(Qui sotto: la vera immagine di Claus von Stauffenberg)
Questo vale per la maggioranza ma non per tutti gli ufficiali. Qui non ho lo spazio per ricostruire il complesso panorama della parte via via non nazista della Germania, che doveva scoprire un mondo di potenziale rivolta. Bisogna anche ricordare che in certo senso le condizioni di partenza di Hitler furono quelle più adatte a farlo amare dai tedeschi. Combatté le conseguenze eccessive del trattato di pace, che praticamente rendevano impossibile l’equilibrio amministrativo del paese. Riuscì a riportare una stabilità contabile che eliminò la rincorsa furente al valore della moneta (con i biglietti di banca che valevano ognuno milioni di marchi ed il cui valore variava dalla mattina alla sera). Grazie alle grandi imprese di lavori pubblici ma anche a enormi impegni nel campo dell’armamento, riportò la maggioranza dei tedeschi al lavoro, creando ovviamente un clima di ottimismo. E seppe lusingare il vecchio ma sempre vivo sentimento di orgoglio patriottico che era stato una delle caratteristiche della società tedesca. Per rendersi conto che Hitler si stava avviando ad una guerra mondiale senza averne completamente i mezzi, e che al tempo stesso stava imprigionando la nazione intera grazie ad un meccanismo dittatoriale sempre più sfacciato e feroce, era necessario conservare lucidità ed equilibrio. Solo pochi fra i militari di carriera, che non di rado riproponevano l’altezzosa solitudine nobiliare degli “junker”, possedevano gli strumenti culturali e morali per arrivare a formulare giudizi freddi e lucidi, e ancor meno erano quelli disposti ad arrivare sino in fondo. Vale a dire a rendersi conto che se si voleva impedire che Hitler sporcasse per sempre il nome della Germania, viste le forsennate caratteristiche dittatoriali del suo regime, era inevitabile arrivare ad ucciderlo. Ovvero violare il giuramento di fedeltà nel modo più completo e traumatico. Eppure furono in migliaia nelle forze armate ad arrivare a tale decisione estrema. In parte per un ostinato legame con un’interpretazione lucida e restrittiva dei propri doveri militari. In parte per una cristiana consapevolezza (cattolica o protestante, poco importa) degli obblighi morali continuamente violati dall’organizzata ferocia in cui operavano le organizzazioni naziste in generale, e in particolare le S.S., ed i diversi gruppi e corpi di sicurezza che da esse derivavano. E in parte per furbizia, cercando di saltare in tempo sul carro del vincitore. Ecco dunque perché, sin da prima che la guerra scoppiasse, una frastagliata ma ostinata resistenza al nazismo si era affermata nelle forze armate e particolarmente nell’esercito, “Heer”: l’aviazione, la “Luftwaffe”, era la più nazista di tutte, cappeggiata da un ex asso della prima guerra mondiale divenuto uno degli esponenti più in vista del partito, e cioè Goering; la marina, “Kriegsmarine”, era rigidamente professionale, nello sforzo mai celato di imitare gli inglesi, ma certamente poco sensibile ad altre sollecitazioni, anche se fu proprio un marinaio, l’ammiraglio Canaris, a comandare per anni il servizio unificato di informazioni della Difesa, la “Abwehr”. Ove, operando con scaltra ambiguità, seppe chiudere spesso un occhio se non due su coloro, fra i suoi sottoposti, che palesemente cospiravano contro Hitler.
Un altro elemento fondamentale nella cospirazione fu rappresentato, come si accennava prima, da quell’elemento religioso che si incarnava in diversi prelati di ambo le chiese e in molti borghesi, spesso in grado di animare movimenti specifici di Resistenza. Come ad esempio il Conte Helmut James von Moltke, discendente del famoso maresciallo, che aveva studiato ad Oxford come molti del suo ambiente e fu al centro di quello che venne chiamato il Circolo di Kreisau. (si vedano le motivate riserve di Luciano Garibaldi nel suo articolo riportato in calce e per lo ringrazio ancora).
Non è pertanto un caso che, una volta scoppiata la guerra, vennero organizzati non meno di diciassette tentativi di uccidere Hitler. Spesso sventati dall’incredibile fortuna che fino all’ultimo lo protesse. Si ricordi che non era semplice isolarlo e arrivare a colpirlo all’interno del complesso sistema di controlli che lo circondavano nella cosiddetta “tana del lupo”, dove trascorse la parte finale del conflitto, per non parlare dei sotterranei della cancelleria, dove poi si suicidò.
