Ho scritto questa lettera oggi a Sergio Romano, per la sua rubrica sul "Corriere della Sera", in risposta ad una missiva di Mario Taliani.
Credo di non commettere nessuna scorrettezza inserendo direttamente il testo della mia lettera nel Blog.
Caro Romano,
ho letto la lettera di Mario Taliani e la sua risposta riguardante la curiosa personalità di Giovanni Ansaldo. Giornalista, secondo me, di un talento straordinario: fra i migliori in assoluto della sua generazione, da un punto di vista di personale eleganza stilistica si collocava al livello dei Vergani e dei Monelli, ma rispetto a loro la sua cultura politico-sociologica era probabilmente molto più estesa. Ansaldo sofferse di una sorta di frattura morale: era in qualche modo avvelenato dal suo desiderio di continuare a giocare in Serie A, nonostante la sua militanza di sinistra che via via gli bloccava ogni sbocco di carriera.
Negli anni ’50 ho imparato a impaginare, lavorando alla “Gazzetta del Lunedì”, nella famosa tipografia de “Il lavoro”, in Salita Di Negro. I tipografi più anziani, grandi artigiani all’antica, non solo ricordavano benissimo il giovane Granzotto, prelevato da Mussolini in una redazione del G.U.F. e nominato, di fatto al posto di Ansaldo, direttore (uno dei tipografi insegnò a nuotare a quello scaltro giovanotto, quando questi temeva di essere richiamato alle armi e inviato in Albania per nave), ma erano anche testimoni della ormai antica presenza dello stesso Ansaldo che, come lei ricorda, fu una delle colonne de “Il lavoro”. La sua firma “Stella nera” per anni incoraggiò il latente antifascismo di quel frammento compatto del proletariato industriale di Genova che esisteva una volta e che garantiva un numero minimo di copie a “Il lavoro”. E il personale della tipografia aveva presente sia le complicazioni grafiche, sia le complicazioni causate dalla sua illeggibile grafia (come sempre in casi del genere c’era un solo linotipista in grado di interpretarla), sia la sua avarizia che ribadiva, ai limiti della barzelletta, la sua totale genovesità. Converrà ricordare che “Il lavoro” rappresentava una sorta di “imbarazzo” per Mussolini, che ai tempi delle dispute socialiste si era rifugiato nella redazione ed era stato salvato da non so più quali rappresaglie. La presenza di Ansaldo non gli consentiva di intervenire con la freddezza chirurgica con cui aveva evirato il giornalismo italiano, e non sapeva come regolarsi. La “conversione” di quest’ultimo all’ammiccante fascismo di Galeazzo Ciano gli tolse un peso dallo stomaco e gli consentì l’ “operazione Granzotto”.
Ho cercato per anni di capire la complessa personalità di Ansaldo, leggendo i suoi diari e cogliendo il suo stupore nel ritrovarsi, quando usciva dalla tipografia in un momento dato della sua carriera, non più nelle strade di Genova che lui amava con fisiologica intensità ma in quelle di Livorno, che gli rimanevano sostanzialmente estranee. Più largamente ho cercato di capire come potè adattarsi, con la sua potenza di stile e con la sua cultura, alle necessità di propaganda che si espressero alla radio nelle cosiddette “Cronache del Regime”, affiancandosi a Forges Davanzati, Gherardo Casini e persino Mario Appelius. E ho capito che, in realtà, lui soffriva della “sindrome di Zelig”: la massima vittima di questa malattia fu Galeazzo Ciano, vale a dire quegli che lo portò a Livorno a dirigere, dal 1937 al 1943, “Il Telegrafo”, antenato de “Il Tirreno”. Ciano infatti, come il personaggio di Woody Allen, si plasmava su tutte le persone che avvicinava. Diventava un fascista intransigente quando sfiorava Mussolini, un poliglotta mondano quando costeggiava le principesse romane al Club del golf, un aspirante letterato quando aveva il coraggio di entrare nella terza saletta di Aragno, un commediografo ambizioso quando trovava la forza di firmare dei copioni, un romanzesco pilota da guerra quando guidava gli aerei della “Disperata” a mitragliare i tucul degli etiopici, un diplomatico di carriera rigidamente ancorato alle tradizioni ed ai concorsi tipici della condizione, quando si trovava al Ministero degli Esteri. Terminò interpretando la parte di un condannato a morte del Fascismo a Verona. E, poverino, lo fece bene.
In altro senso, anche Ansaldo era un super-Zelig. Consapevole dell’ampiezza e della varietà del suo talento, non gli andava proprio di uscire dalla comune lasciando il campo libero a suoi colleghi, meno dotati di lui (quasi tutti, visti adesso guardandoli fuori dalla mischia). In effetti cosciente del fatto che le sue capacità tecniche erano di un tale virtuosismo, da concedergli praticamente tutto e il contrario di tutto. Naturalmente il suo adeguarsi alle personalità degli altri rimase condizionato dalla sua eccezionale personalità, sicché anche il suo “imitare” fu sottile e cautamente articolato. C’è una persona che lo ha intuito mirabilmente, e si tratta di un arguissimo scrittore, anche diplomatico (forse lei lo ha conosciuto), che, scacciato dalla carriera perché ebreo, ebbe poi, a guerra finita, l’eleganza di sapervi tornare senza fare drammi. Si tratta di Paolo Vita Finzi, autore di alcune biografie “apocrife” di straordinaria finezza nella riproduzione dello stile e del vocabolario di famosi letterati. Egli scrisse, fingendo di parlare di un famoso giornalista francese della seconda metà dell’ ‘800 che, se ricordo bene, aveva finito lui, repubblicano storico, con l’esaltare Napoleone III, un ritratto perfetto di Ansaldo, chiamato “Jean de l’Etoile Noire” (in virtù dello pseudonimo “Stella nera”, popolarissimo nella sinistra italiana d’epoca).
Termino qui avendo scritto delle cose che lei conosce benissimo, ma che forse per molti lettori, meno incuriositi dalle storie del Ventennio, possono risultare utili per cogliere quella straordinaria componente di verità e di menzogna che spesso è alla base della carriera di tanti giornalisti, anche di talento.
Cordiali saluti
Claudio G. FAVA
2 commenti:
Ho letto con particolare interesse la sua lettera su Giovanni Ansaldo. E mi conforta nell'opinione di quanto fosse complessa l'indole di questo giornalista dall'indubbio talento.
Cordialmente, Mario Taliani
Sono contento che abbia letto il pezzo su Ansaldo. Avrei voluto pubblicarlo su "Il Secolo XIX", ma mi è stato detto che era troppo lungo e, comunque, che avevano l'abitudine di recensire tutti i libri che via via apparivano su di lui, contenendo frammenti di diario dello stesso Ansaldo. Potrei pubblicarlo su "L'Occidentale", ma dovendo premettere una introduzione che tenga conto della sua lettera iniziale e della risposta del "Secolo" ho paura che venga, per davvero, troppo lungo.
Cordiali saluti
Claudio G. FAVA
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