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28 giugno 2011

INIEZIONI DI CALCIO PER PATERNOSTRO

L’amico Mario Paternostro, direttore di "Primo Canale", mi ha chiesto per una sua nuova rivista di cultura e cultura “I quaderni genovesi” edita dalla Fondazione De Ferrari (il primo numero uscirà nel prossimo ottobre) un articolo sul calcio, che dovrebbe essere il primo di una serie e che io ho appunto intitolato “ Iniezioni di calcio 1”. L’unica condizione che io gli ho posto è che Mario indichi nella rivista l’origine dell’articolo e precisi quindi i dati sul Blog. L'unica condizione che lui mi ha posto è che io, pubblicandolo nel Blog, faccia riferimento alla sua nuova rivista di imminente pubblicazione. Avveratesi entrambe le condizioni ecco qui di seguito il brano.
...Mi ricordo che da ragazzo mi ero lasciato scappare una battuta che adesso, nel clima di celebrazione continua che c’è e ci sarà in tutto il 2011, può sembrare più polemica di quanto in realtà non fosse. La battuta è questa: “L’unità d’Italia venne fatta soprattutto per poter disputare un campionato a girone unico, senza play-off fra il Regno di Sardegna, il Regno delle Due Sicilie, gli Stati della Chiesa, e via elencando”. Come accade con tante battute anche qui c’è un fondo di verità. Probabilmente la conservazione dei vecchi Stati prerisorgimentali sarebbe piaciuta di più a Cavour ed avrebbe conservato un fondo di saggezza. Ma le complicazioni per organizzare i campionati e le finali sarebbero stati un vero incubo per la Lega (intendo la Lega Calcio e non la Lega Nord).
Sono considerazioni meno paradossali di quanto non sembri. E’ profondamente vero che, ben prima della Televisione, del maestro Manzi e di Mike Buongiorno, il calcio ha contribuito in modo decisivo a dare vita ad una nazione nuova, costruita sulla base delle antiche, fortissime unità statuali a carattere, come dire, “dialettale”. Già nel nome rappresentò un collante unitario. “Calcio” e non più “Football”, frutto di una progressiva unificazione linguistica che, soprattutto nel Ventennio(il Fascismo detestava i dialetti e la lingua inglese ma adorava l’ italiano di Starace) fece sostituire le parole “back” con “terzino”, “half” con “mediano, “forward” con “attaccante”, “goalkeeper” con “ portiere”, “referee” con “arbitro”,“kick-off” con “punizione”e, ancor più, “football” con “calcio”. Via via rivoluzionando l’approssimativo ma volenteroso dizionario anglo-italiano dei tifosi dell’epoca. Forse le ultime parole rimaste, fra tante tramontate, sono “corner” - ancor viva, probabilmente perché breve e aggressiva, pur dopo l’arrivo ufficiale di “calcio d’angolo” - e “cross” che non è stato scalzata dal pedantesco “traversone” ed ha addirittura originato il verbo anglo-italiano “crossare”). In compenso va ricordato che le parole “tifo, tifoso e tifosi” sono, nella nostra lingua, un apporto patriottico ma doverosamente curativo alla traduzione nostrana di “supporter”, n tempo usato, o comunque compreso, in quasi tutti i paesi del mondo. Ovviamente, ogni paese a modo suo. Ad esempio nell’immenso universo ispanico del calcio esiste in particolare la parola “hincha” per tifoso e “hinchada” per tifoseria. Curiosamente “inchado” vuol dir gonfio (che ci sia, anche qui, una allusione sanitaria ?). Ed è evidente il processo di religioso assorbimento del calcio nella lingua italiana di tutti i giorni, visto che il significato precipuo della parola originaria e dei suoi derivati, è stato praticamente cancellato. In effetti, in un primo tempo, “tifo” e “tifoso” erano usati con palese intenzione o ironica o deprecativa. Per indicare dei malati tutti particolari ma indubbiamente affetti da un grave disturbo della salute che li spingeva ad assieparsi urlando intorno ai prati dove correvano, inseguendo un pallone, ventidue signori in mutande. Oppure a riunirsi, come cospiratori, in misteriosi capannelli, sussurrando febbrilmente parole negli angoli dei portici cittadini. Ora sono parole accettate, nella prevalente intonazione calcistica e comunque sportiva, anche dai grandi vocabolari.
Questa non è che una minima parte di quel che si potrebbe scrivere sulla intrusione del calcio nella lingua italiana e sul contributo che esso ed essa hanno dato all’unità d’Italia.
Volendo lo si può fare. E lo farò
