Blog - Crediti


L'audio e i video © del Blog sono realizzati, curati e perfezionati da Lorenzo Doretti, che ha anche progettato l'intera collocazione.
L'aggiornamento è stato curato puntualmente in passato da diverse collaboratrici ed attualmente, con la stessa puntualità e competenza, se ne occupano Laura M. Sparacello ed Elisa Sori.

10 marzo 2010

Geniale Kathryn, ovvero Ode all'EOD

Cari lettori,
sperando che la cosa possa interessarvi, vi faccio sapere che sono riuscito entro i primi di Dicembre ad inviare all'editore Scapolla de "Le Mani" - il quale in questi anni si è fatto un'ottima fama come proprietario della Casa Editrice sopra citata, impostasi come una delle migliori in Italia fra quelle specializzate nella storia del cinema - il testo definitivo di un libro sul Cinema di guerra. Come ho già avuto occasione di scrivere in questo Blog qualche tempo fa. Sono lieto di essere riuscito ad inserire nel libro la recensione di "The Hurt Locker" di Kathryn Bigelow, il film che ha vinto a mani basse 6 Oscar: miglior film, miglior regista, miglior sceneggiatura originale, miglior montaggio, miglior montaggio sonoro, miglior sonoro. E che sicuramente verrà riproposto nelle sale, visto che anche in America alla sua prima apparizione ha incassato poco. Ho letto che, al di là dell'immenso successo, "The Hurt Locker" ha destato riserve e commenti negativi proprio fra i militari addetti al terribile lavoro di sminamento alla base del film, che nell'esercito americano è praticato da uno speciale reparto del Signal Corps (Il Genio) denominato EOD (Explosive Ordnance Disposal), come del resto viene puntualmente ricordato nella recensione (ne sono orgoglioso perché credo di essere fra i pochi italiani che lo hanno citato per esteso). Non sono riuscito a comprendere sino in fondo il perché di questo rifiuto (in internet si trovano facilmente dei sottufficiali americani che deplorano il film). Ma in fondo a me interessa poco. E' un piccolo gioiello e credo che resterà, come dico nella recensione, tra i film di guerra che fanno testo. Ho deciso di pubblicarla qui di seguito, dando per scontato l'assenso di Scapolla perché mi auguro anche che l'iniziativa gli faccia piacere. Spero che questo serva a dare aiuto a "Le Mani".
Il cui indirizzo è comunque il seguente:
Le Mani, Microart's Edizioni
Via Fieschi, 1
16036 Recco
- Genova
TEL.: 0185/730.111
Il titolo esatto del libro è "Storia del cinema - GUERRA in cento film".
Date una mano all'ottimo Scapolla e compratelo!
The Hurt Locker
(id., 2008); r.: Kathryn Bigelow; sc.: K. Bigelow, Mark Boal; f.: Barry Ackroyd; m.: Marco Beltrami, Buck Sanders; scg.: David Bryan; int.: Jeremy Renner (serg. William James), Anthony Mackie (serg. JT Sanborn), Brian Geraghty (specialista Owen Eldridge), Guy Pearce (serg. Matt Thompson), Ralph Fiennes (caposquadra), Christopher Sayegh (Beckham), David Morse (col. Reed), Evangeline Lilly (Connie James); o.: Usa (First Light Production, Kingsgate Films); d.: 131’.
Il vizio di conservare in italiano il titolo originale, anche se ha un significato gergale o specifico, si ritrova in questo eccezionale e recentissimo film di guerra – soggetto e in parte produzione sono opera di Mark Boal, già sceneggiatore di “Nella valle di Elah” - che include decisamente il nome dell’autrice in un ristretto manipolo di registi di cui fanno parte i grandissimi, da Kubrick a Milestone.