L’azione narrata nel film
La sceneggiatura di Christopher McQuarrie e Nathan Alexander ricostruisce puntualmente il meccanismo di fondo che portò un gruppo di alti ufficiali congiurati ad effettuare l’attentato del 20 Luglio 1944, che consistette nella posa di un ordigno esplosivo al’interno di un salone dove Hitler aveva indetto per quella mattina una riunione di tutti i maggiori responsabili della condotta della guerra. Come è noto, l’esplosivo era contenuto in una borsa che il più deciso e lucido dei congiurati, il colonnello Klaus Schenk Graf von Stauffenberg (Graf significa “conte”, ma era stato incluso nel cognome quando nel primo dopoguerra la Repubblica di Weimar aveva abolito i titoli nobiliari) era riuscito a deporre nel salone. Per attivare l’esplosivo Von Stauffenberg, che combattendo in Tunisia aveva perso un occhio, una mano e tre dita del’altra, dovette lungamente esercitarsi con una pinza, per riuscire a tagliare i condotti dell’acido destinato ad attivare la detonazione. E solo lui fra i congiurati aveva un pretesto per partecipare alla riunione, in qualità di Capo di Stato Maggiore dell’“Ersathzeer”, e cioè dell’esercito territoriale di riserva, che comprendeva un ampio numero di soldati. E che aveva elaborato un piano nazista, che si chiamava appunto “Valchiria” o “Operazione Valchiria”, per proclamare lo “stato d’assedio” nel caso i milioni di lavoratori stranieri ospitati in Germania avessero creato torbidi o si fossero rivoltati. I congiurati, fra cui Stauffenberg era forse il più deciso e il più intelligente, avevano premuto per utilizzarlo in modo da avere la forza per impadronirsi del potere, arrestare poi i comandi del partito e delle S.S., e proclamare l’avvento di un nuovo governo. Il film segue puntualmente la preparazione dell’attentato, l’avventuroso percorso di Stauffenberg all’interno della “tana del lupo”, le complicate manovre per attivare l’esplosivo in modo da collocare la borsa sotto il tavolo sul quale c’erano le carte geografiche che sarebbero state esaminate da Hitler, e infine il pretesto con cui Stauffenberg avrebbe dovuto lasciare la sala e, una volta constatata l’esplosione, raggiungere in macchina i posti di blocco esterni della “tana del lupo”, imbarcandosi sull’aereo che lo aspettava con i motori accesi. Uscendo da una sala devastata dall’esplosione Stauffenberg era ragionevolmente persuaso che Hitler fosse morto. Non poteva sapere che la borsa contenente l’esplosivo era stata spostata all’ultimo momento, sicché l’esplosione aveva ucciso diversi ufficiali ma aveva risparmiato miracolosamente la vita di Hitler, che pure ne aveva ricavato un incontrollabile tremito alla mano destra. Nel pomeriggio dello stesso 20 Luglio alla “tana del lupo” era giunto in treno Mussolini: i frammenti di cronaca girati in quell’occasione costituiscono anche una testimonianza sullo stato di salute del Führer. Sicuro di aver ucciso Hitler, come già detto, Stauffenberg riuscì a mettere in funzione il “Piano Valchiria” facendo arrestare a Berlino (ed anche a Parigi, ma qui non lo si vede) i comandi delle S.S. e del Partito Nazista, sfiorando il colpo di stato fino a quando Hitler non riuscì a mettersi in collegamento telefonico ed a riportare all’ordine le truppe. Com’è noto, tutti i responsabili del “putsch” vennero spietatamente uccisi a migliaia dalle S.S. (furono fortunati quelli ammazzati subito come Stauffenberg) mentre molti altri furono sottoposti a ignobili processi e impiccati poi a ganci di macellaio. Si arrivò al punto che il generale Von Stülpnagel, che aveva cercato di uccidersi e si accecò, venne trascinato al processo malgrado la sua dolorosa cecità. Per la verità vi fu anche qui si uccise come Von Treskov, mettendosi una bomba a mano sotto la gola. Il film è profondamente condizionato dalla presenza di Tom Cruise, che non ha la classe né la sottigliezza necessarie per restituire l’elegante distacco ironico del protagonista, un nobile bavarese di antica famiglia e di compiaciute frequentazioni culturali. Tom Cruise rende forse possibile la realizzazione del film, ma ne è anche un limite. Si confronti la sua recitazione allo scorrevole Von Treskov di Kenneth Branagh o all’austero Ludwig Beck di un irriconoscibile ma sempre dotato Terence Stamp (probabilmente dal film non si capisce l’importanza morale di Beck, profondamente rispettato da tutti, futuro Capo di Stato nei piani dei congiurati, e già Capo di Stato Maggiore dell’esercito, a suo tempo allontanato dalla carica a causa della motivata diffidenza di Hitler). Nel film resta impeccabile la struttura thriller, via via che ci si allontana dalla ricostituzione di un momento decisivo della coscienza morale tedesca, ove molti dei protagonisti, a cominciare dallo stesso Von Stauffenberg, agirono non solo o non tanto per scongiurare il pericolo di una sconfitta catastrofica ma per salvare le loro coscienze di fronte al ritratto di una Germania che bruciava i bambini nei forni.
