Blog - Crediti


L'audio e i video © del Blog sono realizzati, curati e perfezionati da Lorenzo Doretti, che ha anche progettato l'intera collocazione.
L'aggiornamento è stato curato puntualmente in passato da diverse collaboratrici ed attualmente, con la stessa puntualità e competenza, se ne occupano Laura M. Sparacello ed Elisa Sori.

31 dicembre 2012

L'OSSERVATORE GENOVESE


VISTO CON IL MONOCOLO

Come da abitudine ricopio qui il testo apparso domenica 30 dicembre nella mia settimanale rubrica domenicale sul Corriere Mercantile. Posso preannunciare che anche la prossima puntata (e perchè non la terza?) verterà sul tema: allenatori di calcio. Come noto essi sono fra i protagonisti visuali e morali della tensione dialettica propria del nostro tempo. Ancora mezzo secolo fa contavano relativamente poco e semmai la notorietà riguardava in buona parte quelli che fra di loro avevano incarichi "nazionali" (si pensi alla fama patriottica e quasi risorgimentale di Vittorio Pozzo od a quella, fra il letterario e il dialettale, che Gianni Brera aveva cucito addosso a Nereo Rocco). Adesso essi sono in televisione fra i massimi interpreti e commentatori del nostro tempo, vale a dire quelli a cui ci si rivolge per avere lumi sul presente e sul futuro, al pari dei "gazzettieri" metereologici e dei giornalisti della Rai di Milano incaricati di fornirci l'ammontare dello "spread".
Mi auguro che il tema interessi  qualche lettore.


GLI ALLENATORI SONO STAR DA PALCOSCENICO

In passato mi sono occupato spesso di un quartetto straordinario che ha animato la commedia (e la tragedia) all’italiana: Gasman, Manfredi, Sordi e Tognazzi (sugli ultimi due ci sono anche libri a mia firma). Non mi sembra che abbiano lasciato sostituti all’altezza, in un cinema italiano dominato da vecchi caratteristi di genio e da giovani, vaghi protagonisti. Non nel cinema, dunque, ma nel calcio. Non fra i calciatori ma fra gli allenatori. I quali sono una vecchia istituzione del football ma una recente entità del divismo. Negli ultimi vent’anni sono diventati protagonisti a pieno titolo: si parla di loro come dei grandi direttori d’orchestra, imprestandogli la capacità di modellare a piacimento, in un caso la resa di una partitura e nell’altro quella di una partita (quasi che nel calcio tutto non dipendesse invece dai giocatori: datemi Messi, Iniesta e Cristiano Ronaldo e divento un grande allenatore anch’io). Naturalmente non tutti sono allo stesso livello. Considerata la qualità media delle loro interpretazioni i tre migliori caratteristi sono sicuramente Mazzarri, Conte e Zeman.  Il primo sembra il mattatore di una compagnia teatrale della sua città: si agita, suda, si toglie e si rimette confusamente la giacca, si preme la mano sul cuore come se attendesse un infarto: la mimica e l’accento sono esageratamente livornesi. Conte è in certo senso un suo equivalente ma carico di una tragicità tutta meridionale: sotto la folta capigliatura fortunosamente recuperata il suo volto si contrae quasi a sintetizzare tutte le tristezze di una lontana emigrazione. Per parlare con i giocatori inveisce, grida, si strozza, con una rabbia spropositata rispetto al tema ed al destinatario. Infine, grande caratterista, Zeman incarna in un modo quasi doloroso una cupezza boema che sembra esagerata per i limitati confini intellettuali del gioco del calcio. Invecchiando è diventato ancora più doloroso, più silenzioso e più immobile. Quando parla (di rado) in un italiano sintatticamente impeccabile ricorda fatalmente un “robot”, che non a caso è un invenzione letteraria (si veda R.U.R) di uno scrittore suo connazionale: Karel Čapek.
Degli altri allenatori parlerò la prossima volta.

Claudio G. Fava

28 dicembre 2012

E’USCITO IL “MORANDINI 2013”, DIZIONARIO DEI FILM


Si tratta di un ausilio quasi indispensabile per il professionista, l'appassionato e per lo spettatore che voglia semplicemente controllare un dato o un titolo rapportati alla programmazione televisiva.

