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29 gennaio 2010

Allenatori, un mondo a parte: da Pozzo a Mou, filosofia da mister - Racconto di Claudio G. FAVA

Ogni epoca ha i suoi miti, a volte anche solo marginali. Si pensi, con l’andar dei tempi, a figure come gli agenti segreti alla 007, gli stilisti di moda, gli scienziati nucleari, le veline, eccetera. Fra i miti più forti di oggi c’è sicuramente quello degli allenatori di calcio. Dei più forti ma anche dei più discussi, visto che uno dei motivi dell’interesse della stampa nei loro confronti consiste nel sapere se verranno o no silurati al più presto. In un mondo fortemente sindacalizzato, dove il “miracolo” della cassa integrazione è invocato continuamente a destra e a sinistra, l’unico contesto nel quale il suddetto “miracolo” non viene invocato è proprio quello degli allenatori. In genere ricevono contratti con scadenze di tre o quattro anni per essere mandati via a due mesi dalla firma, in modo che la stampa possa formulare ipotesi sugli indennizzi che riceveranno (ammesso che li ricevano). Il fatto che sia un mestiere ben pagato ma estremamente fragile nei suoi risvolti contrattuali è ammesso dagli stessi allenatori che ne parlano con una sorta di torbido orgoglio professionale (“Il calcio è così! Lo sanno tutti! Se uno perde rischia il posto!”). In effetti, è più facile licenziare un allenatore singolo che una squadra formata da 20, 25 giocatori, con il groviglio dei problemi che un’epurazione del genere implicherebbe.
Qualche mese fa il “Sole 24 Ore”, quotidiano sempre ricco di invenzioni grandi e piccole, pubblicò un riepilogo degli stipendi degli allenatori italiani, in ordine crescente di grandezza: mi ricordo che uno di quelli che guadagnavano meno era sicuramente “Gennarino” Ruotolo, in passato bandiera del Genoa e giunto al Livorno per via, suppongo, della presidenza Spinelli. Non feci a tempo a ritagliare il frammento di giornale che Ruotolo era già stato mandato via. Il che capitò alla metà dei suoi colleghi citati in quell’elenco, attendibile ma cadùca, come in genere non accade con le statistiche del “Sole 24 Ore”. Ho pertanto cercato di capire quale sia la “moralità” di un lavoro enigmatico e misterioso. Quando io ero bambino il mito dell’allenatore esisteva ma in modo estremamente ridotto rispetto ad oggi. C’erano alcune grandi figure di commissari tecnici, come ad esempio Vittorio Pozzo, anzi il commendator Vittorio Pozzo, che vinceva i campionati del mondo, parlava diverse lingue, fra lo stupore dei suoi calciatori che conoscevano solo il friulano o il milanese, e prima della partita faceva cantare gli inni della patria. Un’altra figura più locale, che si svolse a Napoli ed a Genova, fu quella dell’inglese Garbutt, un’icona genoana che io ho visto allenare al Ferraris. E qualche figura equivalente esisteva anche all’estero, da dove spesso gli ungheresi venivano importati per la loro naturale maestria nel controllo del pallone. Ma, in linea di massima, il mito dell’allenatore era confinato nei limiti di una retorica nazionale scarsamente ricca di esempi. Tipico risvolto italiano fu l’anglicizzazione automatica di un mestiere che inizialmente fu appannaggio di ex calciatori inglesi. Per cui, ancora oggi, l’allenatore in Italia è universalmente chiamato “mister”, parola che non si capisce bene se i nostri calciatori pronunciano perché sono poliglotti o perché ritengono che l’appellativo sia una regola ferrea per indicare la professione. Come ad esempio chiamare “reverendo” un prete.
