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27 aprile 2009

Wajda, genio polacco


(Nella foto qui sopra: un Wajda fra i trenta e i quarant'anni)

Una bella recensione, a firma di Hubert Niogret, di un recente film di Andrzej Wajda, “Katyn” - apparso in Polonia nel 2007 ma soltanto da poco inserito nel nostro circuito – è stata pubblicata nel numero di Marzo 2009 di “Positif”. “Positif” è una storica rivista francese di cinema, a cui sono abbonato da anni e che da mezzo secolo si oppone sistematicamente all’altra grande pubblicazione d’Oltralpe, i “Cahiers du Cinéma”, con cui hanno dato vita ad uno storico scontro che ormai fa parte della cultura cinematografica europea. L’attuale direttore di “Positif”, Michel Ciment, è un vecchio amico e ormai, libero da impegni universitari, riesce a dare alla rivista un’autorevolezza ed un peso rari nel mondo.
La recensione di Niogret inizia ricordando che la quasi totalità dell’opera di Andrzej Wajda (dice che sono 35 film diluiti in 55 anni di lavoro, ma se si calcolano anche le opere televisive il conto aumenta notevolmente) non parla che della storia. Sia quella del passato che del presente. Niogret ricorda (seguo l’ordine del testo francese): “Gates to Paradise” (1967) su un episodio delle crociate; “Ceneri” (“Popioly”, 1965), che è forse il film più lungo e costoso di Wajda (666 giorni di lavorazione, di cui 362 di riprese), in cui si rievocano le campagne napoleoniche dal 1797 al 1812 e, fra l’altro, le ingenue attese dei patrioti polacchi nei confronti di Napoleone; “Le nozze” (“Wesele”, 1972), ove nel 1900, sullo sfondo della Galizia, che allora faceva parte dell’Impero Austro-Ungarico, gli invitati ad una festa nuziale aspettano vagamente una riscossa politica; “Lotna” (1959, primo film a colori di Wajda), commovente rievocazione della guerra contro i tedeschi del 1939, con la cavalleria polacca mandata a confrontarsi contro i carri armati; “Pokolenie” (1955), lungometraggio d’esordio di Wajda che costituisce anche, insieme a “I Dannati di Varsavia” e “Cenere e diamanti” il primo episodio di una trilogia sulla gioventù post-bellica in Polonia (la cosiddetta “Trilogia della generazione perduta”. Sugli altri due film vorrei tornare più tardi perché rappresentano per me il primo contatto e la folgorante rivelazione del mondo morale e politico di Wajda); “Paesaggio dopo la battaglia” (“Krajobraz po bitwie”,1970) in cui l’8 Maggio 1945, a guerra ormai finita, gli internati di un capo di concentramento nella Germania nazista sono trasferiti dagli americani in una ex caserma di S.S.; “Ingenui e perversi” (Niewinni czarodzieje”, 1960), che è ancora un ritratto della gioventù polacca della generazione successiva a quella che aveva fatto la guerra; “L’uomo di marmo” (“Czelowiek z marmuru”, 1977) e “L’uomo di ferro” (Czelowiek z zelaza”, 1981), ovvero le due straordinarie puntate paragiornalistiche su due momenti decisivi della recente storia polacca.
Nella elencazione di Niogret mancano tuttavia molti altri film in qualche modo legati alla storia recente o passata della Polonia. Per esempio il critico francese non fa cenno de “La terra della grande promessa” (Ziemia obiecana, 1974), ove si rievoca l’inizio della rivoluzione industriale quando la Polonia non esisteva come stato indipendente. Tre amici – un nobile polacco, un tedesco ed un ebreo – vogliono aprire una fabbrica tessile per gettarsi nella corsa al denaro al potere. Il film è tratto da un libro di Wladislaw Reymont, che fu premio Nobel nel 1924. Curiosamente da Niogret non è neppure citato “Danton” (1982), nonostante l’ambientazione, ove Depardieau e Vojchech Pszoniak, rispettivamente nei panni dell’uomo politico francese e del suo nemico Robespierre, si affrontano sullo sfondo della Francia del 1794 con la Rivoluzione che sta passando dal Terrore all’integrazione. Un altro film in cui la Seconda Guerra Mondiale ha un riflesso preciso è una coproduzione con l’allora Germania Federale, intitolato appunto “Un amore in Germania” (Eine Liebe in Deutschland, 1983). In esso una donna tedesca, con un marito al fronte e un figlio di sette anni, si innamora di un prigioniero-lavoratore polacco. Citiamo anche “Kronika wypawdòw miłosnych” (letteralmente Cronaca di fatti d’amore, 1986), che è una storia di fanciullezza mentre il paese si sta avviando alla Seconda Guerra Mondiale (si vede anche un famoso reparto di cavalleria polacca, il 13° reggimento degli Ulani di Vilnius). E “Pierśscionek z orłem wkoronie” (letteralmente L’anello con l’aquila incoronata, 1996) che cerca di indagare l’origine della cooperazione con i comunisti di elementi della Armja Krajowa. Un ultimo film dal quale non si può prescindere è “Wielki tydzień” (letteralmente Settimana santa, 1996) nel quale una tipica famiglia dell’intellighenzia polacca è costretta a mettere in discussione i propri valori di fronte alla tragedia dell’Olocausto.
Come si vede dalla complessiva elencazione qui riportata, la passione e la sensibilità di Wajda nel restituire momenti della storia d’Europa, soprattutto della storia polacca e in particolare di quella recente, costituiscono una nervatura decisiva, e rara, nell’opera di un autore di cinema. Non v’è dubbio che anche questa caratteristica rappresenti una significativa manifestazione del suo complesso talento di narratore per immagini, e sia una ulteriore riprova della sua sostanziale genialità. Che ne fa non solo un autore di cinema praticamente unico nella sua generazione ma anche un vero e proprio simbolo di quella generosità polacca che, di fatto, non ha eguali. Esiste in Polonia una vera e propria vocazione all’eroismo solitario e collettivo – basterebbe pensare ai soldati i polacchi del generale Anders, che si svenarono a Montecassino - e Wajda ne costituisce un esempio toccante.

