Blog - Crediti


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29 gennaio 2010

Nella Svizzera francese sottovalutano la 'Ndrangheta


Ieri ho sentito il telegiornale della TSR, la televisione della Svizzera francese, che io raccomando a tutti perché ha una scelta varietà di argomenti, da cui sono in parte assenti gli episodi più terrorizzanti di cronaca nera, i quali costituiscono ormai i temi di fondo dei nostri TG. L’altro giorno una volenterosa annunciatrice dava notizie del Consiglio dei Ministri indetto da Berlusconi in Calabria, e in particolare delle novità a proposito della malavita organizzata esplicitamente menzionata dai verbali. Lo scrupolo della giornalista giunse a citare, parlando delle organizzazioni di stampo mafioso che purtroppo prosperano nel nostro Sud, la calabrese ‘Ndrangheta. La quale però, per un errore decisivo, veniva pronunziata ‘Ndranghéta, con l’accento sulla “e”, cambiando fondamentalmente le cose. È chiaro che la ‘Ndrangheta, detto in originale, rivela fin dall’inizio della parola un suono minaccioso, che risulta significativamente esplosivo alle orecchie di un italiano del Nord. Mentre invece la parola ‘Ndranghéta, così come era evocata dalla signora svizzera, ha un tono bonario, vagamente veneto (dranghéta, la “n” scompariva quasi), e semmai sembrava il titolo di una commedia dialettale di Angelo Musco. Non so quanti spettatori svizzeri-francesi la conoscano, ma è certo che ogni sapore di terribilità così scompare e rimane al massimo una notazione in una lingua straniera e poco familiare. Infatti, a giudicare dai frammenti di telegiornale ticinese utilizzati in Svizzera romanda, mentre in genere gli svizzeri tedeschi se parlano in “schwitzerdutch” – ma molti sanno il francese - sono sistematicamente doppiati, gli svizzeri italiani hanno la cortesia di rispondere direttamente nella lingua dell’interrogante, idioma che tutti più o meno padroneggiano largamente.
Le lingue sono fondamentali nei telegiornali, ed a maggior ragione i dialetti. Mi auguro che nelle redazioni della TSR questa piccola lezione venga scrupolosamente appresa. Ed io non sia più costretto in futuro a tapparmi le orecchie con le mani.
Claudio G. FAVA

Allenatori, un mondo a parte: da Pozzo a Mou, filosofia da mister - Racconto di Claudio G. FAVA

Ogni epoca ha i suoi miti, a volte anche solo marginali. Si pensi, con l’andar dei tempi, a figure come gli agenti segreti alla 007, gli stilisti di moda, gli scienziati nucleari, le veline, eccetera. Fra i miti più forti di oggi c’è sicuramente quello degli allenatori di calcio. Dei più forti ma anche dei più discussi, visto che uno dei motivi dell’interesse della stampa nei loro confronti consiste nel sapere se verranno o no silurati al più presto. In un mondo fortemente sindacalizzato, dove il “miracolo” della cassa integrazione è invocato continuamente a destra e a sinistra, l’unico contesto nel quale il suddetto “miracolo” non viene invocato è proprio quello degli allenatori. In genere ricevono contratti con scadenze di tre o quattro anni per essere mandati via a due mesi dalla firma, in modo che la stampa possa formulare ipotesi sugli indennizzi che riceveranno (ammesso che li ricevano). Il fatto che sia un mestiere ben pagato ma estremamente fragile nei suoi risvolti contrattuali è ammesso dagli stessi allenatori che ne parlano con una sorta di torbido orgoglio professionale (“Il calcio è così! Lo sanno tutti! Se uno perde rischia il posto!”). In effetti, è più facile licenziare un allenatore singolo che una squadra formata da 20, 25 giocatori, con il groviglio dei problemi che un’epurazione del genere implicherebbe.