Una volta all'anno mi capita un avvenimento fortunato. Cioè l’apparizione di una nuova edizione del Dizionario Cinematografico di Morando Morandini. Il suo titolo, per l’esattezza, è “Il Morandini”, diventato ormai una equivalente definizione di un dizionario cinematografico. Infatti è uscito proprio adesso- mi è stato fatto pervenire con la consueta efficienza dalla dottoressa Lisci dell’Ufficio stampa della Zanichelli il “Morandini 2013”- come sempre a cura di Laura, Luisa e Morando (Laura è la moglie di Morando e la mamma di Luisa: il dizionario nasce dallo schedario che essa aveva accumulato ai suoi tempi e dopo la sua scomparsa il marito e la figlia la ricordano così, oltre che con un annuale festival cinematografico, appunto il “Laura Film Festival”, che si svolge in estate nel paese di nascita di lei, Levanto). 
Io appartengo ad una generazione di cinefili professionisti che per anni si sono alimentati con i dizionari del cinema di autori tutti stranieri dopo il film Lexicon di Pasinetti: Sadoul, Halliwell, Maltin, Lourcelles, Tulard, eccetera. Ma ormai dal molto tempo il loro posto è stato preso da due italiani: Paolo Mereghetti, ogni due anni, e appunto Morando Morandini ogni anno. Entrambi sono vecchi amici, per cui consultando i loro testi rendo anche concreto ogni volta un rapporto d’affetto. Che coesiste, diciamo la verità, con un riflesso egoistico, vista la qualità delle opere. Guardiamo ai dati: il Morandini di questo anno comprende 25.000 film usciti sul mercato italiano dal 1902 all’estate del 2012. Più esattamente i 25.000 film sono quelli citati nell’ edizioni on-line e in DVD (il DVD è allegato ad ogni volume) mentre l’edizione su carta fornisce la trama di circa 20.000 titoli. Il motivo sostanziale di interesse è rappresentato dal fatto che per ogni film  vengono forniti alcuni dati essenziali, un conciso riassunto della trama, un giudizio di merito non di rado molto elegante, oltre che, attraverso stellette e palline, un riassunto del successo di critica e di pubblico. E naturalmente i dati favorevoli non si esauriscono in queste cifre. Complessivamente si tratta di 2048 pagine, il testo contiene, come sempre, schede monografiche su cicli e serie, elenchi di cortometraggi  segnalati in vari festival, elenchi di serie tv di particolare interesse ed, oltre i soliti elenchi per titoli, attori e registi, ve ne è anche uno, come è tradizione del Morandini, di autori letterari e teatrali dalle cui opere sono tratti dei film (è una utilissima curiosità dell’opera). Come risulta evidente da questi dati si tratta di un lavoro collettivo di grande impegno e di grande risonanza. Naturalmente non è detto che si debba essere d’accordo con tutti i giudizi contenuti nel Dizionario (il quale, come tutte le opere consimili, è frutto dell’apporto di occhi e mani diverse, e quindi di opinioni variamente articolate). Ma, ripeto, si tratta nel complesso di un libro di prezioso e raffinato impegno che, di fatto, ha reso inutile il ricorso a fonti straniere, un tempo quasi inevitabili per lo specialista e l’appassionato.
Vorrei precisare che il prezzo complessivo del libro più Dvd-Rom è di euro 37,60. E’ difficile pensare che acquistarlo non rappresenti un buon investimento.

21 dicembre 2012

SIMENON AL CINEMA


Mi pare giusto avvisare i lettori del Blog che è appena uscito la prima pubblicazione di una collana allestita e distribuita dalla Cineteca di Bologna.
Si intitola appunto “Simenon al cinema”, come è indicato nel titolo, e consta di una duplice “fornitura”. E cioè  del Dvd di un film tratto da un romanzo di Simenon (si tratta di “La verità su Bébé Donge”; il libro è apparso nel 1942, il film, diretto da Henri Decoin e interpretato da Jean Gabin e da Danielle Darrieux, nel 1951) e, all’interno di un unico cofanetto, un ricco libriccino di 55 pagine. Esso contiene un’ampia filmografia e tre scritti: due analisi del film, firmate da Peter von Bagh e Roberto Chiesi, ed una mia illustrazione dei lunghi e complessi rapporti intercorsi fra il cinema e lo scrittore di Liegi durante quasi ottant’anni. Il film (la Cineteca ha utilizzato un titolo italiano che è la traduzione letterale di quello francese, invece del titolo “La follia di Roberta Donge”, con cui l’opera era stata distribuita in Italia) è fornito in duplice versione. Quella doppiata in italiano e quella originale sottotitolata, che è più lunga di otto minuti rispetto alla prima (nella copia italiana i brani mancanti sono stati recuperati dall’originale e inseriti, ovviamente con i sottotitoli). 
L’iniziativa si inserisce in una attività editoriale in senso libresco che da anni la benemerita Cineteca di Bologna affianca a quello che è il suo compito istituzionale. E cioè il salvataggio, la conservazione, il recupero dei film di ieri e di oggi, fatti conoscere ad un ampio pubblico di affezionati, sia attraverso i due locali che la Cineteca tiene aperti a Bologna, sia grazie a numerose iniziative fra cui fa spicco quella detta del “Cinema ritrovato”, sia per mezzo delle proiezioni in stile in Piazza Grande di fronte a un pubblico di migliaia di persone.
Bisognerebbe citare molte delle persone che lavorano alla Cineteca. Mi accontenterò qui di ricordare il nome dell’infaticabile direttore Gian Luca Farinelli e quello della benemerita responsabile delle iniziative editoriali Paola Cristalli. 
Il cofanetto dovrebbe essere il primo di una lunga serie dedicata appunto ad illustrare, in copie quanto più complete possibili, alcuni dei migliori film tratti da romanzi di Simenon. 
A pochi giorni dall’uscita l’iniziativa è già stata salutata da un “Flash back” di Irene Bignardi nella Repubblica e da una recensione di Goffredo Fofi nel “Sole 24Ore” domenicale.
Il cofanetto (Dvd più libriccino) è posto in vendita nelle principali librerie al prezzo di euro 14,90.

