Ho appreso della morte di Monicelli ieri sera tardi leggendo nel televisore, prima di andare a letto, le notizie dell’Auditel. Come è noto, con il 103 per le “News” vere e proprie e con il 108 per lo sport. Questo naturalmente per ciò che riguarda la RAI. Per Mediaset i numeri sono ancora 103 e poi 108 e 120. Mi accorgo che questi numeri mi vengono automaticamente alla mente e alla mano, a testimonianza del profondo coinvolgimento di cui siamo, al tempo stesso, soggetto e oggetto appunto con il mondo “numerato” che regge la civiltà del televisore e del computer. Per esempio ci sono dei riferimenti obbligati per vedere il calcio in televisione, e alludo soprattutto a Sky, il 201 e/o il 505 per le partite, il 200 per il telegiornale di gossip sportivo, il 500 per il comodo telegiornale a getto continuo, ma anche il 301 e successivi per i film e i numeri per i telefilm polizieschi, tipo “Law and Order”, “Numbers”, “C.S.I.”: titoli che mi fanno venire in mente il periodo ormai lontano quando materiale del genere dipendeva da me, come accadde con tanti seriali d’epoca, da “Miami Vice” a “Hill Street”…
Insomma, schiaccio il bottone del 103 e vedo annunciata la morte di Monicelli. Confesso che la cosa mi ha fatto un’impressione enorme. Tanto più che gli avevo parlato al telefono alcune settimane fa. Per il giorno 12 novembre era prevista a Genova una manifestazione in onore di Suso Cecchi D’Amico, alla quale avrebbero dovuto essere presenti il figlio Masolino e le figlie Silvia e Caterina. Ero stato invitato anch’io, ma avevo fatto presente che non mi muovo molto bene e che, ove Monicelli, antichissimo frequentatore della famiglia D’Amico e tradizionalmente ospite a pranzo alla domenica, non avesse potuto venire da Roma, avrei potuto risolvere il problema da casa, con una telefonata a Mario. Ci sentimmo una prima volta, lui fu con me molto gentile, come lo era in genere nonostante il carattere brusco, e mi disse che ne avremmo riparlato al momento opportuno. Poco prima di quel pomeriggio gli telefonai e lui mi disse che non avrebbe potuto parlarmi perché, aggiunse, “sono tutto intubato”. Lì per lì non capii bene e intuii che doveva essere malato, ma non avevo assolutamente idea di quale malattia e della sua gravità. Mario era molto concreto e spiccio, poco incline a parlare di sé, o, più esattamente, molto lucido e secco nel valutare se stesso e gli altri. Era un personaggio per molti versi eccezionale. Al centro del cinema italiano per decenni (dai primi film con Totò insieme a Steno, via via sino a “I soliti ignoti”, “La grande guerra”, “L’armata Brancaleone”, “La ragazza con la pistola”, “Amici miei, “Un borghese piccolo piccolo”, “I nuovi mostri”, “Temporale Rosy”, “Speriamo che sia femmina”, etc. …), era veramente un testimone di tante epoche diverse. A soli 21 anni di età era stato assistente per “Squadrone bianco” di Augusto Genina, e di anni ne aveva già 91 quando diresse “Le rose del deserto”, ancora una volta in Africa. Era un buon parlatore ma a modo suo schivo e, pur nel garbo, in qualche modo autoritario. Con me fu sempre molto gentile, anche se, all’occasione, sapeva tirar fuori le unghie. Diversi anni fa, per istigazione di Gianluca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna, io e lui demmo vita a un curioso duetto sul far cinema in occasione di una manifestazione patrocinata dalla locale università. Non so bene perché, Mario si ostinò a citarmi insieme ad Aristarco, critico cinematografico col quale io non ebbi assolutamente nulla in comune per da sempre e per sempre. Aveva avuto una vita privata intensa, di cui non parlava mai, e si può dire che conoscesse personalmente, e quasi dominasse, tutti i protagonisti del cinema italiano per mezzo secolo. Essendo nato a Viareggio passava, e si faceva passare, per toscano. In realtà la sua famiglia era originaria di Ostiglia, in provincia di Mantova, una cittadina di circa 7.000 abitanti, da cui provenivano anche i Mondadori. Con i quali Mario aveva un legame molto stretto. Infatti sua zia Andreina era la moglie di Arnoldo Mondadori e pertanto Alberto Mondadori era cugino primo di Mario. Il quale aveva fatto liceo e università a Milano, e con il cugino Alberto, quando entrambi erano ancora giovanissimi, aveva dato vita