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6 febbraio 2009

CAMERA EYE: TESTIMONIANZA SU SORDI



Un giornalista, Carlo Calabrese, mi ha scritto nei giorni scorsi chiedendomi una breve testimonianza su Alberto Sordi da inserire in un libro che egli, per conto della casa editrice Edi Lazio diretta da Winlly Pocino, sta scrivendo sull’attore. Vi saranno anche contributi di Gian Luigi Rondi, Giuliano Montaldo, Carlo Lizzani, Carlo Verdone, Mario Monicelli, Piera Degli Esposti, Franca Valeri, eccetera. L’ho scritta e gliel’ho inviata. Poiché, al di là della vanità personale, mi sembra un accettabile frammento di riflessione, ho deciso di ricopiarlo qui nel Blog (a giudicare dalle mancate testimonianze che riguardano quasi tutto quello che ho pubblicato in questo diario telematico, così facendo l’ho anche votata all’oblio).


Non è facile per me scrivere poche righe su Alberto Sordi. A suo tempo gli dedicai un librone (con utili collaborazioni di Umberto Tani ed Enrico Lancia) che a qualcosa deve essere servito, visto che un altro biografo di Sordi, Goffredo Fofi, a suo tempo mi ha inviato affettuosamente una copia del suo libro (“Alberto Sordi – L’Italia in bianco e nero”, edito da Mondadori nel 2004) con una dedica che dice: “Caro Claudio, senza il tuo “Gremese” avrei faticato il doppio. Te ne sono infinitamente grato”, concetto ribadito anche nell’introduzione. E questo perché l’operosissima vita di Sordi è talmente stipata di avvenimenti e di film che è impossibile ricostruirla in poche pagine. A dirlo così sembra strano, ma su Sordi ho molto riflettuto. Che cosa fa del suo tragitto professionale un “unicum”, anche sullo sfondo di una cinematografia fittissima di personaggi di talento e di invenzioni? Si tratta, in realtà, di una intrusione estremamente violenta delle sue caratteristiche “etniche” all’interno di un mondo di spettacolo che viveva in modo doloroso e creativo il passaggio fra il dialetto e la lingua. Con questo voglio dire che Sordi recupera, con inconsapevole ma straordinaria tensione morale, il taglio cesareo che, invece di dividere, paradossalmente salda l’Italia di Vittorio Emanuele III – dove, durante la prima guerra mondiale, i giovani ufficiali morivano in italiano e i loro soldati morivano in dialetto – con quella già italofona di De Gasperi, ove De Sica sembrava un pericoloso rivoluzionario e il giovanissimo Fellini si apprestava, nel futuro, a fornire sogni barocchi per una Roma gongorista. All’interno di quella stessa Roma, Sordi si mosse con una fisiologica intensità che gli consentì, più volte, di porsi all’incrocio di diversi momenti della nostra storia: la sua apparizione nel cinema italiano venne salutata come l’occasione d’una ritrattistica nostrana che ne faceva un tipico esempio di italiano dei tempi moderni. E cioè cinico, furbesco, all’occasione prepotente o servile, pronto a gettarsi sul carro del vincitore, ma anche a incarnare inaspettati risvolti morali. Quando cominciò a diventare noto, io scrissi un suo ritratto intitolato “Un italiano formato tessera”. Con l’andare del tempo ho capito di avere sbagliato. Non vorrei che questa affermazione offendesse qualcuno, ma credo che la vera dizione dovrebbe essere “Un romano formato tessera”. In effetti, in un cinema italiano girato e pensato a Roma, dove in apparenza le commistioni linguistiche fra la lingua e il dialetto sono continue, automatiche, insistite e a volte maniacali, una distinzione del genere può apparire immotivata. Mentre invece risponde ad una profonda esigenza, che vorrei definire “narrativa”. In un cinema ambientato a Roma, Sordi era uno dei pochi, veri romani, capaci di superare il folklore, sia pure toccante, dei Carotenuto e dei Fabrizi. Tutto in lui implicava una cittadinanza capitolina che lo riportava indietro di secoli. Il suo rapporto con la Chiesa e con il Papa è splendidamente implicato in alcuni film di Gigi Magni e ne “Il marchese del Grillo” di Mario Monicelli: quando apparve nel 1981 sembrò soprattutto un divertente elzeviro romanesco e invece, visto e rivisto adesso, possiede molte caratteristiche di un capolavoro. In realtà Sordi era un romano anteriore all’unità d’Italia, il quale ha continuato silenziosamente a vivere, con il Papato e con la Chiesa, un rapporto profondo e “contemporaneo”, che non solo non escludeva, ma anzi implicava, unghiate ironiche e strizzatine d’occhio, tipiche di un popolo che ha sempre visto nel Papa un personaggio duplice: vicario di Cristo ma anche prefetto di Trastevere e di Monti, delegato ad occuparsi non solo della salvezza dell’anima ma anche della fisica amministrazione della “monnezza”. Una sua straordinaria battuta su Giovanni Paolo II poteva nascere solo sulle labbra e nel cuore di un suddito di altri tempi (infatti una volta mi disse: “Ma questo Papa, quando dice – e qui imitò l’accento polacco – “La Matonna”, che fa? Bestemmia?”).
Questo era il mondo come lo vedeva Sordi e come lo reinventava Sordi, romanescamente capace di beffardi ritratti di monsignori (si veda quel suo personaggio al centro de “L’ascensore” di Luigi Comencini, episodio contenuto ne “In quelle strane occasioni”, ove vestendo e svestendo abilmente la tonaca, possiede appunto in un ascensore la Sandrelli e poi le spiega che non sono colpevoli perché, dato il guasto meccanico, erano privi del libero arbitrio).
Ma egli fu anche capace di offrirci sofferte partecipazioni all’umanità dei personaggi, con una scioltezza ed una testarda applicazione al lavoro che adesso ci fanno capire che, in realtà, si trattava di un genio.

Claudio G. FAVA

3 commenti:

Anonimo ha detto...

La ringrazio per intiresnuyu iformatsiyu

Anonimo ha detto...

necessita di verificare:)

Anonimo ha detto...

molto intiresno, grazie