20 dicembre 2012

A DOMANDA RISPONDE


IL MIO VOLENTEROSO CONTRIBUTO ALLA TORRE DI BABELE

Ho visto che la pubblicazione del testo della mia rubrica sul Corriere Mercantile, dedicato al Festival “Liet International” (e quindi all’esistenza stessa di testi musicali cantati in lingue minoritarie, spesso periferiche) ha destato un vivo interesse in almeno cinque lettori e me ne compiaccio. Rispondo nell’ordine:

1) A Rosellina Mariani. La ringrazio per l’attenzione con cui mi segue sempre. Le faccio osservare che il problema dei rapporti dei dialetti e delle lingue, all’interno delle quali essi sono generati e con le quali irregolarmente si intersecano, è fondamentale nei paesi a variegata connotazione dialettale come l’Italia (in Francia è capitato con una generazione di anticipo). Ed al tempo stesso è eluso nel fondo e nelle apparenze. Ormai milioni di italiani sono stati allevati da genitori, spesso tra loro dialettofoni, nell’uso rispettoso e a volte impacciato della “Lingua” (“non parlate in dialetto ai bambini, se no poi a scuola si confondono”, teoria complessivamente fallace). I bambini una volta divenuti adulti, non soltanto non sanno parlare il dialetto d’origine ma assolutamente non vogliono farlo e molto spesso, consciamente o inconsciamente, si rifiutano persino di capirlo e di ammetterne l’esistenza. E’ un passaggio traumatico, probabilmente inevitabile all’interno di tutte le lingue nazionali e particolarmente accentuato fra quelle neo-latine. Indubbiamente ha portato ad una indubbia generalizzazione della lingua nazionale parlata ma anche ad un sostanziale impoverimento del vocabolario. Infatti (non ci si pensa mai ma credo che sia proprio così) milioni di persone abbandonando il dialetto hanno abbandonato terminologie antiche ed articolate, senza preoccuparsi di “tradurle” in italiano (operazione peraltro difficilissima per mille motivi di lessico). Sicchè, un immenso numero di figli di artigiani, di “colletti blu”, compresi in quella laboriosa classe intermedia collocata fra il proletariato e la piccola borghesia (che forniva gran parte degli “specialisti ad uso familiare”), si sono trovati ad eseguire il mestiere dei padri senza possederne più la terminologia. E’ un fenomeno che mi pare particolarmente avvertibile nell’Italia settentrionale, dove la “diversità” dell’eredità gallo-italica ha conseguenze più profonde e decisive che altrove (con diverse sfumature. Infatti, come è noto, vi sono molte zone del Sud e, nel Nord, il Veneto, ove invece il dialetto, soprattutto a livello proletario e provinciale, continua a conservare una sua assoluta, e spesso determinante, forza colloquiale).