Qualche mese fa il “Sole 24 Ore”, quotidiano sempre ricco di invenzioni grandi e piccole, pubblicò un riepilogo degli stipendi degli allenatori italiani, in ordine crescente di grandezza: mi ricordo che uno di quelli che guadagnavano meno era sicuramente “Gennarino” Ruotolo, in passato bandiera del Genoa e giunto al Livorno per via, suppongo, della presidenza Spinelli. Non feci a tempo a ritagliare il frammento di giornale che Ruotolo era già stato mandato via. Il che capitò alla metà dei suoi colleghi citati in quell’elenco, attendibile ma cadùca, come in genere non accade con le statistiche del “Sole 24 Ore”. Ho pertanto cercato di capire quale sia la “moralità” di un lavoro enigmatico e misterioso. Quando io ero bambino il mito dell’allenatore esisteva ma in modo estremamente ridotto rispetto ad oggi. C’erano alcune grandi figure di commissari tecnici, come ad esempio Vittorio Pozzo, anzi il commendator Vittorio Pozzo, che vinceva i campionati del mondo, parlava diverse lingue, fra lo stupore dei suoi calciatori che conoscevano solo il friulano o il milanese, e prima della partita faceva cantare gli inni della patria. Un’altra figura più locale, che si svolse a Napoli ed a Genova, fu quella dell’inglese Garbutt, un’icona genoana che io ho visto allenare al Ferraris. E qualche figura equivalente esisteva anche all’estero, da dove spesso gli ungheresi venivano importati per la loro naturale maestria nel controllo del pallone. Ma, in linea di massima, il mito dell’allenatore era confinato nei limiti di una retorica nazionale scarsamente ricca di esempi. Tipico risvolto italiano fu l’anglicizzazione automatica di un mestiere che inizialmente fu appannaggio di ex calciatori inglesi. Per cui, ancora oggi, l’allenatore in Italia è universalmente chiamato “mister”, parola che non si capisce bene se i nostri calciatori pronunciano perché sono poliglotti o perché ritengono che l’appellativo sia una regola ferrea per indicare la professione. Come ad esempio chiamare “reverendo” un prete.
Quel che colpisce di più nella sacralità odierna dell’allenatore è la tonalità spaventata dei commenti sul loro lavoro. Sicché non si capisce bene quali sono le loro competenze, visto che in molti casi si dà per scontato che egli cambi completamente il modo di giocare di una squadra (si veda Gasperini le cui tecniche di addestramento sono valutate con lo stesso vocabolario che connota, faccio per dire, i progettisti di automobili da corsa o gli architetti). Per far cenno degli allenatori che in questo scorcio di campionato sono sopravvissuti alle “purghe” periodiche, non è rarissimo che un allenatore venga mandato via clamorosamente per essere poi richiamato poco tempo dopo: si veda l’esempio del Torino del presidente Cairo, oppure, in un versante diverso, del Palermo di Zamparini, altro specialista dei licenziamenti in corso d’opera. Guardando gli allenatori ora alla ribalta, si noterà che il carattere romanzesco del loro lavoro è ribadito dalla complessità delle loro caratteristiche fisiche. Si prenda il caso di Ballardini, da non molto tempo allenatore della Lazio, il quale è un personaggio apertamente post-bergmaniano. Il cupo atteggiamento del volto, esaltato da una calotta di lana che si direbbe venga dal Nord della Svezia, concede a ciascuno dei suoi interventi in video una calcolata tristezza apparentemente scaturita da una delle scene minori de “Il settimo sigillo”. Un altro personaggio, attualmente fortunato allenatore del Bari, Giampiero Ventura, è un genovese sul cui viso un suo concittadino come me legge senza esitazioni le modalità liguri della sua massima partecipazione emotiva. Se le cose in campo vanno bene, la sua espressione sembra dire: “Speremmu ben”; se c’è qualche intoppo la bocca gli si abbassa e il sapore generale dell’immagine equivale a: “Saviò! Maniman cuscì finimmu in Paviann-a”. Un terzo allenatore, un romano finito ora alla Roma, Claudio Ranieri, possiede tratti rivelatori ma contraddittori: da un lato vorrebbe gioire con ingenua felicità capitolina, dall’altro il suo volto si controlla da solo, perché ha allenato in Spagna, in Inghilterra, ed a Torino; tutti luoghi dove le mutevolezze delle facce sono pesantemente condizionate da rigide impostazioni locali. Potrei continuare all’infinito con quasi tutti gli allenatori attualmente in servizio. Per brevità mi limiterò a chiudere con quegli che è sicuramente il torvo trionfatore della notorietà di categoria, e cioè José Mourinho. Il suo compenso è altissimo, così forte che supera di parecchi milioni quello dei suoi colleghi più fortunati. Egualmente altissima è l’attenzione con cui la stampa italiana analizza furiosamente ogni parola da lui pronunciata, anche in dialetto. Si pensi alla sua autopresentazione quando, da poco arrivato a Milano, disse “Non sono un pirla!”