I precedenti al cinema
(Qui sotto: un'immagine di Georg Wilhelm Pabst)
Sullo stesso tema è obbligatorio citare un film diretto nel 1955 da Georg Wilhelm Pabst (1885-1967), che riprende puntualmente tutti i risvolti di fondo utilizzati nel film di Bryan Singer, ma messi in scena da un tedesco con attori tedeschi a undici anni di distanza dagli avvenimenti che vi sono narrati e quindi con la sollecitazione di una memoria storica ancora prossima. Il film è “Accadde il 20 Luglio” (Es geschah am 20. Juli). La figura decisiva di Von Stauffenberg è affidata ad un attore di rilievo, Bernhard Wicki, che fu anche regista di qualche notorietà (si veda “Il ponte” e la parziale partecipazione a “Il giorno più lungo”) e, come interprete, ha lavorato in molto film ma in Italia è soprattutto ricordato per la parte dell’amico morente all’inizio de “La notte” (1961) di Michelangelo Antonioni. Per quello che riguarda il resto della distribuzione, la parte del fondamentale generale Beck (nel film recente non si coglie completamente la ragione della sua presenza) è affidata Karl Ludwig Diehl, quella del generale Fromm a Carl Wery, quella del generale Olbricht a Erik Frey, quella del generale Keitel a Jochen Hauer, quella di Goebbels a Willy Krause, quella di Von Witzleben a Ernst Fritz Fürbringer. Nel film tedesco figura anche, affidato a Malte Petzel, la figura del fratello di von Stauffenberg, Berthold, che fu anch’egli fucilato e che nel film americano mi sembra sia scomparso. Il film lo ricordo come ben diretto e compatto (è vero che è passato mezzo secolo!) e la presenza stessa di Pabst garantiva un soffio di dolorosa autenticità, risale alla parte finale della carriera. Vorrei ricordare che anche se questo film appartiene al frammento finale della carriera del regista (nato da famiglia viennese a Raudnitz, ora Radnice, attualmente compresa nella Repubblica Ceca ma che allora faceva parte dell’Impero austro-ungarico), Pabst è generalmente ricordato soprattutto per quella parte della sua traiettoria artistica che ai tempi del muto e del primo sonoro si svolse inizialmente in Germania (“Il vaso di Pandora”, “La via senza gioia”, “Diario di una donna perduta”, “Westfront ‘18”, “Kameradeschaft” e “Atlantide”), e poi per diverso tempo in Francia (“Mademoiselle Docteur-Salonicco nido di spie”) e negli Stati Uniti (“Shangai”). Contrariamente a tanti registi del cinema tedesco tornò in Germania poco prima dello scoppio della guerra e vi girò durante il conflitto diversi film, fra cui “I commedianti”, e dopo nello stesso anno, oltre al film su Von Stauffenberg prima citato, “L’ultimo atto”, ambientato nel bunker della Cancelleria durante gli ultimi giorni di Hitler.
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Sul film mi è arrivato un articolo di Luciano Garibaldi (e lo ringrazio anche per iscritto), per molti anni mio collega al “Corriere Mercantile”, protagonista di un giornalismo di divulgazione storica di notevole peso, che a suo tempo portò a termine un’accuratissima inchiesta sulla storia del 20 Luglio. Un suo libro sull’argomento, intitolato appunto “Operazione Valchiria”, è stato riedito di recente a cura delle Edizioni A.R.E.S. Luciano mi ha inviato l’articolo via e-mail, precisando che la prima destinazione è stata “Il Domenicale”. Con l’autorizzazione dell’autore lo riporto qui integralmente, dato che Luciano è sicuramente, e non solo in Italia, uno dei più autorevoli nel giudicare l’attendibilità morale e storiografica del film.
