FANTAITALY
Brividi, risate e magia del cinema fantastico italiano
A guardare i venti titoli che compongono la rassegna “Fantaitaly”, si è veramente portati ad ipotizzare che una venatura di evasione fantasiosa, fra il parodistico ed il lunare, esista anche nel cinema italiano (come forse in tutte le cinematografia) e non soltanto in quello propriamente anglosassone, nel quale esiste fuor di dubbio. In un certo senso i titoli si dividono fra una parte “alta” e una “bassa”, giusto per attenersi ad una tradizionale e conservatrice partizione dell’invenzioni fantastiche. Della prima potrebbero far parte “C’era una volta”(1967) “La decima vittima”(1965), “Brancaleone alle crociate”(1970), “La terra vista dalla luna”(1967), “Toby Dammit”(1967), “Fantasmi a Roma”(1961), “Volere volare”(1991), “La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone”(1974), “L’arcidiavolo”(1966), “Il disco volante”(1964) e “Io e Caterina”(1980), mentre gli altri nove andrebbero ascritti alla parte “bassa”. Naturalmente anche qui l’azzardo delle suddivisioni è fortissimo. Sicuramente non mancherebbero gli estremi difensori intesi a rivalutare film come “Totò nella luna”(1958) o “Tempi duri per i vampiri”(1959) mentre i fedeli di Mario Bava certamente scatenerebbero una piccola battaglia per recuperare i meriti di “Diabolik”(1968). Sembra pertanto opportuno cercare semmai di individuare in ogni film le caratteristiche più autentiche di una reale vocazione fantastica e al tempo stesso iper-realista, e lasciare semmai ad un bilancio finale il gusto di una valutazione articolata in frammenti antitetici.
Fuori di dubbio alcuni dei film citati parlano al nostro cuore. Sicuramente uno di essi è “La decima vittima” (1965) di Elio Petri che rivela una impennata insolita nel nostro cinema. E cioè esplicita intenzione celebrativa, all’interno di quella che all’epoca era la vocazione squisitamente anglo-sassone per la “science fiction”, di tutto un momento decisivo dell’illuminazione fantastica. Il coraggioso ricorso ad uno scrittore allora amato in Italia da un numero relativamente ridotto di appassionati come Robert Sheckley, poi destinata ad una larga fama, regge tutta la progettazione e la realizzazione del film. La novella originale a cui tutto si ispira era opera di uno Sheckley appena 25 enne. Il titolo originale era “The Seventh Victim”, cioè letteralmente “La settima vittima”, apparsa nel 1953 e giudiziosamente recuperata in Italia dal cinema 12 anni dopo con il titolo “La decima vittima”, per dare vita ad un’opera che molti non apprezzarono al suo giusto valore. Forse anche per la mancanza di dimestichezza con una zona specifica della narrativa e del cinema, ovvero l’immensa area della fantascienza. Ed in un certo senso, per la consapevolezza degli stimoli ideologici che animavano Elio Petri, e che contribuirono a modellargli addosso una ipotesi politicamente polemica. La quale in realtà, pur ribadita dai suoi film di successo dei primi anni settanta, mi pare coesistesse in lui con autentico stimolo di libera narrazione. In ogni caso “La decima vittima”, film insolito nel panorama anche successivo del cinema italiano, si muove in un ordine di idee ed in una ipotesi di feroce futuro, del tutto estranei alle tendenze e alle fascinazioni allora imperanti nel nostro cinema. Probabilmente è anche merito dei due sceneggiatori più importanti, e cioè Tonino Guerra e, particolarmente, Ennio Flaiano, uno dei pochi protagonisti dell’invenzione cinematografica italiana dell’epoca, in grado di muoversi con ottimismo all’interno di una divagazione fantastica lontana dalla retorica di casa nostra. L’idea di un inseguimento mortale ad un essere umano, alimentato dalla pubblicità e regolato da una normativa emanata da un apposito Ministero della Caccia, sembra stravolgere tutte le opzioni sul futuro, di destra come di sinistra, di una società che si stava avviando inconsciamente verso la futura stagione delle Brigate Rosse. Non è un caso che Elio Petri riesca agevolmente a far muovere all’interno dello stesso film attori e miti originati da momenti completamente diversi della storia, e in particolare di quella propriamente cinematografica. Da Marcello Mastroianni a Massimo Serato, da Salvo Randone a Ursula Andress ed Elsa Martinelli, la popolazione del film scaturisce da un universo praticamente diverso per ognuno degli interpreti ma coraggiosamente unificato dalla mano di Petri. E’ un esempio di evasione fantastica di cui non tante cinematografie possono vantare l’eguale.