. La voluttà con la quale bofonchia la nostra lingua, quasi sempre senza commettere errori, resta una delle prerogative maggiori di un personaggio che anche sull’idioma ha costruito la sua mitologia. Probabilmente è il portoghese che ha maggior peso nella storia attuale dell’Europa, da quando è scomparso Antònio de Oliveira Salazar, che però rimase al potere quasi quarant’anni (dal 1932 al 1968). Com’è noto il suo desiderio è quello di tornare ad allenare in Inghilterra, dove fu al Chelsea, attualmente nelle mani di un italiano, Ancelotti (un altro italiano famoso è Mancini al Manchester City). Questo amore per la Gran Bretagna colloca Morinho nella più radicata tradizione filo-inglese tipica della cultura portoghese. Dove nacque un proverbio che io imparai leggendo una biografia di Wellington e che dice testualmente: “Cum todo o mondo guerra, paz cum Inglaterra”.
Claudio G. FAVA


(Da "Il Secolo XIX" del 21 Gennaio 2010)

7 gennaio 2010

LA SOLITUDINE DEL GIORNALISTA DI FONDO

E' uscito finalmente il numero 59-60 di Maggio-Dicembre 2009 de "La Riviera Ligure", quaderno quadrimestrale della fondazione Mario Novaro, in onore di Mauro Manciotti. La pubblicazione contiene testimonianze di amici e di persone che l'hanno conosciuto bene professionalmente. E cioé: Guido Arato, Eugenio Bonaccorsi, Tonino Conte, Giorgio Gallione, Paolo Lingua, Giorgio Lombardi, Franco Manzitti, Vito Molinari, Piero Pruzzo, Carlo Repetti, Carlo Rognoni, Umberto Rossi, Margherita Rubino, Marco Sciaccaluga, Bruno Torri e Aldo Viganò. Inoltre un'ampia antologia di testi critici di Mauro Manciotti ed una bio-bibliografia. Infine la parte più ampia del testo, e cioè quello da me scritto e intitolato "La solitudine del giornalista di fondo". Poichè si tratta di ben 21.439 battute ed inoltre il mio contributo, come quello di tutti gli altri collaboratori ha avuto carattere gratuito, per celebrare un vecchio amico ho deciso di ripubblicarlo qui facendo presente che i quaderni de "La Riviera Ligure" sono riservati agli "amici" con delle quote annuali di 24 oppure 50 €. Si possono chiedere informazioni allo 010/553.03.19.
Lo frequentavo da più di mezzo secolo, l’ho incontrato in oltre 50 anni centinaia, forse migliaia di volte, abbiamo parlato di tutto, di calcio, di politica, di pallanuoto (Mauro era un vecchio praticante ed un appassionato), di cinema, di letteratura, di teatro, di curiosità del dialetto genovese – Mauro era di origine pisana ma ormai possedeva molto bene il vernacolo - di jazz, di cui lui era un appassionato cultore (fu uno dei fondatori del “Hot Club Genova”) e di mille altre cose. Eppure non potrei dire in tutta sincerità di averlo conosciuto bene. Una delle sue caratteristiche era un’estrema mutevolezza di fondo, per cui molti stentavano a disegnarne un ritratto completamente attendibile. Una cosa che si poteva dire di lui con sicurezza era che Mauro era un giornalista. Vale a dire che era fatto per lavorare in un giornale. Ne aveva la capacità di improvvisazione, la fulmineità delle reazioni, la possibilità di concentrarsi da un momento all’altro su un tema dato di svolgerlo e di esaurirlo in poche cartelle. Non possedeva soltanto la specializzazione del critico ma quando era ispirato poteva cimentarsi con tutto, dall’ elzeviro al pezzo strettamente sportivo. Questo talento nel lavoro breve e immediato contrastava poi nel fondo con una sua curiosa ma comprensibile aspirazione. Che era invece quella di dedicarsi alla pienezza ed alla totalità di una carriera di studioso, di esegeta di letteratura del passato, magari concentrato su un argomento minuto e antico su cui piombare con la spietatezza maniacale dello specialista, un po’ come il suo (e in parte anche mio) vecchio e geniale amico Salvatore Rotta, arguto e sbeffeggiante nella pratica di tutti i giorni, ma torvamente competente nelle ricerche erudite. Non dimentichiamo che fu a Lettere uno degli allievi migliori di Walter Binni (qui si legò con solida amicizia con Franco Croce). In certo senso avrebbe voluto essere come il cattedratico , e invece aveva ricevuto in dono la frivola ma geniale capacità di improvvisazione dell’uomo da giornale. Pur differentissimo, credo (ma entrambi erano cultori della buona tavola) nella struttura mentale e nella pratica di tutti i giorni, aveva qualcosa in comune con un personaggio in apparenza del tutto dissimile.