«OPERAZIONE VALCHIRIA»: UN FILM RIUSCITO
Ho visto il film con Tom Cruise «Operazione Valchiria» in una multisala di Milano, domenica 1° febbraio sera, e la prima cosa che mi ha colpito è stata constatare come il locale fosse gremito in ogni ordine di posti: e non solo anziani curiosi o nostalgici, ma coppie giovani, gruppi di amici. Insomma, un indubbio successo. Dovuto al soggetto o al protagonista? Difficile rispondere. Più facile esprimere un’opinione sulla validità del film. Che, a mio modesto avviso, va riconosciuta. Sia per l’indubbia capacità espressiva di Tom Cruise, sia per la fedeltà agli eventi storici, narrati generalmente con adesione alla realtà (qualche critica la farò dopo), al punto che, seguendo lo sviluppo degli eventi descritti sullo schermo, mi pareva di rileggere le pagine del mio libro.
Non c’è dubbio che lo sceneggiatore e il bravo regista Bryan Singer hanno deciso di attenersi ai fatti senza lasciarsi trascinare da pulsioni sentimentali o voli di fantasia, dando vita così a quello che potrebbe definirsi un documentario storico reso avvincente dai primi piani dei volti dei protagonisti, dall’ottima ricostruzione ambientale (perfetti le divise, i veicoli, i carri armati, le telescriventi, i telefoni), dai dialoghi, assai verosimili.
Lo spettatore che non conosce a fondo la dinamica del 20 luglio ha perfettamente capito che l’insuccesso del complotto fu dovuto alla componente umana dei suoi ideatori: se fossero stati molto più duri con chi esitava, molto probabilmente il «Putsch» sarebbe riuscito, nonostante l’insuccesso dell’attentato vero e proprio. Sarebbe bastato tenere in pugno la sede della radio (onde impedire a Goebbels di accedervi per diramare il primo dei suoi comunicati-stampa) e porre nell’impossibilità di nuocere il generale Fromm, comandante dell’Esercito Territoriale (Ersatzheer). Ma né Von Stauffenberg, né Olbricht, né – meno che mai – l’anziano e umanissimo Beck (destinato a diventare il nuovo Capo dello Stato) avrebbero mai ucciso a freddo un oppositore. Difatti, si limitarono a «dichiarare in arresto» Fromm, invitandolo a ritirarsi nel suo ufficio, da dove il doppiogiochista (che, in un primo tempo, aveva lasciato intendere di aderire all’Operazione Walkiria) poté trasmettere una serie catastrofica di contrordini telefonici, contribuendo al fallimento del piano.
Se una osservazione posso fare, sulla sceneggiatura, riguarda piuttosto il momento dell’attentato vero e proprio. Non sarebbe stato male dedicare cinque minuti delle riprese a ciò che accadde nella «tana del lupo», a Rastenburg, dopo che Von Stauffenberg uscì dalla baracca dopo aver collocato la borsa con l’esplosivo a un metro da Hitler. Lo spettatore vede infatti il colonnello uscire dalla sala delle conferenze, precipitarsi di corsa verso l’auto dove lo attende il fedelissimo Von Haeften, e poi la terribile esplosione, che dà l’idea di una vera e propria strage. Sarebbe stata certamente una scena di grandissima «suspence» descrivere i vari movimenti che la borsa subì a opera dell’ufficiale al quale essa impediva di avvicinarsi alla carta geografica stesa al centro del tavolo delle conferenze. Prima spostata un po’ verso destra, poi spinta al di là del pesantissimo zoccolo di legno del tavolo che salvò la vita al Fűhrer causando per contro la morte di tre ignari e innocenti ufficiali.
