"L'OMBRA DEL POTERE": CONTRIBUTO DI BRUZZONE E PARTICOLARI SU ANGLETON
James Jesus Angleton e Matt Damon
James Jesus Angleton e Matt Damon
Nel mese di novembre ho scritto nel blog complessivamente tre brani in cui parlo di Robert De Niro e dei due film da lui diretti: “Bronx” (“The Bronx Tale”, 1993) e “L’ombra del potere” (“The good Shepherd”, 2006). Il mio amico Natalino Bruzzone, critico cinematografico del Secolo XIX, mi ha scritto due righe che dicono: “Carissimo Claudio, anch’io sono d’accordo sul film di De Niro e se ti serve ti allego la mia recensione apparsa sul Secolo, forse l’unica positiva in Italia. Un abbraccio grande, Natalino”. Accolgo con piacere l’offerta e pubblico qui di seguito la recensione di Natalino. Come il lettore potrà leggere in essa si evita una mia distrazione, a causa della quale mi dimenticai nel mio intervento di fare quello che Natalino non ha dimenticato, e cioè di far cenno della somiglianza fra il protagonista del film (una ottima interpretazione di Matt Damon, definito nel testo “eccellente e gelido”) e un famoso protagonista dei servizi segreti americani, e cioè James Jesus Angleton. Detto “the Kingfisher”, Angleton (9 dicembre 1917, 12 maggio 1987) è stato a lungo il capo del controspionaggio della C.I.A. . E, come dice Wikipedia, “se il generale William Joseph Donovan“ (ovvero “wild Bill” Donovan, parte piccola nel film ma figura decisiva nella storia: è quella interpretata dallo stesso De Niro) “può essere definito il padre della C.I.A., dal canto suo Angleton è considerato la madre dell’intelligence statunitense”. Nel testo di Wikipedia su di lui si ricorda che, pur essendo uno dei più importanti cacciatori di spie della Guerra Fredda, Angleton, malgrado fosse ossessionato dalla convinzione che nella C.I.A. si nascondesse una importantissima “talpa” sovietica, non smascherò il famoso “Kim” Philby, cioè il capo dei “Cinque di Oxford” (suo amico e, credo, suo istruttore durante la Seconda Guerra Mondiale), i quali per anni inflissero colpi mortali allo spionaggio britannico. Angleton era sicuramente un personaggio fuori del comune. Figlio di un ufficiale di cavalleria e di una donna messicana, negli anni Trenta visse con la famiglia in Italia,dove il padre dirigeva la filiale di un’azienda americana. Per questa ragione egli conosceva l’italiano. D’altronde era una persona di espliciti gusti letterari, amante della poesia, e in particolare di Ezra Pound e di Thomas Elliott, e fra i suoi hobby c’erano la pesca, la gemmologia e, come Nero Wolfe, la coltivazione delle orchidee. L’avventura di Angleton nella C.I.A. fu lunga e tempestosa. Alla fine della guerra era a Roma, dove sembra si sia occupato in modo decisivo del salvataggio del principe Junio Valerio Borghese, già comandante della Decima Flottiglia Mas (la C.I.A., e in particolare Angleton, furono esplicitamente accusati di aver utilizzato ex-combattenti di Salò, a cui ricorrere nel caso che i comunisti avessero tentato una rivolta armata). Non è possibile qui ricostruire in modo esauriente l’incredibile avventura di Angleton all’interno della C.I.A., nella quale egli esercitò un’attività di controllo interno via via sempre più importante. Ossessionato, come si è detto, dalla convinzione di essere circondato da una ampia organizzazione di spionaggio sovietico, già negli anni Sessanta cominciò a sostenere che numerosi esponenti politici occidentali fossero agenti del K.G.B.. Fra le persone da lui accusate ci furono Harold Wilson, per due volte “premier” britannico, dal 1964 al 1970 e dal 1974 al 1976, i canadesi Lester Pearson e Pierre Trudeau, il tedesco Willy Brandt – in effetti il suo segretario Guillaume si scoperse essere una spia della Stasi – e lo svedese Olof Palme (il quale, per la verità, venne misteriosamente ucciso in una strada di Stoccolma mentre tornava dal cinema la sera del 28 febbraio 1986; ci sono state inchieste per anni e non si è giunti ad alcun risultato). I sospetti di Angleton salirono via via i gradini della scala gerarchica. Fra quelli che egli tendeva ad accusare c’era addirittura anche Henry Kissinger, allora segretario di stato, e perfino dei collaboratori del presidente degli Stati Uniti Gerald Ford. Alla fine William Colby, allora importantissimo direttore della C.I.A., anch’egli con un passato si spia di alto livello, riuscì a licenziare “l’onnipotente collega con molti suoi collaboratori”. Sembra che ci siano voluti anni per riorganizzare la C.I.A., una volta liberatisi dalle ossessioni di Angleton.