“The Hurt Locker”, letteralmente “cassetta del dolore”, indica in realtà nel gergo militare americano uno stato di estremo pericolo. “We are all hurt locked” significherà dunque “Siamo tutti spacciati”. Il titolo introduce immaginosamente le caratteristiche e le tonalità del film, ambientato all’interno di uno dei reparti speciali del Signal Corps, ovvero il Corpo del Genio, chiamati EOD, cioè Explosive Ordnance Disposal (neutralizzazione degli ordigni esplosivi) in forze nelle unità di prima linea. Addestrati ad individuare ed a mettere fuori uso residui bellici d’ogni sorta e particolarmente i più pericolosi, i genieri degli EOD costituiscono una minoranza abituata al pericolo e soggetta a tutte le tensioni implicite in una specializzazione ove il rischio di morte è di ogni minuto. L’EOD descritto dal film opera in Iraq all’interno della compagnia “Bravo” e mancano una trentina di giorni prima di ricevere il cambio. Va subito detto che la prima mezz’ora del film è allo stesso livello della prima mezz’ora di “Salvate il soldato Ryan” o di certe celebrate sequenze di “Orizzonti di gloria” e di “All’Ovest niente di nuovo”. Una convivenza furente e terribile con il pericolo e la morte, impliciti nel concetto stesso di guerra, ma così difficili da recuperare veramente al cinema e nel cinema. Qui vediamo il protagonista (lo Staff Sergeant William James, impersonato con tenace continuità di recitazione da Jeremy Renner; al suo fianco un ottimo partner di colore, il Sergeant J.T. Sanborn, interpretato da Anthony Mackie) risolvere da par suo un difficilissimo problema tecnico, mettendo fuori uso un complesso sistema esplosivo. L’Iraq del film, ricostruito in Giordania, evoca uno sfatto disordine urbano - irto di case distrutte e di radi, enigmatici abitanti - in cui i genieri americani si muovono con la tensione e la scioltezza imposte da una presenza ossessiva. La guerra possiede totalmente William James, il quale ha una moglie e una figlia piccola, ma non riesce ad accettarle fino in fondo: alla fine del film tornerà in Iraq, assegnato ad una compagnia “Delta”, ancora agli inizi della sua esperienza bellica. Si badi, una delle caratteristiche di base del film è che i protagonisti sono volontari, come tutti i soldati americani di oggi, e sono dei professionisti. Non c’è pertanto, nel film, al di là della feroce brutalità dell’ambientazione e della descrizione, alcun intento critico nei confronti della guerra in Iraq in sé, accettata dai militari come un oggettivo dato di fatto.
Con questo film Kathryn Bigelow – classe 1951, al suo attivo diverse opere di valore tra cui “Point Break”, “Strange Days” e “K-19”, quest’ultimo ambientato su un sommergibile russo – fa quello che pochi uomini sono riusciti a fare, e cioè restituire la stravolta e minuta assurdità della guerra, dimostrando che il talento non è un problema di ormoni. In futuro non potremo più parlare e scrivere del conflitto in Iraq senza ricordarci di “The Hurt Locker”. Per onestà, debbo dire che in Internet ho trovato molti accenni a esplicite riserve di ex-combattenti o di giornalisti “embedded”, proprio a proposito della attendibilità di tutto ciò che il film evoca o mostra. “Non era così”, “Non è così che andavano le cose al fronte”, eccetera, con una sorprendente maggioranza di critiche e di smentite. Io le annoto per scrupolo, anche se vedendo il film da “civile”, lontano fisicamente e mentalmente, non ho avuto il minimo sospetto di mistificazione e “tradimento”.
P.S.: Sono contento di essere arrivato in tempo a vedere ed a includere il film della Bigelow nel libro. E’ desiderio dell’editore e mio di ricordare qui che “The Hurt Locker” si è aggiudicato ben 6 Premi Oscar nel 2010. Ed esattamente quelli per il miglior film, la miglior regista, la miglior sceneggiatura originale, il miglior montaggio, il miglior montaggio sonoro, il miglior sonoro. Converrà ricordare che la regista ha battuto l’ex marito James Cameron, il quale per “Avatar” ha vinto soltanto tre Premi come miglior scenografia, effetti visivi e fotografia. Evidentemente ci sono altri film recenti che avrebbero potuto ambire ad essere presenti nel libro. Comunque credo doveroso citarne almeno due: “Lebanon” di Samuel Maoz e “La terra di Elah” di Paul Haggis. Mark Boal ha scritto il soggetto di quest’ultimo film e di “The Hurt Locker”.
La Bigelow ha quasi sessant’anni, sembra un’attrice quarantenne, è la prima donna ad aver ricevuto l’Oscar per la regia ed ha battuto Cameron in tutti i sensi.
Claudio G. FAVA

4 marzo 2010

Ma quella Genova dov’è finita?


