giro con lui al Palazzo del Cinema era sempre un divertimento e una sorpresa. Abituato sin dalla giovinezza ad andare in giro nei palazzi del Festival munito di tessere e “badge”, che mostravo ossequiosamente a destra e sinistra, non riuscivo ad accettare l’idea che andare in giro con Oreste rendesse tutto inutile: scattavano sull’attenti le maschere, ma anche gli ufficiali dei carabinieri, a testimonianza di una popolarità totale e automatica, paragonabile solo a quella di cui si godeva andando a passeggio per Roma insieme ad Alberto Sordi (i quiriti, inizialmente distratti o scettici, quando lo riconoscevano cadevano in catalessi. Le reazioni dei veneziani erano sostanzialmente affini, anche se meno clamorose).
Ebbi anche un’occasione più articolata per avere rapporti con Oreste. In una delle edizioni di “Voci nell’ombra”, il Festival del doppiaggio, prima di Finale Ligure e poi di Sanremo di cui sono dalla fondazione direttore artistico, Oreste ebbe la gentilezza di organizzare insieme a Tatti Sanguineti un omaggio vocale a Fellini che com’è noto gli affidò gran numero di voci di “Prova d’orchestra” (1979). E solo Lionello avrebbe potuto “sdoppiarsi” come Fellini richiedeva. Anche lì ebbi occasione di constatare non solo il garbo ma il grande scrupolo professionale di Lionello, che fece di quella serata un “unicum” non ripetibile.
Ecco dunque i frammenti di una conoscenza personale, protratta nel tempo ma anche ostacolata dal fatto che dal 1995 son tornato a vivere a Genova e che quindi le occasioni di andare a Roma sono diventate, anche per ragioni di salute, via via più difficili.
Adesso me ne rimane la tristezza e il rimpianto.
Claudio G. FAVA
2 commenti:
quello che stavo cercando, grazie
Perche non:)
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