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4 marzo 2010

Ma quella Genova dov’è finita?


(Nella foto qui sopra: Piazza Ponticello. Una piazza ormai scomparsa, ma cantata da Mario Capello. Quello di "Ma se ghe penso")

Le notizie sui tagli delle Ferrovie ai collegamenti con Genova mi rattrista ma non mi stupisce. Durante il periodo in cui ho abitato a Roma (1970-1996), ho imparato a conoscere, in una versione già peggiorata rispetto al passato le Ferrovie italiane, con i loro ritardi ed il loro materiale deteriorato. Ma ho anche vissuto l’ultimo periodo della “Coock Wagon-Lits”, con l’impagabile personale di cucina e di servizio che accudiva ai vagoni ristoranti (divennero tutti amici ed erano ancora perfetti esemplari di quelle complesse strutture umane di una volta, che davano vita ai “camerieri all’italiana”). Ed agli ultimi vagoni letto che collegavano Genova a Roma; ce n’era ad esempio uno, da Principe, sul quale si saliva verso le undici di sera e che partiva all’una. Negli scotimenti del primo sonno si avvertiva l’avvio ottocentesco del vagone, quell’impagabile rumore di viaggio che era l’istanza sonora delle ferrovie, e ci si risvegliava verso le sette del mattino nel primo frastuono di Termini. Come si vede, un’antica dimestichezza che mi rende vicino a tutti i problemi ferroviari della città. I quali sono soltanto un frammento del complesso meccanismo di decadimento che avvolge la Genova di oggi come una nube tossica. Mi si affacciava questo tema alla mente qualche giorno fa, mentre sfogliavo un libro che appartiene a mia moglie e che è uno di quei lussuosi involucri di fotografie tipici delle banche, quando danno vita ad opere celebrative. In questo caso, in particolare, si tratta di: “Genova come era – 1870-1915”, pubblicato nel 1987 dalla Carige e scritto, cosa inaspettata, da Luciana Frassati. Dico inaspettata perché Luciana Frassati è stata una nobildonna piemontese (nata nel 1902 a Pollone, in provincia di Biella), figlia di quell’Alfredo Frassati che aveva fondato e diretto la Stampa, inizialmente come “Gazzetta Piemontese”, per molti anni, prima di essere costretto a venderla (nel 1926 la comprarono gli Agnelli, tuttora proprietari). Vecchio e fedele giolittiano fu nominato ambasciatore a Berlino e qui sua figlia Luciana, che si era brillantemente laureata in Legge, venne a contatto con un mondo di diplomatici, fra cui trovò anche il marito, l’ambasciatore polacco Jan Gawronsky (Luciana ne ebbe sei figli, fra cui Jas che sarebbe diventato giornalista, deputato e corrispondente della RAI). Perché una importante signora piemontese (sorella di quel Pier Giorgio Frassati, morto a 24 anni e proclamato beato da Giovanni Paolo II) si occupi così tanto di Genova non è chiarito e vi allude solo una brevissima dedica: “In ricordo di Rosetta Doria”, con la scritta “Dalla città del faro accendi il buio della lontananza”. Sfogliare oggi questa straordinaria collezione di fotografie d’epoca (come è specificato nel titolo si va dal 1870 al 1915) fa impressione e per un genovese è addirittura terrorizzante. Ne vien fuori una città di straordinaria vitalità e di raffinata eleganza; una città ingannevolmente ricca (le splendide fotografie raccolte nel libro riguardano un ambiente in larga parte aristocratico o alto-borghese), ma soprattutto in preda ad un esplosivo moto ascensionale. Genova era allora veramente una delle città più importanti del regno, che dettava legge non solo per ciò che riguardava il mondo armatoriale, ma anche quello dei teatri (a Genova ce ne furono sempre molti) e più largamente del giornalismo e della letteratura. Fra i nomi delle persone ritratte vi sono tutti quelli che dettero vita al mito otto-novecentesco di Genova: dai Perrone ai Raggio, con il corredo di nomi altolocati che ne costituirono l’ornamento e la chiave del successo. Gli Ansaldo, i Bombrini, i Boggiano Pico, i Brignole-Sale, i Carrega Balbi di Lucedio, i Cattaneo Adorno, i Centurione Scotto, i D’Invrea, i Durazzo, i Gavotti, i Negrotto-Cambiaso, e via via sino alla “zeta” l’ostensione dei nomi nobiliari della città, a fianco dell’elenco di borghesi ricchi, o che lo sarebbero diventati. Tutti insieme gettavano le basi di una città che era veramente uno dei lati del grande triangolo industriale che stava sconvolgendo l’Italia sabauda e piccina del Risorgimento.
Un mondo potente, che affondava le sue radici in una Genova in fondo assai simile a quella medioevale, anche nei suoi rapporti col mondo. Non ne rimane nulla. Nel giro di meno di un secolo l’abbiamo ridotta ad una cittadina portuale, abituata a vivere dell’aiuto e dell’elemosina di uno stato lontano. Ma com’è successo? Non lo sapremo mai.

Claudio G. FAVA

1 commento:

Anonimo ha detto...

Com'è andato a finire il caso Tatti Sanguineti?
Matteo