Quel che colpisce di più nella sacralità odierna dell’allenatore è la tonalità spaventata dei commenti sul loro lavoro. Sicché non si capisce bene quali sono le loro competenze, visto che in molti casi si dà per scontato che egli cambi completamente il modo di giocare di una squadra (si veda Gasperini le cui tecniche di addestramento sono valutate con lo stesso vocabolario che connota, faccio per dire, i progettisti di automobili da corsa o gli architetti). Per far cenno degli allenatori che in questo scorcio di campionato sono sopravvissuti alle “purghe” periodiche, non è rarissimo che un allenatore venga mandato via clamorosamente per essere poi richiamato poco tempo dopo: si veda l’esempio del Torino del presidente Cairo, oppure, in un versante diverso, del Palermo di Zamparini, altro specialista dei licenziamenti in corso d’opera. Guardando gli allenatori ora alla ribalta, si noterà che il carattere romanzesco del loro lavoro è ribadito dalla complessità delle loro caratteristiche fisiche. Si prenda il caso di Ballardini, da non molto tempo allenatore della Lazio, il quale è un personaggio apertamente post-bergmaniano. Il cupo atteggiamento del volto, esaltato da una calotta di lana che si direbbe venga dal Nord della Svezia, concede a ciascuno dei suoi interventi in video una calcolata tristezza apparentemente scaturita da una delle scene minori de “Il settimo sigillo”. Un altro personaggio, attualmente fortunato allenatore del Bari, Giampiero Ventura, è un genovese sul cui viso un suo concittadino come me legge senza esitazioni le modalità liguri della sua massima partecipazione emotiva. Se le cose in campo vanno bene, la sua espressione sembra dire: “Speremmu ben”; se c’è qualche intoppo la bocca gli si abbassa e il sapore generale dell’immagine equivale a: “Saviò! Maniman cuscì finimmu in Paviann-a”. Un terzo allenatore, un romano finito ora alla Roma, Claudio Ranieri, possiede tratti rivelatori ma contraddittori: da un lato vorrebbe gioire con ingenua felicità capitolina, dall’altro il suo volto si controlla da solo, perché ha allenato in Spagna, in Inghilterra, ed a Torino; tutti luoghi dove le mutevolezze delle facce sono pesantemente condizionate da rigide impostazioni locali. Potrei continuare all’infinito con quasi tutti gli allenatori attualmente in servizio. Per brevità mi limiterò a chiudere con quegli che è sicuramente il torvo trionfatore della notorietà di categoria, e cioè José Mourinho. Il suo compenso è altissimo, così forte che supera di parecchi milioni quello dei suoi colleghi più fortunati. Egualmente altissima è l’attenzione con cui la stampa italiana analizza furiosamente ogni parola da lui pronunciata, anche in dialetto. Si pensi alla sua autopresentazione quando, da poco arrivato a Milano, disse “Non sono un pirla!”. La voluttà con la quale bofonchia la nostra lingua, quasi sempre senza commettere errori, resta una delle prerogative maggiori di un personaggio che anche sull’idioma ha costruito la sua mitologia. Probabilmente è il portoghese che ha maggior peso nella storia attuale dell’Europa, da quando è scomparso Antònio de Oliveira Salazar, che però rimase al potere quasi quarant’anni (dal 1932 al 1968). Com’è noto il suo desiderio è quello di tornare ad allenare in Inghilterra, dove fu al Chelsea, attualmente nelle mani di un italiano, Ancelotti (un altro italiano famoso è Mancini al Manchester City). Questo amore per la Gran Bretagna colloca Morinho nella più radicata tradizione filo-inglese tipica della cultura portoghese. Dove nacque un proverbio che io imparai leggendo una biografia di Wellington e che dice testualmente: “Cum todo o mondo guerra, paz cum Inglaterra”.
Claudio G. FAVA


(Da "Il Secolo XIX" del 21 Gennaio 2010)

1 commento:

enrico ha detto...

Non seguo molto il calcio,mi pare che gli allenatori odierni siano più "scientifici" (no,non alla Peppe er pantera...) e meno sanguigni di quelli di una volta.Penso a Peppone Chiappella,al "petisso" Pesaola,a Oronzo Pugliese,allo stesso Carletto Mazzone che,senza offesa,mi rimandano all'Oronzo Canà di Lino Banfi.Piccolo aneddoto : se non ricordo male,in "Io sono un autarchico",Nanni Moretti,impersonando un regista teatrale d'avanguardia,aveva pensato bene di mettere un calciatore a palleggiare sul palcoscenico.Dopo qualche minuto Moretti sbottava : "Basta!Vattene!" e quello,affranto : "Ma...mister..."
Enrico