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In effetti uno dei misteri, anche linguistici, del calcio italiano, è l’uso della parola “Mister”. Ormai universalmente adottata dai calciatori dei nostri Campionati, anche minori, per indicare, con una terminologia servilmente semi-anglo-africana, il loro rispettivo allenatore. Evidentemente è un abitudine che si è radicata da noi con l’arrivo dei primi allenatori inglesi. I quali erano inglesi per la stessa ragione per cui erano inglesi i primi giocatori. In realtà, per quel naturale moto nazionalistico che avvolge gli sport molto popolari, da noi si tende a dimenticarlo ma furono dei cittadini britannici, in buona parte credo piccolo e medio borghesi, espatriati non per turismo ma per motivi di lavoro (venivano appunto a lavorare in Italia per conto di ditte esclusivamente o prevalentemente originate in Gran Bretagna, e l’Italia era molto spesso Genova e, in particolare, il porto di Genova) i quali si riunirono fra di loro per giocare uno sport ormai popolare in patria ma totalmente ignorato nella maggior parte dell’Europa continentale. Gli inglesi che nel 1893 fondarono quello che è oggi il “Genoa Cricket and Football Club” ebbero, come tanti britannici, un naturale riflesso casalingo. Adottarono i nomi inglesi come avevano adottato motivi musicali inglesi da cantare negli incontri formali. Il professor Massa, minuzioso ricercatore della storia genoana, ha trovato un ritaglio di giornale dei primi del ‘900 in cui si diceva che, al termine di una partita – non so neppure se del “Genoa” o di altra squadra settentrionale - i giocatori avevano “intonato gli inni della patria”. Che naturalmente, cominciavano, secondo gli anni, con il “God Save the Queen” o il “God Save the King”, perché in campo, da una parte e dall’altra, erano in maggioranza sudditi britannici e la patria era la Gran Bretagna.
Non so se sia una leggenda metropolitana genoana, o la verità storica, ma sembra che l’uso della parola “mister” risalga alla presenza in Italia di un favoloso personaggio che si chiamava William Thomas Garbutt, nato il 9 gennaio 1883 ad Hazel Grove, sobborgo di Stockport sito ad una decina di chilometri da Manchester, e morto il 24 febbraio 1964 a Warwick, nel Warwickshire, a meno di 20 chilometri da Coventry. Da giovane si era arruolato nelle forze armate britanniche – credo sia arrivato al grado di sergente, cominciando a giocare al “football”nelle file degli artiglieri dell’ esercito – e iniziò poi una carriera di calciatore, che lo portò dal 1903 al 1912, come ala destra, nelle file del “Reading”, dell’ “Arsenal” del “Blackburn” e poi ancora dell’ “Arsenal”. Quando in seguito ad un infortunio smise di giocare, arrivò a Genova, non per il “football”, si badi, ma per ragioni di lavoro. Era un tempo favoloso (è passato giusto un secolo) in cui, come ho ricordato prima, si veniva in massa a Genova per cercare, e trovare, lavoro (prevalentemente in porto). Sembra uno scherzo ma è vero.
Torniamo a Garbutt. Giunto a Genova per lavorare entrò rapidamente in contatto con il “Genoa”, dove i rapporti con gli inglesi erano ovviamente ancora abbastanza intensi, e in virtù del suo decoroso passato di calciatore venne arruolato come allenatore. Probabilmente era anch’essa una funzione recente, si presume priva di quell’ossessionante sapore sciamanico che ora la circonda. E’ ragionevole presumere egli non sia stato estraneo all’invito, fatto nel 1913, alla sua prima squadra inglese, il “Reading”, a compiere una tournée in Italia che poi si rivelò trionfale. Il “Reading” battè le migliori squadre italiane del tempo (la Pro Vercelli,il Milan, lo stesso Genoa, la Nazionale italiana e perse soltanto con un altro squadrone d’epoca, e cioè il Casale).In quel periodo iniziale Garbutt rimase al Genoa durante 17 anni decisivi, salvo ovviamente gli anni della prima guerra mondiale (per noi 1915-1918) quando i campionati vennero sospesi e durante il quale credo che egli sia tornato in Inghilterra per ritrovare la divisa. In quello scorcio di secolo divenne il “Mister” per antonomasia, probabilmente proprio aiutato dalla sua esperienza come sottufficiale in un esercito dove i sottufficiali avevano un peso ed una autorità simili a quelle prussiane. Si dice che il suo nome fosse stato suggerito