(Nella foto qui sopra: Piazza Ponticello. Una piazza ormai scomparsa, ma cantata da Mario Capello. Quello di "Ma se ghe penso")

Le notizie sui tagli delle Ferrovie ai collegamenti con Genova mi rattrista ma non mi stupisce. Durante il periodo in cui ho abitato a Roma (1970-1996), ho imparato a conoscere, in una versione già peggiorata rispetto al passato le Ferrovie italiane, con i loro ritardi ed il loro materiale deteriorato. Ma ho anche vissuto l’ultimo periodo della “Coock Wagon-Lits”, con l’impagabile personale di cucina e di servizio che accudiva ai vagoni ristoranti (divennero tutti amici ed erano ancora perfetti esemplari di quelle complesse strutture umane di una volta, che davano vita ai “camerieri all’italiana”). Ed agli ultimi vagoni letto che collegavano Genova a Roma; ce n’era ad esempio uno, da Principe, sul quale si saliva verso le undici di sera e che partiva all’una. Negli scotimenti del primo sonno si avvertiva l’avvio ottocentesco del vagone, quell’impagabile rumore di viaggio che era l’istanza sonora delle ferrovie, e ci si risvegliava verso le sette del mattino nel primo frastuono di Termini. Come si vede, un’antica dimestichezza che mi rende vicino a tutti i problemi ferroviari della città. I quali sono soltanto un frammento del complesso meccanismo di decadimento che avvolge la Genova di oggi come una nube tossica. Mi si affacciava questo tema alla mente qualche giorno fa, mentre sfogliavo un libro che appartiene a mia moglie e che è uno di quei lussuosi involucri di fotografie tipici delle banche, quando danno vita ad opere celebrative. In questo caso, in particolare, si tratta di: “Genova come era – 1870-1915”, pubblicato nel 1987 dalla Carige e scritto, cosa inaspettata, da Luciana Frassati. Dico inaspettata perché Luciana Frassati è stata una nobildonna piemontese (nata nel 1902 a Pollone, in provincia di Biella), figlia di quell’Alfredo Frassati che aveva fondato e diretto la Stampa, inizialmente come “Gazzetta Piemontese”, per molti anni, prima di essere costretto a venderla (nel 1926 la comprarono gli Agnelli, tuttora proprietari). Vecchio e fedele giolittiano fu nominato ambasciatore a Berlino e qui sua figlia Luciana, che si era brillantemente laureata in Legge, venne a contatto con un mondo di diplomatici, fra cui trovò anche il marito, l’ambasciatore polacco Jan Gawronsky (Luciana ne ebbe sei figli, fra cui Jas che sarebbe diventato giornalista, deputato e corrispondente della RAI). Perché una importante signora piemontese (sorella di quel Pier Giorgio Frassati, morto a 24 anni e proclamato beato da Giovanni Paolo II) si occupi così tanto di Genova non è chiarito e vi allude solo una brevissima dedica: “In ricordo di Rosetta Doria”, con la scritta “Dalla città del faro accendi il buio della lontananza”. Sfogliare oggi questa straordinaria collezione di fotografie d’epoca (come è specificato nel titolo si va dal 1870 al 1915) fa impressione e per un genovese è addirittura terrorizzante. Ne vien fuori una città di straordinaria vitalità e di raffinata eleganza; una città ingannevolmente ricca (le splendide fotografie raccolte nel libro riguardano un ambiente in larga parte aristocratico o alto-borghese), ma soprattutto in preda ad un esplosivo moto ascensionale. Genova era allora veramente una delle città più importanti del regno, che dettava legge non solo per ciò che riguardava il mondo armatoriale, ma anche quello dei teatri (a Genova ce ne furono sempre molti) e più largamente del giornalismo e della letteratura. Fra i nomi delle persone ritratte vi sono tutti quelli che dettero vita al mito otto-novecentesco di Genova: dai Perrone ai Raggio, con il corredo di nomi altolocati che ne costituirono l’ornamento e la chiave del successo. Gli Ansaldo, i Bombrini, i Boggiano Pico, i Brignole-Sale, i Carrega Balbi di Lucedio, i Cattaneo Adorno, i Centurione Scotto, i D’Invrea, i Durazzo, i Gavotti, i Negrotto-Cambiaso, e via via sino alla “zeta” l’ostensione dei nomi nobiliari della città, a fianco dell’elenco di borghesi ricchi, o che lo sarebbero diventati. Tutti insieme gettavano le basi di una città che era veramente uno dei lati del grande triangolo industriale che stava sconvolgendo l’Italia sabauda e piccina del Risorgimento.
Un mondo potente, che affondava le sue radici in una Genova in fondo assai simile a quella medioevale, anche nei suoi rapporti col mondo. Non ne rimane nulla. Nel giro di meno di un secolo l’abbiamo ridotta ad una cittadina portuale, abituata a vivere dell’aiuto e dell’elemosina di uno stato lontano. Ma com’è successo? Non lo sapremo mai.