Altrettanta festosità e birichina varietà di intenzione dimostrano altri due film della nostra grande tradizione: “Brancaleone alle Crociate” di Mario Monicelli e “Fantasmi a Roma” di Antonio Pietrangeli. Entrambi i registi avevano un retroterra di invenzione poetica che al bisogno conviveva con una concreta, e perfino rude capacità di evocazioni realistiche. Qui nel film di Monicelli si vede assai bene come la goliardica e geniale follia di Age e Scarpelli trovi sbocchi lunari e furbescamente stralunati. Peccato che il film, a stretto rigor di logica, sia difficilmente doppiabile in altre lingue per via dell’ impervia e compiaciuta follia del linguaggio che vi si parla, altrimenti la persuasione che essi siano stati i più grandi sceneggiatori in assoluto del cinema italiano si sarebbe fatta strada anche all’estero. Lo dico con l’orgoglio di chi, in tempi non sospetti, dedicò ai due sceneggiatori un ampio ciclo televisivo di prima serata, quando la gente che veniva dai film di Totò tendeva ad esser snobbata dalla critica “seria”. In “Brancaleone alle crociate” il racconto, pur interpretandola spesso con curiosa lucidità, scherza di fatto con la storia, un po’ come accadeva nei grandi romanzi di Alexandre Dumas ove regine, cardinali, dame e moschettieri si muovevano con intenzioni realistiche su uno sfondo involontariamente parodistico. La stessa voglia di scherzare con i fanti ma di non lasciar stare i santi si ritrova in “Fantasmi a Roma”. Che da un lato è un omaggio ai saporosi film “ultraterreni” della tradizione propriamente britannica ma anche uno scorrevole scherzo in cui si ritrova la parte migliore di quel grande autore incompleto che fu Antonio Pietrangeli. Il quale morto non ancora cinquantenne, ci lascia qui soltanto eloquenti brividi del suo talento e si diverte a recuperare grandi guizzi di attori nostrani su uno sfondo cinematografico in realtà multinazionale. Intorno ad un triplice Marcello Mastroianni (tre personaggi diversi all’interno della storia della stessa famiglia!) si muovono, attendibili fantasmi del passato, Eduardo De Filippo e Tino Buazzelli, Sandra Milo e Vittorio Gasman, che si diverte, con la irsuta genialità che nessun altri possedeva nel nostro cinema, a comporre la figura cialtronesca di un pittore d’epoca detto “il Caparra”. Fra le caratteristiche che fanno di questo film un piccolo gioiello periferico non vi è dubbio che contino molto le invenzioni di sceneggiatura di tre personaggi molto diversi tra di loro ma tutti in possesso di una forte personalità creativa: opera di Ennio Flaiano (al quale in tanti dobbiamo tanto), Sergio Amidei e Ettore Scola. Il film di Monicelli e quello di Pietrangeli, in modi diversi ma tutti egualmente peculiari, si muovono in due sfere fantastiche non comunicanti eppure affini per la scorrevole e perentoria attendibilità dell’invenzione.
Su altri terreni, ma sempre con una palese intenzione fantastica, si muovono ad esempio “Volere volare” di Maurizio Nichetti e “La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone” di Pupi Avati. Entrambi evadono verso i mondi fantastici con una intensità relativamente rara in un cinema prevalentemente intessuto di esplicita comicità quasi dialettale o di pressante intento realistico. “Volere volare” riposa sulla solitaria milanesità creativa di Maurizio Nichetti, il quale proviene dalle esperienze dei mimi di “Quelli di Grock” e dal mondo dell’animazione che si riallaccia a Bruno Bozzetto, mentre “La mazurka” rievoca il mondo del primo Avati, il quale non aveva ancora scoperto la poetica intensità delle sue memorie emiliane e oscillava fra evasioni fantastiche e parodistiche di una stralunata inventività. Il “contagio” del disegno animato nel film di Nichetti e le divagazioni “diaboliche” del film di Avati costituiscono due curiosi fenomeni di evasione in un cinema “altro”, in qualche modo mantenuto poi dall’uno e superato poi dall’altro. Entrambe le opere testimoniano di una vitalità parallela e quasi clandestina ancora una volta rare ma non secondarie nel nostro cinema.