A conclusione è divertente rilevare che invece il giornalista investigativo americano David C. Martin sostenne essere stato Angleton un filocomunista, sin dai tempi della sua amicizia con “Kim” Philby. Senza mai contattare i russi, avrebbe agito da solo per distruggere la C.I.A. dall’interno. E’ un’idea bizzarra che non so quanto sia condivisa dagli specialisti. Ed ora ecco il testo di Natalino:
Non la coltivazione delle orchidee, ma la paziente, sapiente e allusiva manualità di mettere una nave dentro al vetro intatto di una bottiglia. La spia in grigio, che Robert De Niro ha scelto come protagonista di “L’ombra del potere”, assomiglia al profilo reale di James Jesus Angleton, un mito della Cia che in serra curava i suoi boccioli delicati mentre in ufficio innaffiava, giorno dopo giorno, la teoria e la pratica ossessive e compulsive di smascherare la talpa del Kgb in seno all’Agenzia.
Svilito da un titolo italiano da thriller pedestre (l’originale “Il buon pastore” è carico di simbolici riferimenti biblici all’addestramento di “pecorelle”, ma con maschere e pugnali), la spy story di De Niro dietro la macchina da presa ha molti padri nobili tra cinema e letteratura: la drammaturgia ritualistica e avvolgente del “Padrino” di Coppola; il senso di John le Carré per le zone grigie dell’ambiguità e della burocrazia dell’intelligence che si riflette nel protagonista di un eccellente e gelido Matt Damon tarato da colletto bianco in antitesi all’eroismo bondiano; il piacere della saga narrativa di una famiglia di agenti della Cia appresa probabilmente dalla pagine e dai capitoli di “The Company” di Robert Littell.
Tra il secondo conflitto mondiale e il disastro alla Baia dei Porci, tra l’idealismo anche settario dell’università e l’intersecarsi di doppi e tripli giochi, tradimenti e traumatiche lacerazioni padre-figlio (come in “Bronx” l’opera prima di De Niro) il copione di Eric Roth e la sua messa in sequenze si aprono alla mistica della segretezza e della sicurezza nazionale. Figurativamente affascinante, “L’ombra del potere” lamenta un’opacità e una fluvialità che, comunque, non sono semplicemente il lampeggio di un’incapacità a trovare una energetica dialettica interna al racconto, ma si rivelano per una scelta stilistica da cerimoniale metaforico che affonda nel mistero e nelle sue manifestazioni intossicanti a più di una dimensione.
Ambizioso e tragico, l’occhio di Robert De Niro ( che si riserva il ruolo di un clone del generale Donovan, gran papà dell’Oss e genitore putativo della Cia) s’impossessa di una storia e della Storia per renderle attraverso l’ordinarietà di un uomo senza qualità, di un burocrate che sacrifica se stesso e i suoi affetti alle religione di una professione capace di sollevare l’universo con la leva dell’inganno e della menzogna. Da non sottovalutare (come è accaduto negli Stati Uniti tanto al botteghino quanto nelle recensioni), da non schiacciare sulle similitudini tra il passato (la Guerra Fredda) e il presente (la sfida armata al terrorismo) e da non trattare come l’esperimento di un attore che ha voluto farsi regista oltre i suoi talenti specifici, perché “L’ombra del potere” è, al momento, l’unico testo per lo schermo che cerca di restituire la complessità del fattore umano in termini di spionaggio così come i migliori romanzi hanno predicato non invano.
Natalino Bruzzone
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