E cioè Orio Vergani, di cui mi aveva sempre colpito la favolosa capacità di “scrittura automatica”che gli consentiva di alternare temi e soggetti nel corso di una lunga giornata di lavoro, ma anche quella di allineare (lui rigorosamente a mano, mentre io appartenevo già alla generazione della Olivetti) migliaia di righe. Mauro era, se necessario, “bifido” ma tendenzialmente, finché gli fu possibile, scriveva a mano anche lui, come i vecchi, nonostante fossimo praticamente coetanei (aveva un anno di più). Senza una rettifica, senza un’incertezza, senza quel lavorio di correzione e di rielaborazione della pagina che molto spesso fu un segreto dei grandi, ma che nelle macchine da redazione, come Orio (e Mauro), presupponeva invece uno sconfinato automatismo. Com’è noto Vergani, ricevuta la richiesta di un articolo, prendeva una risma di fogli di carta, estraeva la stilografica e cominciava ad allineare quietamente parole su parole, come – fu lui stesso a dirlo – se una voce gliel’avesse meccanicamente sussurrate all’orecchio. Via via che il tempo passava, le parole sulla carta si allargavano come in un grande, leggibile graffito, e alla fine in tipografia, al “Corriere della sera”, esisteva un solo linotipista in grado di interpretare il testo. Ma al di là di questi particolari tecnici, i creativi dati di fondo erano gli stessi. Mi conferma Aldo Viganò che nel 1974, e dunque in epoca “storica”, quando egli iniziò a collaborare col “Secolo XIX”, Mauro si ostinava ancora a scrivere a mano, attirandosi le proteste di Bruno De Ceresa; fratello di Ferruccio e mio collega negli anni ‘50 alla “Gazzetta del lunedì”. Mauro ribatteva facendo osservare che i tipografi capivano anche i manoscritti e che lui, pur scrivendo a mano, era perfettamente in grado di misurare gli spazi, come accadeva nelle vecchie redazioni e nelle tipografie di una volta. Con una precisa limitazione: Mauro aveva la prontezza e la reazione ma anche la brevità di respiro, misurabili a cartelle, come usava allora (e quindi non valutabile in battute, in un passato anteriore a quella dei computer). Anche in questo, forse ancor più di Vergani, era un vero giornalista d’epoca: esaurito il suo compito, si svuotava bruscamente. Poteva dedicarsi ad abbozzare un titolo ed un sommario, ma la sua autentica capacità di concentrazione tendeva ad esaurirsi in breve. Va detto che le sue reali capacità professionali erano molto notevoli e lo avvicinavano ad un glorioso passato di redattori “d’antan”, abituati ad improvvisare impaginando sul bancone stesso della tipografia, fra righe di piombo ripudiate, bozze macchiate ed il ticchettio lontano ma decisivo delle linotype. Queste erano dunque alcune delle caratteristiche di fondo di Mauro. Ma non tutte, e forse neppure le principali. Cosa difficile da stabilire data la vertiginosa elusività di fondo dei suoi talenti e dei suoi difetti.