Il gusto dell’evasione verso sfondi diversi da quelli abituali è palese in molti film compresi nella rassegna. Si prenda il caso di “C’era una volta” di Francesco Rosi. Di fronte a tanto suo cinema rudemente e spesso genialmente realistico e para- documentario (vale per quasi tutta la sua opera: per citare solo i titoli più interessanti ricordo “Salvatore Giuliano”, “Le mani sulla città”, “Il caso Mattei”, “Cadaveri eccellenti”) “C’era una volta” è apertamente una fiaba, di continuo smentita e ribadita (l’ispirazione viene addirittura da “Lu cunto de li cunti” di Gianbattista Basile). Quasi un’ evasione dal mondo concreto e rabbioso di politici corrotti, speculatori sfrenati, banditi illusi e abbandonati e grandi industriali misteriosamente deceduti, che è stato il suo per tanti film, a dimostrazione del fatto che la voglia di evadere dai propri confini abituali fermenta un poco in tanti creatori del nostro cinema. Finendo così con l’allontanarli, seppur a tratti e per brevi momenti, dai ribaditi cammini istituzionali propri della cinematografia italiana.
Un’ altra grande impennata fantastica e ossessivamente sognante è quella di Fellini nell’episodio “Tommy Dammit” contenuto nella trilogia “Tre passi nel delirio”. E’ stato giustamente rilevato dal dizionario Morandini che la collaborazione alla sceneggiatura di Bernardino Zapponi (è la prima delle sette volte in cui Fellini e Zapponi lavoreranno insieme) fa si che “il fantastico Felliniano si incupisce, Roma è la sua galleria di mostri hanno una luce sinistra che dà nel macabro putrescente”. Mi sembra significativo questa notazione all’interno di un film di un regista sempre globalmente dominato dall’ossessione di un intrattenibile intervento fantastico all’interno di una minuta descrizione realistica. Non c’è dubbio che la “Fantasy” di Fellini agisca qui ad uno dei massimi livelli. E che la sua visione ossessiva del cinema (e anche del diavolo) trovi nell’episodio un’ulteriore, e clamorosa, conferma. Tutto è fantastico nel cinema di Fellini, frutto e meccanismo per fughe ed evasioni di ogni sapore che non ha quasi eguali nel cinema italiano. E che qui ribadisce la vocazione al più sontuoso immaginario che ha per intero sovrainteso a tutta l’opera del regista di Rimini, anche nelle sue venature più rigorosamente ironiche e bozzettistiche.
In quanto a “Io e Caterina” di Alberto Sordi con Alberto Sordi, Edwige Fenech, Catherine Spaak, Rossano Brazzi e Valeria Valeri pone certamente il problema della geniale inventiva montanara di Rodolfo Sonego alle prese con l’urgenza di commedia tipiche dell’autore-regista, a cui per altro Sonego ha offerto alcune delle occasioni migliori. Più di 30 film fra cui, senza aver la pretesa di averli individuati tutti, molte occasioni di meditata semi-follia, minuziosamente fantastica, e di rigorosa vocazione realistica ironica e grottesca. Mi limito a ricordare alla rinfusa “Il vigile”, “Brevi amori a Palma di Majorca”, “Le svedesi”, “Il diavolo”, “Il disco volante” di Tinto Brass (non a caso incluso nella presente rassegna), “Guglielmo il dentone” di Luigi Filippo da Amico (all’interno de “I complessi”), “Le vacanze intelligenti” di e con Alberto Sordi (all’interno di “Dove vai in vacanza”), “Il comune senso del pudore”, e via citando molte apparizioni dell’attore che desiderava soprattutto esser regista. Film ove l’invogliante menù di Sonego costituiva un eccellente trampolino di lancio per le fughe trasversali di Sordi verso i terreni infiniti delle parodie sfrenate e quindi delle fantasie più luccicanti.