2) Il rilievo di PuroNanoVergine è apparentemente giustificato, ma forse è motivato dal fatto che non mi sono spiegato bene. Volevo dire che l’effetto finale della minuta conservazione delle lingue e dei dialetti (i quali spesso in Italia mutano notevolmente anche a soli 5 chilometri di distanza) finisce con l’affiancare infinite variazioni di lessico e di accento. Con il risultato che è difficile capire e farsi capire. In ogni caso mi pare molto bello riportare qui il testo della Genesi (11, 1-9) che ne ha fatto una realtà universale (Babele, come è noto è sinonimo di Babilonia). Ecco il brano:

« Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall'oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l'un l'altro: "Venite, facciamoci mattoni e cociamoli al fuoco". Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: "Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra". Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: "Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l'inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro possibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro". Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra. »

3) Vengo adesso a Rita M. La ringrazio per le sue sagge osservazioni e convengo anche io sul fatto che, dal punto di vista linguistico, un’Italia apparentemente meno colta e più tormentata dalla bipartizione fra lingua e dialetto, era nel parlare e nello scrivere più articolata e sicuramente più rispettosa delle regole della sintassi e delle sollecitazioni della retorica.

4) Ringrazio Giorgio per i suoi complimenti. Ho l’intenzione (l’ho fatto anche adesso) di riportare nel Blog i testi della mia piccola rubrica settimanale sul Corriere Mercantile. Mi fa piacere essere letto a Roma dove ho vissuto 25 anni ed ho lavorato tanto ed a fondo (io facevo parte di quella “frammento” della Rai che non smetteva mai di lavorare).

5) Grazie a Gianni Dello Iacovo per quel che mi scrive a proposito degli “schizzi di un pittore”. Sono decenni che covo in me il desiderio di una grande opera scritta che tramandi giustamente il mio nome. Invece ho scritto migliaia di articoli e ho pubblicato diversi libri (alcuni dei quali anche di discreto successo) ma senza mai giungere a “quel” risultato che potrebbe giustificare un’intera esistenza. Ho  veramente gradito l' evocazione di quel raffinato poeta veneto-italiano che fu Andrea Zanzotto.

Molti saluti e molti auguri a tutti.

SALVATE LA TIGRE

DUE NUOVI SALVATAGGI DELLA TIGRE

Ricopio qui le due ultime puntate di "Salvate la Tigre" rispettivamente pubblicate su Film Tv nel n. 42, (in corso dal 21 al 28 Ottobre), e nel n.47, (in corso dal 25 Novembre al 1 Dicembre 2012). Via via che i ricordi vengono evocati forzatamente essi si riducono. Sicchè, fra qualche tempo, sarò costretto a chiudere la rubrica per forzato esaurimento della memoria, salvo che, man mano, non mi vengano in mente nuovi episodi di "salvataggi"...

10) ANGOSCIA
Nel 2003 al Festival Voci nell’Ombra ebbi il piacere di premiare Gabriella Genta, miglior voce caratterista per il doppiaggio di Joan Plowright in “Callas Forever”. E mi ricordai di un debito di riconoscenza. Nel 1980 preparavo a Rai Uno un ciclo, su Ingrid Bergman, per cui mi serviva assolutamente il film con Charles Boyer, “Angoscia” (Gaslight, 1944) di George Cukor, veicolo per mattatori. Lo feci acquistare, il materiale entrò e io “lo misi in Radiocorriere” (allora era impensabile cambiare un titolo annunciato ufficialmente). Una decina di giorni prima di andare in onda il venditore mi comunicò brutalmente che si era sbagliato e non trovava più il doppiaggio italiano. Altre volte accettai il ricatto, questa volta mi rifiutai e chiesi aiuto all’ottimo Servizio Edizioni dell’azienda. Avevamo pochissimi giorni a disposizione e venne trovata una Ditta che accettò di ridoppiare il film e Gabriella Genta di dirigere il doppiaggio a patto di essere lei stessa ad effettuare il cosiddetto “adattamento” (la delicatissima operazione di traduzione del testo originale adattato riga per riga alle esigenze della pronuncia italiana). Si stabilì una sorta di catena di montaggio: entro le otto del mattino arrivava a casa mia (Roma, via dei Gracchi) un fattorino con una parte del testo italiano e di quello originale. Io li leggevo in fretta  e furia, li confrontavo, li firmavo e li restituivo. Il manoscritto andava a Gabriella Genta che iniziava immediatamente il doppiaggio. Entro domenica, terminati doppiaggio e missaggio, la copia fu consegnata ai magazzini Rai e lunedì sera andammo in onda regolarmente. Nessuno si accorse di niente. Si badi: la Bergman era stata la Simoneschi e Charles Boyer Emilio Cigoli! Qui furono Ludovica Modugno e Antonio Colonello. A tutti la mia riconoscenza.