E’ necessario ricostruire minimamente una parte della carriera giornalistica di Mauro la quale si svolse largamente, ma non esclusivamente, al “Secolo XIX”. Che non era il Secolo di oggi ma quello di ieri. Aveva la sede in un palazzo imponente ma sbriciolato di Piazza De Ferrari, nella cui ombrosa redazione si udiva, senza riuscire a collocarlo esattamente, il frinire ticchettante delle linotype, le macchine che hanno accompagnato in tutto il mondo, dall’inizio alla fine della carriera, intere generazioni di giornalisti. L’interno della redazione era sicuramente meno smagliante di quello di oggi, ma la collocazione era inarrivabile. Il palazzo (mi pare che adesso ci sia una banca) si affacciava direttamente sulla piazza, stabilendo un contatto autorevole e quasi fisico colla cittadinanza, e quindi con i lettori. Era il Secolo, per anni chiamato convenzionalmente “di Cavassa”, combattivo giornalista sanremese che ne fu direttore per più di 20 anni (dal 1945 al 1968) garantendo un misto di patriottismo dei tempi del Piave e di buon senso ligure .Poi, dal 1968 al 1973 venne in parte smentito dalla raffinata direzione britannico-progressista di Piero Ottone, il quale inaugurò una lunga serie di direttori (a tutt’oggi sono 10 ed è imminente, mentre scrivo queste righe, l’arrivo dell’undicesimo). Il Secolo di Cavassa aveva alcuni punti fermi, fra cui quello delle rubriche di critica cinematografica, di critica teatrale e di critica musicale, tutte affidate ad un solo giornalista (credo fosse l’unico caso in Italia) anch’egli a suo modo una istituzione del giornale. Si chiamava Carlo Marcello Rietmann (1905 – 1981), di una famiglia siciliana genovesizzata che però all’origine veniva dalla Svizzera. Era una persona squisita, molto rispettata dai tipografi (che avevano una grande opinione “do sciô Ritma”) il quale si barcamenava abilmente fra tutti i suoi incarichi redazionali. Per anni Mauro fu il suo “vice”- come si diceva ai nostri tempi – alimentando senza volere una certa confusione fra i lettori. Infatti, quando siglava gli articoli - si usava così per le recensioni medie - scriveva “man.”, evidentemente l’iniziale di Manciotti, ma nel mondo genovese dell’esercizio cinematografico, ben più esteso di quello di oggi, molti lo interpretavano come se fosse la sigla di Rietmann (cosa assurda, visto che nel cognome di questi le “n” erano due, aumentando se mai la confusione). Formalmente i rapporti tra i due erano ottimi (“il mio vice è professore” diceva orgogliosamente Marcello) ma è chiaro che una certa insofferenza si avvertiva nell’animo di uno specialista, quale in fondo era Mauro, nei confronti di uno scorrevole “dilettante” di buona famiglia e di ottima formazione redazionale (vecchio professionista, autore di almeno 3 raccolte di novelle e di 9 testi teatrali). Uno dei motivi che hanno rallentato il rapporto di Mauro con la critica cinematografica del quotidiano fu senza dubbio la presenza di un educatissimo titolare di rubrica, che non si capiva bene quali interessi coltivasse maggiormente. Un altro motivo era sicuramente la propensione di Mauro per il teatro. Del cinefilo d’epoca gli mancava in parte la dimensione “cineclubistica” che segnò in modo indelebile tutta una generazione a cui ho appartenuto anch’io , anche se giovanissimo gli capitò al “Lavoro”, prima di passare al “Secolo”, di fare il vice di Cicciarelli, che se ne era andato a Monterosso in un’estate spaventosa di “prime” fondamentali, a cominciare da “Quarto Potere”, di Orson Welles. Ma in particolare si avvertiva in lui una istintiva adesione ad una liturgia della scena che aveva delle sue regole e delle sue scadenze (si pensi alla voce “dal vivo”) troppo diverse da quelle del cinema. La scena Mauro l‘aveva anche praticata – io me lo ricordo, con i suoi esplosivi capelli rossi e la sua irruenza da ex pallanuotista, al “Pirandello”di Piazza Tommaseo ne “Il Ciambellone”, stralunato copione di Achille Campanile – ricavandone una complicità mai smentita con attori e registi . Il suo rapporto con il teatro rimase al giornale per alcuni anni appunto ombreggiato dalla presenza del titolare Rietmann; ma quando se ne svincolò il vero talento di Mauro ebbe più di un’occasione di esplicarsi. Quando