Va ancora ricordato che proprio molte delle opere apparentemente meno paludate della rassegna, contengono subitanei ghiribizzi fantastici che trovano facilmente collocazione nell’immaginifico retroterra della comicità di Totò. Metà del fascino del Principe napoletano era rappresentato proprio dalle improvvise fughe nella più paradossale fantasia, sollecitate dalla stessa sua figura e dal suo tipo stravolto e ammiccante di recitazione. Per fare un esempio di un film qui non presente (non è minimamente un rimprovero, non si può includere tutto e gli organizzatori hanno già fatto miracoli di ricerca) è “L’Imperatore di Capri” di Luigi Comencini (1949). Totò, cameriere a Napoli ma scambiato per un Bey a Capri, cerca di tener lontana suocera e moglie da un salone di lusso ove si danza in abito da sera e nella quale lui è al centro della festa. Nelle sue vesti di cameriere in frac cerca di allontanare le sue donne sostenendo che all’interno del salone lo spettacolo è talmente immorale che i danzatori sono nudi. La porta si apre per un attimo e si vedono donne in abiti da sera e uomini anche essi in frac. “Ma sono vestiti!” esclama una delle donne stupite. “Si, ma sotto sono nudi” ribatte gelidamente Totò. E’ certamente una battuta obbligata e tipica dello stile d’epoca, probabilmente di Metz e Marchesi, ma è anche un subitaneo richiamo alla “follia” che Totò porto con se nel cinema italiano dalla rivista e che travalicò ogni anonima presenza di registi e di sceneggiatori.
Del resto Steno, proprio nei suoi inizi a fianco di Mario Monicelli fu coinvolti anche egli nella potenziale “fantasticità” del nostro cinema. Si pensi ad un altro film della rassegna e cioè a “Tempi duri per i vampiri” (all’epoca almeno i titoli erano non di rado spiritosi) in cui il tessuto narrativo -opera del solito numero sterminato di sceneggiatori come usava da noi all’epoca: Anton, Cecchi Gori, Continenza, Fondato, Rascel, Dino Verde e lo stesso Steno- è flebile. Ma la presenza di Cristopher Lee nei panni del barone Roderico da FranKurten rappresenta un’ improvvisa iniezione di inaspettata follia parodistica la stessa che anima un altro film di Steno (Stefano Vanzina, regista tutto sommato troppo presto accantonato dal cinema italiano, così generoso con i suoi figli) e cioè “Dottor Jekyll e gentile signora”(1979) (sceneggiatori: Benvenuti, De Bernardi, Manganelli e ancora Steno). Il film probabilmente non riesce a raggiungere il livello proprio della parodia ma la presenza di Paolo Villaggio protagonista, nei panni di un Jekyll cattivissimo che vuol diventare ancor più cattivo, trascina con se tutta la forsennata coloritura di eccesso malignamente fantastico che è proprio del cinema di Paolo, riassunto dal disegno stravolto ma minuto dei suoi famosi impiegati automi. Altre configurazioni della stessa fantasia, fra l’ingenuo e l’eccessivo, che è stata propria di tanto cinema italiano soprattutto del passato, si ritrovano in molti altri titoli presenti nella rassegna. E’ doveroso inserire qui quell’allegro e sfrontato esempio di sgangherata vocazione parodistica che ci riporta all’Italia di 30 anni fa. E cioè il ”Pap’Occhio” , appunto del 1980, esordio nella regia della curiosa coppia formata da Renzo Arbore, consacrato in tutta Italia dal successo de “L’altra domenica” (1976-1979), e da Luciano De Crescenzo, ingegnere, divulgatore di filosofia e autore di successo. Il film ha avuto traversie di ogni genere, poche settimane dopo l’uscita, nel settembre 1980, fu sequestrato per “vilipendio” alla Religione Cattolica. Il sequestro decadde a causa di una amnistia. Nel 1982 la corte d’appello di Roma archiviò la denuncia per vilipendio. Inizialmente deprecato dalle autorità vaticane fu poi valutato “film futile.. ma che non raggiunge toni, dissacratori irriverenti o blasfemi. “ Nel 2010 Pippo Corigliano, portavoce dell’Opus Dei, lo ha addirittura riabilitato definendolo “film apostolico in stile cristiano”. Perché tutto questo accumularsi di condanne e di assoluzioni? Non ci si stupisce troppo pensando a quel che è il tessuto centrale del racconto: il Papa convoca Arbore incaricandolo di mettere in scena, per la Tv Vaticana, lo show musicale “Gaudium Magnum” . Alla fine sarà lo stesso Padre eterno a far precipitare tutti nelle viscere della terra. Nel disordinato ma furbesco fluire delle gag, a cui partecipano molti volti resi noti da Arbore in televisione, si avverte pienamente il sapore post-goliardico della voglia di divertirsi di Renzo e del suo complice De Crescenzo. Con una mescolanza di allusioni furbescamente para-religiose e di scherzi un po’ eccessivi da ex-chierichetto (non a caso Arbore si definisce “cattolico, apostolico, foggiano”) il film ondeggia volutamente in un mondo di fantasia sfrenatamente disordinata, quale può nascere soltanto in un paese di antiche origini cattoliche e di corrente dimestichezza liturgica.