da Vittorio Pozzo (1886-1968), torinese di famiglia biellese, dirigente della Pirelli, grande appassionato di “football” – nel 1905/1906 aveva anche giocato nel “Grasshoppers”di Zurigo – destinato a diventare una decisiva presenza nel calcio italiano. A questo ultimo titolo Pozzo divenne per tre volte unico commissario tecnico della Nazionale (si badi, senza stipendio in funzione di una sua esplicita richiesta in questo senso). Alla terza nomina Pozzo inaugurò una stagione trionfale rimanendo in carica dal 1929 sino al 1948 e vincendo i due consecutivi campionati del mondo del 1934 e del 1938 (allora si chiamava, e si chiamò ancora per anni, Coppa Rimet). Rimase quindi in carica fino allo stesso anno in cui terminò la carriera di Garbutt nel Genoa! Il clamoroso cammino di Pozzo –gettò le basi di una conduzione tuttora viva ai giorni nostri: non a caso è l’inventore dei “ritiri”- divenne un veicolo per il suo sincero patriottismo da tenente degli Alpini nella prima guerra mondiale. Nessuna ostentazione “jingoista”in lui, si badi. Pozzo, abituato a viaggiare per l’Europa, era molto più internazionale di quanto usasse allora e di quanto si supponga oggi. Aveva imparato a parlare diverse lingue straniere e credo che l’inglese fosse divenuto il suo secondo idioma. Ma parallelamente alla sua onesta e celebrativa felicità vittoriosa si schierò anche la rumorosa propaganda fascista dell’epoca, che peraltro riusciva molto gradita a buona parte del pubblico italiano (si veda, in un cinegiornale Luce, la naturalezza integrata, al tempo stesso automatica e remissiva, con cui Meazza e i suoi famosi compagni di squadra facevano il saluto romano prima di ritirare la coppa e le medaglie). In un qualche modo Pozzo divenne, credo, il mallevadore di Garbutt. Se non sbaglio se lo portò in Francia proprio come secondo durante quel celebre campionato. E Garbutt, il quale era rimasto nel fondo un rigido sergente vittoriano, credo che a Marsiglia arrivasse a dormire mettendo il letto di traverso davanti alla porta, nell’appartamento dove alloggiavano i calciatori italiani (si temeva che i più intraprendenti fuggissero alla notte per dedicarsi a piaceri illeciti).
Insomma egli divenne il prototipo del “Mister” calcistico dell’epoca, ribadendo la decisiva presenza degli inglesi al comando delle squadre italiane, da cui ci siamo liberati solo da una quindicina di anni (in un mondo completamente cambiato se mai sono gli inglesi ad adottare,oltre che giocatori di ogni nazione e d’ogni colore, costosi allenatori italiani). Ma qui converrebbe fare una riflessione a parte sul tramonto definitivo del “fardello dell’uomo bianco” sia nel calcio che altrove, e la consacrazione di Londra non più capitale di un impero ma capitale dei gusti del viver bene. E’ un tema su cui sarebbe bello ritornare.
A Genova Garbutt, come si è detto con l’interruzione della guerra, restò per oltre 15 anni, dalla stagione 1912-1913 a quella 1926-1927. Fu il quindicennio in cui il Genoa vinse i suoi ultimi scudetti, sino a quello del 1924. La presenza del magico William, detto ovviamente “Willy, segnò tutto un momento della storia del calcio italiano. Ad esempio, se non erro per iniziativa di Geo Davidson, l’inizio del professionismo dei calciatori, attraverso la corresponsione di un prezzo per l’acquisto e poi anche, credo di uno stipendio mensile. In un calcio, che non prevedeva ancora l’arrivo sistematico delle scommesse, fecero scalpore gli acquisti di Renzo De Vecchi (detto “Il figlio di Dio” nella retorica parasalgariana dell’epoca) proveniente dal Milan, e di Attilio Fresia, entrambi per 400 lire, oltreché di Aristodemo Santamaria (“O Santamaia”) e di Enrico Sardi (per 1600 lire ciascuno) addirittura dall’ Andrea Doria. Le accuse furono violente contro la società e i giocatori coinvolti dovettero addirittura affrontare delle squalifiche. Comunque ormai Garbutt, che il Genoa aveva reso noto, era il “Mister” per antonomasia, inaugurando una moda, verbale e scritta che dura tuttora. Poi cominciò a girare l’Italia. Nel 1927 andò alla Roma appena creata. Non so perché si tende a dimenticare che è una squadra nata addirittura nel sesto anno del Gabinetto Mussolini e ad opera di due esponenti del Regime. Infatti la Roma, frutto della fusione di alcune formazioni locali (fra cui sicuramente “L’Alba audace” presieduta dall’on. Ulisse Igliori, membro del Direttorio Nazionale del P.N.F, il “Roman” e la “Fortitudo Pro Roma”) era stata appena fondata, secondo alcune fonti il 7 giugno e secondo altre il 22 luglio, sempre, come si è detto, del 1927. La fusione fu opera di appunto di Ulisse Igliori e di un altro gerarca fascista, Italo Foschi, segretario della Federazione romana del Partito, membro del CONI e dirigente della “Fortitudo Pro Roma”. Dal canto suo Igliori, fiorentino, era un personaggio romanzesco, medaglia d’oro al valor militare nella prima guerra mondiale (aveva perso il braccio sinistro), capo, dicono spietato, dello squadrismo romano insieme a Giuseppe Bottai, sempre importante durante il fascismo ed anche fortunato imprenditore edile e produttore cinematografico. Nel primo anno Foschi fu anche il primo presidente della nuova Società e Igliori, credo, amministratore delegato. E naturalmente Garbutt ne fu, per due anni, il primo allenatore. Probabilmente il suo passato nel Genoa rappresentava agli occhi dei romani una sorta di passaporto diplomatico in un calcio dominato tradizionalmente dalle squadre del Nord, ove il campionato a girone unico con 18 squadre (si veda la mia discussa arguzia iniziale) venne introdotto solo nel 1929. In quell’anno egli passò al Napoli e vi rimase ben sei anni. Poi, alla vigilia della guerra civile, andò addirittura in Spagna, in quella che è storicamente la più antica squadra ispanica, e cioè l’Athletic Bilbao, che risale al 1898 e non a caso ha un nome inglese come il Genoa (infatti è “Athletic” e non “Atletico” come diverse altre squadre spagnole). Nel 1937 (in Spagna c’era la guerra civile) Garbutt tornò ovviamente in Italia, passò brevemente al Milan e poi riapprodò fatalmente al Genoa, sino al 1940, anno della guerra sciagurata. Egli la visse in Inghilterra ma già nel 1946 tornò a Genova e dal 1946-1948 ridivenne l’allenatore della squadra rosso-blu. Poi, come ho scritto prima, si ritirò e venne lentamente ma non totalmente dimenticato dai tifosi.
Debbo dire che io l’ho visto. E non soltanto da lontano ai bordi del campo. Facevo ancora il Liceo o il primo anno di Università, non ricordo, quando un pomeriggio andai ad un allenamento del Genoa al “Ferraris” (all’epoca tutto accadeva lì, non c’erano altre sedi oltre il campo di Marassi, si entrava liberamente, o forse si pagava una minima quota, in una atmosfera fra l’affettuoso e il famigliare che era quello del calcio di allora; alla fine i giocatori uscivano da un’apertura della rete e se ne andavano quietamente negli spogliatoi fra due file taciturne ed educate di spettatori). In quella occasione egli girò instancabilmente il campo per tutto l’incontro fumando la pipa, un’immagine vera che ora sembra falsa, quasi fosse una approssimativa ricostruzione cinematografica di un momento passato del calcio. Ad un certo momento vidi, quasi commosso, Garbutt in funzione. Durante una partita di allenamento fra i titolari e le riserve, un giovane calciatore – probabilmente non era un titolare,si chiamava Vitali, me lo ricordo ancora, giocava ala destra ed aveva i capelli lucidi di gomina - si era accentrato seguendo un’azione. Allora il tourbillon di oggi non esisteva. Continuando a rimestare nella pipa e senza alzare gli occhi Garbutt disse forte: “a posto, quell’ala!” in un italiano correttissimo e vigoroso, proprio con la voce nitidamente secca di un sergente maggiore. Vitali, pur distante, obbedì di scatto, come un cavallo spronato.
Io fui contentissimo – ero solo - di aver visto e sentito, da adolescente devoto, un momento minimo ma rivelatore del mondo del calcio. Soltanto molto tempo dopo capii che quell’uomo era l’ultimo sottufficiale immortalato da un racconto di Kipling.