voleva, e se voleva, soprattutto sul teatro, Mauro scriveva molto bene ed era uno dei migliori d’Italia. Venivano fuori la passione specifica dello specialista e insieme la sua qualità di letterato alle prese con una pagina che lo interessava veramente. Qui, quelle qualità immediate e fulminanti di giornalista (ovviamente, di ottimo giornalista) a cui ho fatto cenno prima balzavano fuori con l’immediatezza e l’eleganza che a volte si trovano in certi quotidiani nonostante la naturale fragilità e la vocazione morente che è propria dei giornali, destinati a corrompersi ed a scomparire, poche ore, se non pochi minuti, dopo essere stati eruttati dalle rotative. Erano in lui i segni di una vocazione profonda che rimasero vivi sino alla fine. Bisogna avere il coraggio di dire che negli ultimi tempi, a causa del decadere fisico, si erano lievemente attutite in Mauro alcune delle caratteristiche migliori che avevano dato origine alla profonda fascinazione che esercitò per anni sugli amici: la scioltezza del dire, l’automatismo del vocabolario, la fulmineità dell’interruzione. Chi lo ricorda negli ultimi tempi alla “Stanza del Cinema” sa di che cosa parlo ed a che cosa alludo. Ma il gusto dello scrivere di teatro gli era rimasto per fortuna dentro e lo dimostrò quando, ormai pensionato e negli ultimi anni della professione, gli venne affidata la rubrica nel “Lavoro” e cioè l’edizione locale de “La Repubblica”. Lì ritrovammo il Mauro di una volta: la sicurezza del giudizio, la tempestività delle citazioni, il naturale spazio di indagine critica che faceva parte della sua più intima vocazione mentale. E per molti di noi, vecchi amici, fu un momento di profonda soddisfazione. A dimostrazione del fatto che, al di là dei suoi disordinati impegni vitali, Mauro era un animale di scrittura. E che, proprio scrivendo, riscopriva l’intensità di una vocazione altrimenti nascosta e in qualche modo posta ai margini da criteri tempestosi nel condurre la propria esistenza.
Ci sono altre caratteristiche che danno vita al complicato tassello in cui si articolava la personalità di Mauro. Ad esempio la sua spettacolosa capacità manovriera nell’articolare complicati rapporti personali e “politici” all’interno di questo o quello schieramento umano e professionale. Spesso ne abbiamo parlato con vecchi amici (ad esempio Piero Pruzzo) quando tornavamo da uno di quegli incontri “sindacali” tipici di ogni organismo collettivo e quindi anche della vita pubblica del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (non sembra ma ha quasi quarant’anni, visto che partecipai alla sua fondazione nella primavera del 1970 a Perugia). In diverse occasioni Mauro dette prova di quella capacità di saldare rapporti e interessi, a volte complessi e spesso contrapposti, che sono tipici di chi sostiene attività appunto di tipo politico all’interno di enti e di schieramenti. Soltanto uno, nel giro dei critici cinematografici, possedeva la stessa scaltra capacità, e cioè Lino Miccichè, che non a caso fu un presidente di largo potere all’interno del sindacato e, una volta divenuto professore universitario, esercitò poi una considerevole influenza nell’assegnazione delle cattedre di Storia del Cinema. Difatti il rapporto tra lui e Mauro fu simile a quello che si instaura all’interno dello stesso partito fra politici concorrenti, esponenti di cordate diverse. Tante volte è accaduto a me e a Piero di assistere ad una parte finale di un congresso del sindacato, in cui Mauro all’ultimo scompariva e tutti i giochi sembravano schierarsi a favore di altri. E poi nell’ultimo quarto d’ora, quando di Mauro s’erano perse notizie e sembrava tagliato fuori da tutto, eccolo apparire subitamente con in tasca una inattesa soluzione globale (magari frutto di un incontro con Miccichè). Non è un caso che, esercitando le stesse capacità manovriere all’interno della Federazione della Stampa, egli riuscì a far considerare l’attività dei critici cinematografici frutto di un Gruppo di Specializzazione, con tutte le fruttuose ricadute sindacali che la denominazione implicava. Sarà opportuno ricordare che la mia dimestichezza con Mauro abbracciò buona parte della sua e della mia vita professionale, anche se non ho in comune con lui