Rispondo subito ai
contributi di Luigi Luca Borrelli e di Enrico a proposito di Melville
pubblicati nel Blog il 10 Febbraio. Per quel che riguarda Borrelli gli farò
osservare che “l’americanità” di Melville aveva due articolazioni diverse. La
più importante era quella che riguardava il suo “emballement” per il cinema
americano: ritrovi Borrelli l’elenco dei registi americani da lui prediletti (è
chiaro, in un momento dato della storia del cinema) e si imbatterà in una
gloriosa, vecchia guardia hollywoodiana, compresi i nomi di alcuni considerati “mestieranti”
ma di cui Melville, da uomo del mestiere che sapeva cosa voleva dire girare un
film, aveva il massimo rispetto.
In altro senso il gusto
“americano” di Melville si può ritrovare, secondo me, in un piacere minuto
della frammentazione con cui egli articola il discorso dei film, e che fa
pensare a certi gialli post-bellici Usa. È chiaro che i riferimenti visivi
(come dire, antropologici e di luoghi) sono profondamente francesi, a volte
parigini come lo era lo stesso Melville. Il suo amore per l’America è comunque
ribadito da una delle sue opere più curiose, e cioè “Deux hommes dans Manhattan”
(in italiano contraddistinto da un titolo come sempre eccessivo: “Le iene del
quarto potere”). Girato a New York, in una città buia e tutta da indovinare, è
il massimo momento di devozione a quell’America da lui sempre profondamente
sognata come ideale alternativa.
Mi sembra interessante
il riferimento che fa Enrico, da un lato con un elogiativo giudizio su “Lo
spione” (Le doulos) e dall’altro con un aperto elogio per un “polar”
relativamente recente (2008) come “L’ultima missione” (MR 73) di Olivier
Marchal. Questi è un attore e regista che è stato veramente un poliziotto, e
che qui ci parla di un “flic” alcolizzato e disperato, il quale dà la caccia a
un “Serial killer”. La presenza di Daniel Auteuil garantisce la continuità di
un immenso e sommesso divismo, non di rado legato appunto al poliziesco, che
resta un piccolo-grande orgoglio del cinema francese.
2 commenti:
Interessanti i commenti dei tuoi lettori su Melville e altrettanto interessanti e fondamentali le tue precisazioni.
Grazie
Buonasera maestro,
mi chiamo Renato e sono un adolescente. Nonostante la mia giovane età (frequento gli ultimi anni del liceo), porto dentro di me da tempo una grande passione per il cinema, che trovo essere oggi uno dei pochi veri mezzi d'espressione e comunicazione, capace di ritrarre con ineccepibile precisione il "vero" e di creare storie emotivamente significative e avvincenti.
Il mio commento è innanzitutto un messaggio di stima. Caro maestro, l'ammiro davvero tanto dal più profondo del cuore. E' una ammirazione che va al di là del tempo e che resterà per sempre tale. E' grazie a lei che ho scoperto un cineasta di straordinaria bravura e sensibilità come Jean-Pierre Melville ed solo ed esclusivamente per merito dei suoi scritti e delle sue interviste, che amo il cinema e che coltivo questa passione, assieme a quella della lettura e della scrittura. Sono diventato grande fantasticando e riflettendo ad ogni visione di film e ad ogni lettura di libro e credo che l'analisi critica e la capacità di comprendere i significati di un'opera scaturiscano anche e soprattutto dal cinema.
Non perderò altro tempo a dilungarmi su di me, col rischio di annoiarla.
La mia domanda è la seguente:
"Quanto è sottile la linea di demarcazione che separa il noir italiano di ambientazione metropolitana dalle storie di vita del nostro Paese, tempisticamente ambientate tra gli anni del dopoguerra e quelli del boom economico?"
Il mio quesito è il frutto di una riflessione che vado facendo da tempo, analizzando un regista come Pasolini e uno scrittore come Giorgio Scerbanenco.
Il noir in Italia affonda le sue prime radici nel dopoguerra con i film di Pietro Germi. "Il testimone", "Gioventù perduta", "La città si difende" ma soprattutto "Un maledetto imbroglio" sono validissimi esempi di noir italiano d'autore. Mentre i primi due film sono più "di strada" e di ambientazione degradata, gli altri due inquadrano Roma come una città in fase di sviluppo e con una grande criminalità in forte emergenza. I successivi noir esploderanno con la violenza di Fernando Di Leo che, ambientando le sue opere tra Roma e Milano, trasporrà alcuni romanzi del padre letterario del noir in Italia, Giorgio Scerbanenco.
Traducendo ulteriormente la mia domanda (con la speranza di non annoiarla), film come "Accattone" e "Mamma Roma" che in fin dei conti sono "storie di vita e di delinquenza" possono considerarsi dei noir? "Una vita violenta" di Paolo Heusch e Brunello Rondi, tratto dal romanzo di Pasolini può considerarsi un film noir?
In caso di risposta affermativa o negativa, quanto sottile è la linea di demarcazione tra tali film e il noir metropolitano italiano (di chiara derivazione francese), con registi come Fernando Di Leo, di cui ricordo con grande amore "Milano calibro 9" e "I ragazzi del massacro"?
Un carissimo saluto
e mi scusi per la lunghezza della domanda e, forse, per la sua complessità.
Con grande stima e ammirazione,
Renato Rosati.
Posta un commento