Claudio G. FAVA

Luciana Frassati, testimone sconosciuta


(Nella foto qui sopra: Luciana Frassati insieme all'amato fratello Pier Giorgio)


Ho scritto per il “Secolo” un articolo su “Genova com’era – 1870-1915”, splendida antologia di fotografie d’epoca ordinate da Luciana Frassati, stampata originariamente in francese a Losanna nel 1960 con una bella prefazione di Eugenio Montale. L’edizione che posseggo io, a cura della Carige, è stata pubblicata a Genova nel 1987, ed è dedicata ad una Rosetta Doria, non altrimenti identificata, ma evidentemente facente parte della famosa famiglia marchionale. La dedica è firmata per esteso dall’autrice Luciana Frassati Gavronska, perché questa combattiva e intelligente piemontese (nata a Pollone, in provincia di Biella, il 15 Agosto 1902 e ivi morta ultracentenaria il 7 Ottobre 2007) ebbe una lunga carriera giornalistica e paragiornalistica, a proposito della quale la lettura del libro su Genova mi ha istigato ad indagare. Confesso di non aver saputo nulla della Frassati, ma di essere stato estremamente incuriosito, leggendo il suo libro, da una personalità poco comune, di cui pure non avevo mai sentito parlare. Era la terzogenita di Alfredo Frassati e della pittrice Adelaide Ametis. Frassati (nato anch’egli a Pollone il 28 Settembre del 1868 e morto a Torino il 21 Maggio 1961) fu uno di quei protagonisti del giornalismo italiano di cui ad ogni generazione ci si dimentica puntualmente. Figlio di un chirurgo, laureatosi in Giurisprudenza a Torino nel 1890, nel 1894 divenne comproprietario e condirettore de “La Gazzetta Piemontese” che decise di rilanciare, cambiandole il nome in “La Stampa” (il doppio nome venne tuttavia mantenuto per più di vent’anni, fino al 1908). Divenuto nel giro di breve tempo uno dei più famosi quotidiani italiani, “La Stampa” fu nelle mani di Frassati – ne divenne direttore e nel 1902 unico proprietario – uno degli strumenti che aiutarono Giolitti (Frassati venne nominato senatore nel 1913) a mantenere un potere reale sulla vita politica italiana, tant’è vero che alla fine della Grande Guerra, nel 1918, Frassati rifiutò la proposta di far parte di un Governo Giolitti, ma accettò anni dopo di diventare ambasciatore a Berlino. L’uomo politico aveva l’abitudine di rimeritare i suoi fidi promuovendoli ambasciatori, cosa che non usava nella diplomazia italiana dell’epoca. Fece lo stesso con un noto politico ligure, il patrizio Vittorio Rolandi Ricci, che aveva nominato a Washington e che durante il fascismo si era ritirato alla vita politica proprio per fedeltà giolittiana. A maggior ragione, nell’autunno del 1943 fece scalpore la sua adesione alla Repubblica Sociale Italiana, sostenendo egli che noi avevamo stipulato con i tedeschi un trattato di alleanza e che non potevamo pugnalarli alle spalle, passando nel campo opposto (tre dei suoi figli, il più giovane dei quali ha lavorato con me alla RAI, si arruolarono nella Decima Mas “repubblichina”).
All’ombra del padre Alfredo Frassati, Luciana si gettò tranquillamente nel mondo giornalistico ed insieme in quello politico. Laureatasi in legge all’Università di Torino come il padre, conobbe a Berlino e sposò un diplomatico polacco, Jan Gavronski, accreditato prima in Italia e presso il Vaticano, e poi nominato ambasciatore a Vienna dal 1933 al 1938. La sua posizione diede a Luciana Frassati la possibilità di conoscere ad alto livello la società austro-tedesca. Con due passaporti ed una cultura non frequente nelle donne della sua epoca, attraversò l’Europa dell’anteguerra con un’ampiezza di relazioni assolutamente insolita. Fu scrittrice e poetessa, ma anche testimone di un’epoca: il suo “Il destino passa per Varsavia” venne considerato da Renzo De Felice una testimonianza importante per comprendere come si svolse la crisi prebellica. In effetti, ebbe la possibilità di frequentare persone importanti e assai diverse tra di loro: si dice che sia stata buona amica di Alma Mahler, moglie del compositore, di