In quanto a “Diabolik”, gli specialisti fanno rilevare che si è inserito nel “filone fumettistico italiano”, preceduto da “Kriminal” diretto nel 1966 da Umberto Lenzi, grande specialista delle venature sotterranee del cinema avventuroso e “thriller” italiano. “Diabolik” è ispirato dai fumetti delle sorelle Angela e Luciana Giussani: film tipico per i seguaci di Bava e comunque ricco delle invenzioni e delle omissioni peculiari del regista. Inizialmente era stato affidato a Tonino Cervi licenziato da De Laurentiis dopo una settimana, e Bava fu arruolato perché era considerato uno dei più adatti, visto che era uno degli specialisti nostrani di effetti speciali. Per “Diabolik” ottenne un budget di duecentomilioni di lire, basso per il produttore ma alto per il regista. Le intenzioni di dare al film una certa connotazione di lusso furono ribadite dalla presenza di Michelle Piccoli, a cui fu affidata la parte dell’ispettore Ginko mentre il personaggio di Ralph Valmont ottenne il talento e il volto di Adolfo Celi. Sembra che persino Catherine Deneuve abbia interpretato per poco tempo la parte di Eva Kant, ma venne poi sostituita perché Bava non gradiva la sua prestazione e, del resto, essa si rifiutava di girare scene di nudo. Non fu un grande successo (incasso italiano 265 milioni di lire). La critica italiana non si commosse molto ma in Francia fu apprezzato dai Cahiers du Cinéma e in America da Rogert Ebert. Non v’è dubbio che il personaggio sia uno dei più fruttuosi e fortunati protagonisti dell’invenzione casalinga all’italiana. E proprio il sapore di furbesca fantasia che anima le due sorelle creatrici, conferisce all’evasione fantastica, peraltro legata ad una tradizionale farmacopea della criminalità fumettistica, un decisivo sapore nostrano.
Sono presenti nella rassegna ancora film di lusso nella regia, ad esempio “La terra vista dalla luna” di Pier Paolo Pasolini (un episodio de “Le streghe”) e “L’Arcidiavolo” di Ettore Scola: nel primo si ritrova l’uso genialmente sgangherato del personaggio Totò, nel secondo la classica variazione “diabolica” propria di tanto cinema fantastico sospeso fra Inferno e Paradiso. Mentre “Non ci resta che piangere” (1984) ripropone le divagazioni ironicamente fantastiche di Massimo Troisi e Roberto Benigni all’interno di un classico viaggio a ritroso nel tempo, un tema che il cinema, soprattutto quello anglosassone, ha sempre prediletto. Divagazioni nel tempo e scene di sabba e di salti nel passato si trovano anche in “Mia moglie è una strega” di Castellano e Pipolo. Mentre “Il Cavalier Costante Nicosia…Dracula in Brianza”(1975), grazie ad una sceneggiatura di Pupi Avati e la presenza di Lando Buzzanca, Valentina Cortese e Rossano Brazzi, ci ripropone la figura controversa di Lucio Fulci (1927-1996) che molti considerano uno dei registi italiani più ingiustamente trascurati, rivalutato di recente come personalissimo regista di film di “genere”. Qui la parodia del film di vampiri raggiunge indubbiamente confini personali e doverosamente stravolti. Arriviamo infine a “Ciao Marziano”(1980) di Pier Francesco Pingitore ove molti protagonisti della comicità all’italiana si trovano al centro di un film che è al tempo stesso una parodia del cinema di fantascienza e, almeno nelle intenzioni, una variazione ironico-grottesca della comicità in stile “Bagaglino”.
Qui si concludono i titoli dell’elenco espressamente formulato da Adriano Pintaldi ma non tutti i titoli della rassegna. Saranno presenti anche film con Franco Franchi & Ciccio in Grassia, Johnny Dorelli, Bud Spencer e ancora il grande Totò. A dimostrazione dell’insospettato retroterra fantastico di tanto cinema italiano di aperto consumo o di nascosto snobismo.
Claudio G. Fava
Battute 20.060
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