il periodo universitario (come sua moglie Gabriella ho fatto legge). Cominciai ad avere rapporti regolari con Mauro a metà degli anni 50, quando iniziai a interessarmi fattivamente del cosiddetto “Cineforum dell’Arecco” guidato con tempestosa saltuarietà ma anche con indubbie capacità di invenzione da quel curioso personaggio, allora gesuita, che fu Padre Angelo Arpa. La disorganizzazione era tale che non veniva nemmeno creato un comunicato stampa per informare i soci (erano centinaia) del titolo del film prescelto per la proiezione settimanale. Fui io che cominciai a telefonare sistematicamente in redazione a Mauro per comunicare appunto i dati della proiezione. E da questa minima abitudine (noi ci conoscevamo già da tempo) nacque una sorta di dimestichezza che doveva rassodarsi nel 1958 quando diventai il critico cinematografico del Corriere Mercantile. Le regole non scritte ma vive all’epoca esigevano che film in prima visione venissero recensiti con puntualità dai quotidiani locali (oltre al Secolo ed al Mercantile, mi limiterò a ricordare l’allora autorevole Lavoro ed il Nuovo Cittadino), ma, forse ancor più di oggi, già allora apparire sul Secolo era fondamentale nella vita quotidiana dei genovesi. E debbo dire che Mauro si dette da fare ogni settimana per pubblicare il titolo del film, spesso assolutamente ignoto nelle sue implicazioni ai soci del Cineforum i quali costituivano un compatto troncone medio-alto borghese tipico della Genova degli anni 50. L’esercitare lo stesso “mestiere” (naturalmente Mauro recensiva i film che non venivano scelti da Rietmann) rese più regolari e naturali le frequentazioni quotidiane, al punto che non molti anni dopo insieme ad un terzo amico, Giovanni (detto “Nanni”) Cattanei, demmo vita ad una rivista intitolata “Teatro e Cinema” di cui uscirono pochi numeri, ma che qualche appassionato ricorda ancora. Fu da quegli anni che la dimestichezza quotidiana con Mauro finì poi con l’acuirsi quando, divenuto titolare della rubrica sul Secolo, cominciò a muoversi per seguire, con una fastosità allora normale non solo nei grandi quotidiani nazionali, ma anche nei giornali regionali di peso, i vari appuntamenti cinematografici allora esistenti. Non soltanto Venezia e Cannes, ma anche iniziative nuove: mi limiterò a ricordare il Festival di Pesaro nato civettuolo e nobiliare nel 1965 per diventare poi nel giro di pochi anni un radicato appuntamento “gauchiste” per cinefili di varia natura. Per non parlare di altre manifestazioni in qualche modo similari ma diverse, come il Festival di Taormina, già negli anni ’60 salutato da un concorso popolare impressionante (una volta fummo letteralmente travolti dalle migliaia di persone accorse dall’entroterra per vedere da vicino Amedeo Nazzari). Proprio a Taormina fui testimone del leggendario amor di cibo che in Mauro si saldava all’amor di alcol: mi ricordo, a mezzanotte passata, in uno dei più civettuoli ristoranti (di un luogo che era tutto civettuolo e poteva vantare un turismo secolare) un assalto a mano armata condotto da Mauro contro un grande piatto di pasta con le sarde, a testimonianza di un mai nascosto debole gastronomico. Tutto il mio passato di “viaggiatore cinematografico” è intessuto di piccoli e grandi ricordi di Mauro, sempre a portata di mano e sempre in qualche modo vicino e misterioso. Mi ricordo, ad esempio, al Lido di Venezia le apparizioni e le scomparse di Mauro, che credo condividesse con uno scelto gruppetto di colleghi ed amici (fra di essi “Vanni” Grazzini del “Corriere”e il genovesissimo “Pupi” Guglielmino, approdato da anni all’ancora autorevole “Gazzetta del Popolo” di Torino, amico giovanile di teatro, ahimè entrambi scomparsi da anni) il gusto di appuntamenti notturni per appassionate partite a poker, come giornalisti d’altri tempi. C’era in tutti una passione antica per il mestiere, che prevedeva appunto il visionamento dei film, le ore di lavoro alla macchina da scrivere per spedire in tempo il pezzo al giornale (era l’epoca in cui si dovevano consegnare i testi a “Radiostampa”, con i suoi dattilografi sfiniti, intenti furiosamente a battere nel cuore della notte). E poi l’incontro amichevole con le carte in mano, come in una novella di Hemingway.
