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29 settembre 2008

Vedi Napoli e poi (sicuramente) muori

Vedendo “Gomorra” di Matteo Garrone, si provano reazioni molto complesse e in parte contraddittorie. Ci si rende subito conto di essere in presenza di un grande film dove il regista e uno stuolo di sceneggiatori riescono a portare sullo schermo il magma ribollente che agita come una forza biologica parallela il tessuto della società napoletana. Fra gli sceneggiatori ci sono lo stesso Garrone e Roberto Saviano, l’autore del libro da cui il film è tratto e che, per intervento dell’allora Ministro Amato e per vergogna d’Italia, deve vivere con una scorta delle forze dell’ordine.
Molti film d’ambiente mafioso fanno baluginare i confini impercettibili ma ferrei di un mondo dove chi è estraneo alla malavita è per sua natura un diverso ed, in certo senso, un malato. Qui in particolare la descrizione è apparentemente distratta, ma in realtà minuziosa, ed evoca uno sfondo dove vecchi, adulti e ragazzi, uomini ma anche madri di famiglia, agiscono tutti all’interno della stessa dialettica e, verrebbe fatto di dire, della stessa rigida gradazione di valori. C’è un’altra Legge, apparentemente non scritta, che regola le azioni di tutti. Tutti rigorosamente camorristi senza che nessuno avverta la possibilità di vivere in un modo differente. La spaventosa periferia urbana e il dirupato mondo contadino sono le due scansioni fisiche entro cui la Camorra trova naturale riparo, anzi che servono a misurare tutte le cose senza dubbi e senza crisi di coscienza (fatte salve le secessioni e le scissioni che scuotono vite e destini degli affiliati).
Garrone, classe 1968, fino ad ora con questo sette lungometraggi, fra cui non si può non ricordare l’eccellente “L’imbalsamatore”, dimostra qui una toccante maturità ed una vaporosa scorrevolezza che gli consentono di evocare un brulichio di personaggi articolati in non meno di cinque frammenti narrativi: essi riguardano il piccolo Totò (Salvatore Abruzzese) che paga il suo scotto al feroce apprendistato; il ragionier Ciro (Gianfelice Imparato) che porta lo “stipendio” della Camorra alle famiglie dei carcerati; il sarto Pasquale (Salvatore Cantalupo) che produce grandi modelli per la “Haute Couture”, ma fa anche il maestro di un’ossequiosa classe di clandestini cinesi; il freddo e cinico Franco (Toni Servillo) abilissimo nel riciclare in Campania i rifiuti ambientali di una ineccepibile società del nord; e infine i due animaleschi adolescenti Marco e Ciro (Marco Macor e Ciro Petrone) che sognano solo una cosa: sparare. E verranno puntualmente uccisi.
Il livello medio dell’interpretazione (ed ho menzionato solo alcuni degli attori) attinge a quelle punte di genialità che sono tipiche di un certo cinema d’ambiente napoletano (si pensi al Nino Vingelli de “La sfida” di Francesco Rosi, del 1958… o a tanti figuranti di un altro film dello stesso Rosi, “Le mani sulla città” del 1963). Ma qui la coralità della recitazione raggiunge sapori toccanti per l’intensità e la profondità dei toni e dei passaggi al punto che il grande Toni Servillo è indubbiamente eccezionale, ma al suo stesso livello recitano i relativamente poco conosciuti Cantalupo e Imparato. In omaggio a quelle misteriose capacità di recitazione che fanno di tanti napoletani dei potenziali, impeccabili protagonisti in grado di dar vita ad una fisiologica popolazione di attori, eguagliati solo, per talento e graduazione di toni, dagli inglesi.
Più largamente, vedendo il film, si è via via permeati da una sorta di incredula stupefazione. Come ha potuto una città, che sotto tanti profili si trova al livello massimo della cultura nazionale, cadere in preda ad una metastasi maligna che sembra averne contagiato il corpo con la stessa lucidità delinquenziale con cui, ad un certo momento, è caduta vittima di una stravolta utilizzazione dei rifiuti urbani?
Francamente non ho una risposta.
Claudio G. FAVA
("EMME-Modena Mondo", a. 2, n. 68, 4 Giugno 2008)

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