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Una immagine ben più recente del calcio, a suo modo goffamente aggiornata ai tempi, è quella che ci viene proposta da Sky nelle sue onnivore telecronache del campionato di serie A. Fastidiosissime foneticamente per via delle grida innaturali a cui si abbandonano i commentatori, desiderosi, ma per fortuna incapaci, di eguagliare le micidiali urla tarzaniane dei telecronisti sudamericani. In compenso le riprese sono tecnicamente precise ma da qualche tempo vengono precedute da un imbarazzante preludio. Vale a dire , in prima battuta, da una serie di incerti colpi d’ occhio all’interno degli spogliatoi delle due squadre, che danno l’impressione di ampi locali adibiti alla riunione di igienici condannati a morte in una camera a gas. Privi dei vestiti i giocatori indossano già i casti e imbarazzanti mutandoni usati nel calcio odierno e si concentrano cupamente nel compito, peraltro decisivo tenuto conto della fallosità media del gioco italiano, di cingersi le caviglie e i piedi con metri di cerotti adesivi che si spalmano sul corpo con indubbia maestria, come se nella vita non avessero imparato a fare altro (ipotesi del resto probabile). I volti, a modo loro autorevoli e tuttavia primordiali, tradiscono in genere una cupa concentrazione. E’ vero, qualcuno sorride o fa cenni di saluto verso la camere, ma anche in questo caso tutti gli altri restano taciturni, posseduti da un silenzio senza apparenti speranze. Si ha la sensazione che desiderino di finirla al più presto con questa goffa esibizione corporale – serve soprattutto a mettere in mostra i terrorizzanti tatuaggi con cui sono doverosamente istoriati i calciatori odierni - e chiedano soltanto di poter scendere in campo al più presto, si suppone nella più onesta delle ipotesi, per poter riscuotere senza indugi il premio partita. E qui c’è la seconda battuta: i giocatori vengono allineati in un corridoio illuminato da gelide luci ospedaliere, in piedi vicini ai muri, ogni squadra da un lato. Essi si guardano in faccia senza parlare. Poi ogni tanto accade una cosa curiosa. Qualcuno da un lato della fila subitamente riconosce chi gli sta di fronte e lo saluta con un entusiasmo forse comprensibile in un gruppo di scampati ad un disastro ferroviario ma incongruo in persone che si incontrano puntualmente almeno due volte all’anno e vivono all’interno di una consorteria ristretta e ottusamente privilegiata. Molti subitamente si abbracciano, con una sorta di entusiasmo infantile da cui si riscuotono poi con imbarazzato silenzio. Danno la sensazione di accogliere come una liberazione la possibilità di sciamare sul campo e di sciogliersi le gambe. Ormai da una certo tempo è invalsa l’abitudine di mettere al fianco dei giocatori, bambini e bambine, spesso molti piccoli, vestiti con la riproduzione esatta delle divise dell’una e dell’altra squadra. Tutti sono palesemente divisi fra una vaga paura ed una profonda gioia che si porteranno dietro vita natural durante. I giocatori qualche volta li coccolano, altre volte se li tirano dietro come valigette ingombranti in un aeroporto. Poi finalmente la partita inizia. I giocatori li ritroveremo alla fine intervistati da pieghevoli giornalisti, al tempo stesso ossequiosi e malignetti. Basta vederli in faccia, gli uni e gli altri, per indovinare il tenore delle domande e delle risposte. Gli intervistatori dominati dalla furia parossistica di formular quesiti e di suggerire già le conclusioni.. Gli intervistati dominati da un roccioso vocabolario valido per tutti gli usi ma sorretto da una tenue sintassi.
Riusciamo ad immaginarli anche senza vederli, tanto siamo italiani…….
Claudio G. Fava
(Battute 20.482)

2 commenti:

PuroNanoVergine ha detto...

Complimenti, come solito, per la bellezza dell'articolo (e per la memoria!).

Sulla nazionale di Pozzo mi pare di ricordare che nei mondiali del 1938, giocati in Francia, gli esuli italiani erano indecisi se sostenere o meno la propria nazionale: da un lato la naturale propensione a tifare Italia, dall'altro l'ingombrante "presenza" di Mussolini.

Il dubbio svanì non appena venne suonato l'inno di Mameli con automatico
saluto al Duce da parte degli undici azzurri.

Enrico ha detto...

Bello e interessante il suo scritto,diviso fra l'epica del calcio che fu e la mediocrità d'oggidì.Il brano sul vice di Pozzo che mette di traverso il letto per impedire fughe amorose mi ha fatto tornare in mente quel che scrisse Brera sui mondiali di Francia : visita in blocco della squadra al casino (Maison Tellier,per dirla con lui) dopo le qualificazioni,mentre dopo il memorabile 2-1 al Brasile in semifinale (il gol su rigore del Peppin con l'elastico dei calzoncini rotto!) tale "privilegio" fu concesso da Pozzo al solo Meazza.Grazie ancora per la piacevolissima lettura.