(Nella foto qui sopra: una foto recente di Wajda, forse durante la lavorazione di "Katyn")


È giusto il momento di parlare di “Katyn”, ma ancor più voglio far cenno del mio personale rapporto col regista, che non ha nessun rilievo se non per me e per i miei ricordi. Io lo scopersi nel 1957 quando, per il secondo anno, mi trovai accreditato al Festival di Cannes grazie all’amichevole generosità di Tullio Cicciarelli, critico cinematografico e redattore de “Il Lavoro”, che tanto ha fatto per i cinefili genovesi della mia generazione. Debbo spiegare che io, in seguito alla sciagura che aveva dissestato la mia famiglia, venivo da anni di furioso impiego subordinato nelle file della Sede Regionale dell’ INAIL. Il quale era sì un ente parastatale ma dove si lavorava con la feroce applicazione, allora di rigore in una città profondamente rispettosa di ogni implicazione lavorativa, nel settore pubblico come in quello privato. Grazie a Cicciarelli, che inizialmente – era stata mia madre a persuadermi a tentare l’avventura - mi diede delle commendatizie per Domenico Meccoli, per un anno membro della giuria del Festival, grazie al quale fui rapidamente munito di una tessera da giornalista per seguire il Festival del Cinema (bisogna dire che eravamo pochi all’epoca e che tutto aveva un sapore semplice e amichevole, completamente diverso da com’è diventata adesso la manifestazione). Per me quelle due settimane di intervallo furono quasi paradisiache. Potevo ricominciare a parlare francese, come avevo fatto sempre nell’infanzia, e soprattutto potevo incontrare registi ed attori che non avrei mai visto in condizioni diverse, e potevo vedere i loro film in versione originale sottotitolata, pratica ormai corrente nelle manifestazioni cinematografiche ma allora appunto limitata a qualche grande festival internazionale. Va detto che puntualmente mi presi l’influenza, come molto spesso mi è capitato sulla Costa Azzurra, ma questo è un altro discorso. Fu dunque in quello stato di rattenuta, fragile e consapevole felicità che mi imbattei in un film polacco, “Kanal”, di un regista di cui non sapevo nulla, dal cognome facile ma dal nome proprio difficilmente pronunciabile: Andrzej Wajda. Vidi il film e fu una folgorazione. La triste ed eroica avventura della tragica rivolta di Varsavia iniziata il 1 Agosto 1944 e terminata i primi di Ottobre dello stesso anno, con la firma della resa da parte della Armja Krajowa, che faceva riferimento al governo polacco in esilio a Londra, non riconosciuto dai sovietici i quali avevano dato vita a Lublino ad un contro-governo comunista. Si calcola che in quei due mesi di rivolta “I dannati di Varsavia” (questo fu il rigonfio titolo nostrano con cui il film fu poi portato in Italia) ebbero 200.000 morti e 100.000 prigionieri, a testimonianza della estrema violenza della lotta e della particolare tristezza dell’accadimento. La rivolta era stata scatenata, infatti, visto che le truppe sovietiche erano ormai vicine. Ma esse si fermarono nell’avanzata, sembra per ordine di Stalin, in modo che i tedeschi potessero reprimere la rivolta nel sangue. Erano tutte cose mal conosciute in Occidente e che stentavano a filtrare da noi. Ma per i polacchi si trattava di una verità dolorosamente nota. Non è un caso che il successivo film di Wajda, “Cenere e diamanti”, si svolga nel 1945 ed abbia per protagonista un giovane combattente dell’Armja Krajowa incaricato di un assassinio politico. Un argomento scottante per un regista nel 1958, ma da cui Wajda riesce ad uscire splendidamente, grazie anche all’inquietante presenza di Zbigniew Cybulski, che fu considerato il James Dean polacco e che poi morì a soli quarant’anni nel tentativo di salire su un treno in corsa. Anche qui Wajda è riuscito, senza il minimo servilismo, ad evocare un periodo scottante per la Polonia, normalmente soggetto a menzognere evocazioni propagandistiche.
Non ho mai avuto occasione di rinnegare la fedeltà che votai al regista nella Primavera del 1957. Ed ora proprio un film come “Katyn” – è del 2007 ed è già stato seguito da un altro intitolato “Tatarak”, a testimonianza dell’incredibile vitalità creativa di un uomo giunto ormai a 83 anni di età – che mi consente di pagare un debito contratto, più di 40 anni fa, nel vecchio palazzo del Festival: quello situato a fianco dell’Hotel Carlton ed a cui va la nostalgia dei festivalieri “d’antan”. Infatti “Katyn” è un’opera recentissima ma che milioni di polacchi hanno anticipato per decenni nei loro cuori. Il titolo deriva infatti dal nome di una foresta, non lontanissima da Smolensk, ove nel 1943 le truppe tedesche scoprirono interminabili fosse comuni nelle quali giacevano migliaia e migliaia di persone, in buona parte uccise con un colpo di rivoltella alla testa, come usavano gli esecutori della NKVD, gli antenati del KGB. I tedeschi trovarono i cadaveri e condussero un’inchiesta accurata per dimostrare che erano stati uccisi dai sovietici. I quali, invece, attribuirono le responsabilità ai nazisti. Ma una volta tanto questi ultimi non avevano mentito e dai documenti successivamente emersi, così come dai riconoscimenti nelle autorità russe negli anni ’90, le colpe delle autorità sovietiche sono divenute incontrovertibili. C’è anche un documento ufficiale che prevede la soppressione di migliaia di ufficiali polacchi che, di fatto, da quando i laureati erano stati nominati ufficiali d’autorità, costituivano la potenziale classe dirigente del paese. Ricordiamo che il massacro avvenne nel 1940, quando l’unione sovietica e la Germania nazista erano di fatto alleate in virtù del patto Molotov-Ribbentrop, il che spiega perché erano caduti nelle mani dei russi tanti prigionieri polacchi, anche se l’Unione Sovietica non era ufficialmente in guerra con la Polonia (in realtà sembra che solo 8.000 dei morti fossero ufficiali, mentre il numero di quelli abbattuti dai russi si avvicina ai 22.000).