Ma in fondo si tratta di particolari. Una critica, invece (come accennavo prima), va fatta, allo sceneggiatore, e mi sento di farla. Essa riguarda l’assoluta dimenticanza della componente religiosa sia nella personalità di Claus von Stauffenberg, sia nello svolgimento degli eventi. Nelle scene girate all’interno del Circolo di Kreisau, in un certo senso quartier generale del complotto, non compare mai, neppure una volta, un religioso. Eppure la componente, sia cattolica sia protestante, della Resistenza tedesca, non solo esistette, ma fu importante quanto quella militare e quanto quella della diplomazia (gli ambasciatori a Mosca e a Roma). Basterebbe ricordare due delle più illustri vittime della repressione, il pastore protestante Dietrich Bonhöffer e il gesuita padre Alfred Delp. Allo stesso modo, nel lavoro cinematografico non v’è traccia di un episodio fondamentale della vicenda storica di Von Stauffenberg: il fatto che, esattamente dieci giorni prima dell’attentato, ossia il 10 luglio, si fosse incontrato con l’arcivescovo di Berlino, conte Konrad von Preysing, al quale aveva preannunciato che intendeva uccidere il Führer. Il cardinale non aveva inteso frapporre ostacoli religiosi alla sua decisione. Debbo sottolineare che, sul punto, non è stata mai fatta completa chiarezza. Quando lo intervistai a Berlino, padre Harald Pölchau disse di avere appreso senza ombra di dubbio, dai numerosi capi del complotto da lui assistiti in punto di morte nel carcere di Tegel, di cui era cappellano protestante, che Von Stauffenberg si era confessato, era stato assolto e si era anche comunicato. Nel suo libro «Shirt of Nessus» (Londra, 1956), Constantine Fitz Gibbon, storico irlandese, uno dei massimi studiosi del 20 Luglio, sostenne che Von Stauffenberg si confessò senza tuttavia ricevere l’assoluzione. L’arcivescovo Preysing gli avrebbe però detto che «non si considerava autorizzato a trattenerlo in base a motivi ideologici». Nel 1963 fu inaugurata a Berlino, nel quartiere operaio di Siemensstadt, la chiesa cattolica Regina Martyrum, edificata in memoria dei religiosi impiccati in seguito ai fatti del 20 Luglio. All’inaugurazione era presente il cardinale Döpfner, attorniato da tutti i vescovi della Germania. Tutti dissero che, avendo fatto costruire quel tempio, la Chiesa di Roma implicitamente aveva ammesso la liceità del tirannicidio.
L’omissione riguardante il capitolo religioso è però compensata, nel film, dalla saggia e opportuna decisione di non scendere nel patetico indugiando in superflue scene di affetto tra Von Stauffenberg e la giovane moglie, la contessa Nina. La quale (scomparsa nel 2006) non avrebbe comunque gradito si parlasse di lei neppure al cinema. Come fece con me quando mandò a monte l’appuntamento che in un primo tempo aveva accettato per lasciarsi intervistare. Dovevo incontrarla a Francoforte, ma era improvvisamente partita per la sua residenza di campagna di Bamberga. Così, le feci telefonare da una signorina nell’ufficio di «Inter Nationes», che aveva organizzato il mio viaggio in Germania, e chiedere, anzitutto, se poteva mettere a mia disposizione qualche fotografia inedita di suo marito. La risposta fu negativa, nel modo più assoluto. La contessa disse che non intendeva più dare fotografie di suo marito per scopi propagandistici, e fece capire che non gradiva essere disturbata. Nina von Stauffenberg, all’indomani del 20 luglio, fu rinchiusa in un campo di concentramento con i suoi quattro bambini. Ebbe salva la vita per miracolo. Il suo primogenito, Berthold, divenne ufficiale fino al grado di Generale di Divisione nella Bundeswehr e adesso è in pensione. Anch’egli – come la madre e i fratelli – ha sempre rifiutato di concedere interviste a giornalisti e storici sia tedeschi sia stranieri. Il film di Bryan Singer, quindi, ha trattato con il dovuto rispetto la famiglia del grande tedesco.
Luciano Garibaldi
2 commenti:
Perche non:)
Da sempre ammiro Claudio Fava per la puntualità e l'ironia, merce rara tra i critici. Ho letto con cura anche l'articolo sui rilievi storici. Senza voler mancare di rispetto, mi permetto di dire che il principale difetto del film, peraltro realizzato con cura, è proprio in questa "ingessatura" complessiva dovuta all'eccessivo rispetto dei fatti. Il cinema non è documento, e spesso, quando si attiene troppo scrupolosamente ai dati (viste le implicazioni storiche e politiche, come in questo caso) rischia di perdere vitalità, di rimanere un impeccabile ma algido resoconto. Mi pare che questo sia un caso esemplare di tale tendenza.
Andrea Violi - Reggio Emilia
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