Più evoco particolari minimi, più mi assale il ricordo di Mauro. Sempre pilotato dalla silenziosa gentilezza di Gabriella, cui era legato da un antichissimo rapporto, al punto che egli si vantava di averle insegnato, ancora adolescente, a nuotare. I rapporti di Mauro con il mare, le spiagge, il gergo dei marinai e, più largamente, con una mitologia dell’acqua che scavava indietro nel passato. Fu appunto Mauro a farmi rilevare che i pallanuotisti nuotavano in modo diverso dagli altri sportivi, in modo da tenere la palla “in mezzo” alle braccia, dovendo essi muoversi e al tempo stesso sospingerla, con una sorta di obbligata schiavitù che formava una delle tante fascinazioni di uno sport faticosissimo a cui Mauro era profondamente legato. Le sue rievocazioni del “caimano” Eraldo Pizzo acquistavano ogni volta un tempestoso carattere romanzesco, a testimonianza di una collocazione senza pari di quegli che fu forse il più celebre pallanuotista italiano.
Del resto tutta la pubblicistica sportiva aveva in Mauro un intenditore che raddoppiava l’attenzione filologica del linguista unendola a quella vigile dell’appassionato. Mi ricordo delle risate che abbiamo fatto leggendo brani interi di giornalismo specializzato che, in tutte le lingue, e particolarmente in quelle neolatine, si carica spesso di una rabbiosa goffaggine di lessico e di toni. C’era in noi un gusto dello scrivere, nostro e altrui, che in fondo era una delle motivazioni per cui praticavamo un lavoro che di parole viveva e, soprattutto, che di parole moriva. Fare il giornalista in un quotidiano implica un’attenzione continua e senza falle, con la triste consapevolezza di chi sa che una pagina, per quanto curata e impeccabile, nel giro di poche ore è un pezzo di carta arrotolato nei rigagnoli.
In Mauro c’era questa consapevolezza e mille altre consapevolezze. Ma tutte all’insegna di una devozione al lavoro che poteva essere in apparenza smentita da impennate e da ironie, ma che tuttavia risentiva di una passione antica. Quella che portò un grande giornalista dimenticato, Paolo Monelli, ad intitolare “Questo mestieraccio” un’antologia di brani e di ricordi del mestiere. In questo senso Mauro si inseriva degnamente nella celebrazione di un lavoro che affondava le radici in una tradizione secolare smagliante ma fragile. Non è un caso che la lezione di Mauro , pur con i suoi difetti caratteriali, resti esemplare nella storia del giornalismo italiano, e genovese in particolare, una storia dominata da alcuni personaggi come lui. Destinati a dar lezione ai colleghi ed a contrassegnare un intero periodo, ma anche ad essere rapidamente dimenticati, con una crudeltà che fa del prodotto giornalistico uno dei frutti più delicati di una grande passione collettiva.
Forse la fragilità di quel che si lascia in eredità è un simbolo della fragilità stessa della professione. A cui tutti, in certo modo, paghiamo un rude tributo. Sappiamo che, in linea di massima, poco rimane, soprattutto se scritto su quotidiani di provincia, ma al tempo stesso gioiosamente ci illudiamo di dar vita a parole definitive che serviranno per ammaestrare i posteri. Questi sono i limiti di tutti e quindi anche della prosa di Mauro. Sono sicuro che una paziente rilettura dei suoi scritti (forse questa stessa pubblicazione può articolarsi in questo modo) potrebbe dare origine a più di una piacevole sorpresa. Questo non stupirebbe chi gli è stato vicino nel lavorio frenetico e disordinato di tutti i giorni e di tutti i giornali.
E’ al tempo stesso un desiderio e un augurio dettato da un affetto profondo.
Claudio G. Fava