(Nella foto qui sopra: i cadaveri rinvenuti nelle fosse di Katyn)
Per decenni il massacro di Katyn – la versione ufficiale del governo comunista polacco fu sempre che esso era stato causato esclusivamente dai tedeschi – avvelenò la coscienza di migliaia di polacchi che avrebbero voluto gridare alta e forte la verità. Fra di essi c’era anche Wajda il cui padre, capitano dell’esercito polacco, era stato assassinato a Katyn quando Andrzej aveva solo 14 anni. Evidentemente il regista ha portato dentro di sé questa ferita per tutta l’esistenza, riuscendo a pagare il suo debito con il papà quando egli stesso è ormai un vecchio. Il film è un atto di amore ma è anche un’opera di rara e robusta struttura narrativa, tratto da un libro intitolato “Post mortem”, di uno scrittore e sceneggiatore, Andrzej Mularczyk, quasi coetaneo di Wajd: comincia con una sequenza su un ponte, reaistica e simbolica al tempo stesso, ove si scontrano due folle di civili polacchi in fuga, l’una incalzata dai tedeschi e l’altra dai sovietici. I quali avevano brutalmente invaso la Polonia, assalendola alle spalle. Inizia da qui la complessa struttura narrativa del film, in cui si vede una moglie fedele che si rifiuta di accettare la morte del marito prigioniero, un capitano, fino a quando non le verranno riconsegnati gli oggetti personali di quest’ultimo. E al tempo stesso la dura battaglia del marito che si impone di prendere quotidianamente delle note in modo da poter lasciare un’articolata traccia della sua prigionia e della sua conclusione tragica. In questo senso la vicenda si dipana attraverso molti altri personaggi, compreso un fedele tenente agli ordini del capitano prima ricordato, che passerà alla Polizia Militare che ha preferito porsi al servizio dei sovietici, sino a quando il profondo senso di vergogna e di colpevolezza lo indurranno ad uccidersi.
Non è il caso qui di analizzare tutta la complessa materia narrativa di “Katyn”, ma è certo che Wajda vi ha compiuto un passo decisivo per far decantare la terribile eredità polacca della guerra e del dopoguerra, scandite dai risvolti di uno stato di polizia che ha cercato sino all’ultimo di negare, ed anzi di rovesciare il passato.
Il titolo di questo brano, “Wajda, genio polacco”, trova un riscontro minuzioso in un’intera vita di lavoro di cui “Katyn” rappresenta, probabilmente, il tassello finale e più eloquente.

1 commento:

Anonimo ha detto...

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