ad un’edizione muta de ”I ragazzi della via Pál”, girata nei giardini pubblici di Milano e interpretata, nella parte del soldato Nemecsek, da Eros Macchi, il quale doveva diventare un noto regista televisivo italiano. Il film io lo vidi a Venezia, non so più in che occasione, e debbo dire che, tenuto conto dell’età degli autori, era già a modo suo maturo e professionale (almeno questo è il ricordo che ne ho io). In questi ultimi anni, Mario aveva fatto una sorta di professione dell’esser vecchio. “L’età migliore – diceva – è quella dei 90 anni. Nessuno ti dice più niente, nessuno ti rimprovera, nessuno si impone, nessuno prova a darti ordini né a impedirti qualcosa”. Almeno era quello che asseriva, perché mi hanno raccontato che una volta entrò, dopo non esservi stato per anni, in una nota trattoria frequentata da registi e sceneggiatori nei pressi di Piazza di Spagna. Mario aperse la porta, dette un’occhiata, guardò bene tutti e poi, ad alta voce, disse “tutti vecchi!” e se ne andò. Da alcuni anni conduceva una vita solitaria, pur avendo figli e nipoti, e su questo argomento dichiarò, in un’intervista, una motivazione paradossale, che è questa: “Vivo da solo per rimanere vivo il più a lungo possibile. L'amore delle donne, parenti, figlie, mogli, amanti, è molto pericoloso. La donna è infermiera nell'animo, e, se ha vicino un vecchio, è sempre pronta ad interpretare ogni suo desiderio, a correre a portargli quello di cui ha bisogno. Così piano piano questo vecchio non fa più niente, rimane in poltrona, non si muove più e diventa un vecchio rincoglionito. Se invece il vecchio è costretto a farsi le cose da solo, rifarsi il letto, uscire, accendere dei fornelli, qualche volta bruciarsi, va avanti dieci anni di più.” Che io sappia la sua ultima compagna è stata Chiara Rapaccini, che lui conobbe quando aveva 59 anni e lei 19. Tempo dopo hanno avuto una figlia, Rosa: la mamma aveva 34 anni, e Monicelli 74.
Si può dire che tutto nella sua vita fu singolare e in certo senso unico. Ad esempio io lo interrogai molto sui suoi rapporti con i cugini Mondadori, e lui mi ripeté molte volte che quando da ragazzo andava nella loro villa di Meina, vedeva Arnoldo sempre con un taccuino in mano, che alla sera faceva dei conti.
E questo mi sembra un ritratto straordinario di un editore altrettanto straordinario, il quale si era fatto completamente da solo e aveva iniziato la vita lavorativa, da ragazzo, spingendo un carretto di libri. Questa mattina, mentre stavo dettando queste righe, mi telefonò Luciano Vincenzoni, mio grande amico e grande testimone di tutto un momento della storia del cinema non solo italiano. Mi disse di essere rimasto molto colpito dal suicidio di Mario, a cui aveva dato il soggetto e con cui collaborò in modo decisivo alla sceneggiatura de “La grande guerra”. “Ho fatto i conti – mi ha detto Luciano – e ho scoperto che sono l’ultimo superstite. Con la morte di Mario sono rimasto il solo ad essere vivo. Sono tutti scomparsi, almeno quelli principali: Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Silvana Mangano, Romolo Valli, Folco Lulli, Livio Lorenzon, Bernard Blier, Tiberio Murgia, Elsa Vazzoler, Age & Scarpelli, lo scenografo Mario Garbuglia… ci sono rimasto solo io!”. E Luciano ha concluso tristemente: “tutti hanno scritto di tutto, e a me nessuno ha chiesto niente…”. Egli mi ha anche ricordato anche il padre di Mario, Tomaso, si suicidò, il 25 maggio 1946, e che fu proprio il figlio a trovarlo, dopo aver sfondato la porta del bagno. Tomaso era nato ad Ostiglia il 10 febbraio 1883, era stato per anni un noto giornalista e, dopo un inizio da militante nel sindacalismo rivoluzionario, si era poi imposto come critico letterario e teatrale e aveva successivamente costeggiato, negli anni anteriori alla Prima Guerra Mondiale, il movimento nazionalista, partecipando nel 1910 alla fondazione del partito. Negli anni Venti diresse molti quotidiani e una delle prime riviste italiane di cinema: “In penombra”.
Si avverte nella famiglia, al di là del successo, una spietata vocazione autodistruttiva che si sposa ad un grande talento e, almeno per anni, in apparenza, alla fama ed alla popolarità.
Claudio G. Fava
30 novembre 2010
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