Chaplin, di Wilhelm Furtwängler, di Max Reinhardt, di Arturo Toscanini, di Oskar Kokoschka. Tutto un mondo politico del tempo ebbe per lei un occhio di riguardo. Frequentò Von Papen, Ciano, Grandi, Giolitti protettore di suo padre, ma anche lo stesso Mussolini (che in genere non faceva granché caso alle donne come interlocutrici politiche e intellettuali) e il cancelliere Engelbert Dolfuss, detto “Millimetternich”, il quale impedì finché gli fu possibile l’annessione dell’Austria ad opera della Germania, e che poi fu ucciso dai nazisti. Al tempo stesso, riuscì molto attiva nella parte di moglie. Ebbe addirittura sette figli, di cui uno, Pier Giorgio, si chiamava come l’amatissimo fratello di Luciana, morto a 24 anni in odore di santità, che anch’egli scomparve ancora bambino. Ma gli altri figli, Jas, Nella, Wanda, Alfredo, Giovanna, Maria Grazia, le diedero quattordici nipoti. In particolare va ricordato Jas, giornalista e politico che gli italiani hanno conosciuto durante la sua lunga parabola RAI. La guerra venne affrontata da Luciana Frassati con sorridente aggressività. Alla caduta dell’Austria lei e suo marito lasciarono Vienna e tornarono a Varsavia, sino a quando la Polonia fu invasa dai tedeschi. La qualità delle sue relazioni, il rango diplomatico, perfino la buona conoscenza con Benito Mussolini, le consentirono una attività che pochi avrebbero potuto svolgere con la stessa intensità. Viaggiando tra Varsavia, Cracovia, Berlino e Roma, riuscì a portare in salvo opere d’arte e documenti ed a procurarsi centinaia di lasciapassare che permisero di far espatriare decine di famiglie polacche. Spacciò come sua bambinaia e la portò in salvo, la moglie del generale Sikorski, divenuto poi il capo del Governo Polacco in esilio e morto durante la guerra in circostanze misteriose nei pressi di Gibilterra. Sembra anche che riuscì a convincere Mussolini a darsi da fare per ottenere la liberazione di un centinaio di professori dell’Università di Cracovia. Come si vede, affrontò durante quegli anni terribili una serie di straordinarie prove in cui testimoniò di un coraggio e di una avvedutezza propri solo dei grandi eroi della Resistenza. Fino ai giorni nostri, Luciana Frassati, che si occupò profondamente del fratello Pier Giorgio e della sua memoria, continuò ad interessarsi del mondo coltivando la poesia e la memorialistica. Dal 1947 al 1987 pubblicò una ventina di libri diversi, che comprendevano poesie, testimonianze religiose, rievocazioni del passato (a fianco di “Genova com’era”, che ho già citato, ci furono anche nel ’58 “Torino com’era”, con prefazione di Mario Soldati) e, più largamente, testimonianze d’ogni sorta. Si pensi a “Un uomo un giornale” in sei volumi con introduzione di Gabriele De Rosa, pubblicato a Roma dal 1978 al 1982, grande omaggio alla figura del padre. Questi, dopo essere stato costretto a cedere “La Stampa”, disegnò per sé una nuova carriera e dopo il 1930 divenne presidente della società Italgas. Nel dopoguerra fu membro della Consulta Nazionale e fu nominato senatore di diritto della Repubblica nella prima legislatura (1948-1953). In quanto a Luciana, sembra che non abbia mai rinunciato a prendere note ed appunti per un libro purtroppo incompiuto, “Il mio secolo”, in cui voleva rendere giustizia ad alcuni personaggi. In primis Umberto di Savoia: “Era un grand’uomo” – diceva Luciana – “La storia e tutti lo hanno sottostimato. Avversò Mussolini e simpatizzò per la Resistenza”. Non sappiamo che cosa pensasse dei suoi discendenti ma non è difficile immaginarlo.
I legami con la Polonia durarono sino all’ultimo. Nel 1990 un polacco famoso, Giovanni Paolo II, ha riconosciuto le elette virtù morali di Pier Giorgio Frassati e lo ha proclamato beato. Nel 1993 Lech Wauensa, allora Presidente della Repubblica, insignì Luciana Frassati di una delle più importanti decorazioni del suo paese. Gli italiani non se ne accorsero e io stesso ci ho messo decenni a capirlo.


Claudio G. FAVA