11) JEAN-PIERRE MELVILLE: UN’ ANTICA FEDELTA’
Nel mese di agosto evocai in questa rubrica un mio ciclo del 1980 su Rai Uno (l’anno dopo passai a Rai Due), dal titolo “Una pistola e un bacio – L’America spavalda di James Cagney”, in occasione del quale potei recuperare due film inediti in Italia: “The Lady Killer” (1933) e, soprattutto, “I ruggenti anni’20” di Raoul Walsh (1939). A partire dalla presente puntata cercherò di affrontare, nei limiti di quel che mi è rimasto in mente, appunto il ricordo dei cicli dedicati a registi, attori e temi, grazie ai quali, per quasi un quarto di secolo, potei anche recuperare molti film fino a quel momento ignorati dal mercato italiano. Fra tanti, forse il ciclo a cui tengo di più riguarda un regista francese che ho sempre amato molto ed a cui nel 1979 riuscii a dedicare una personale, ovviamente intitolata “Jean – Pierre Melville: un americano a Parigi”, data la sua programmatica simpatia per il cinema hollywoodiano. In quell’occasione, pur costretto dal mercato a rinunciare al suo film di maggiore successo, “I senza nome” del 1970, riuscii in una operazione di cui a più di 30 anni di distanza sono ancora orgoglioso. Importai e feci doppiare (ho già detto di non aver mai avuto la possibilità di usare sottotitoli) il primo, il secondo e il quarto film da lui diretto. E cioè “Il silenzio del mare” (1948), “I ragazzi terribili” (1950) e “Bob il giocatore” (1956). Contribuendo, mi auguro in modo decisivo, a facilitare la comprensione del cammino difficile e solitario di un autore che diresse in tutto 13 film (ma uno, “Labbra proibite”, di fatto lo rinnegò) e che fino a quel momento era quasi sconosciuto al grande pubblico italiano. In particolare “Il silenzio del mare” e “Bob il giocatore” sono due piccoli gioielli su due diversi versanti del cammino di Melville: la Resistenza e il “nero”.

L'OSSERVATORE GENOVESE

VISTO CON IL MONOCOLO

Come al solito riporto qui il testo della mia rubrica sul Corriere Mercantile, ed esattamente della puntata apparsa domenica 16 dicembre. Mi auguro che il tema inusuale, e forse (involontariamente) paradossale, possa incuriosire i lettori di sempre, che hanno preso ormai l'abitudine di ritrovare qui il mio ebdomadario breve brano giornalistico.

REBUS "SIKH" STANTIBUS...


La corrispondenza da Londra di Fabio Cavalera nel Corriere della Sera del 13 Dicembre è stata giudicata così importante da motivare un richiamo fotografico in prima pagina. Quale la notizia? Che un venticinquenne inglese di religione sikh, soldato nelle Scots Guards, sfila in divisa davanti a Buckingham Palace, ostentando, invece del famoso colbacco di pelo, un turbante annodato secondo le sue regole religiose (che proibiscono di tagliarsi i capelli e la barba). Il Corriere ne ricava un interessante articolo sulla mutazione razziale in corso in Gran Bretagna, dove gli “inglesi bianchi” sarebbero ormai in minoranza, ma mi sembra trascuri un elemento minore ma significativo. E cioè che l’”alieno”in divisa sia un sikh. Vale a dire il riflesso di un fenomeno indiano molto curioso, cioè l’esistenza di una religione (appunto lo “sikkismo”, nato nel Punjab nel XV°secolo) che ha finito col dar vita ad una sorta di involontario fenomeno etnico. I Sikh (una trentina di milioni nel mondo, molti anche in Italia) sono diventati una sorta di “stirpe” a parte, con una forte caratteristica militare e militaristica: nell'India “inglese” i reggimenti sikh erano fondamentali, almeno quanto i famosi gurkha arruolati nel Nepal. Se mai c’è da stupirsi che ce ne siano così pochi nell'esercito inglese, a ribadire una sorta di secolare fedeltà alla divisa della Regina…Che poi uno di essi abbia avuto l’autorizzazione a conservare il turbante invece del colbacco, non fa che riallacciarsi alle tradizioni secolari dell’esercito indiano. Le “Guardie scozzesi” sono uno dei cinque reggimenti (in realtà battaglioni) che compongono, insieme ai granatieri, al Coldstream ed alle Guardie inglesi e gallesi, le famose “Foot Guards” predilette a Londra dai turisti quando sfilano davanti ai palazzi reali. Ma poiché sono nate nel 1642 e il colbacco lo portano solo dal 1815 (cioè da quando, dopo Waterloo, come gli altri reggimenti, indossano i copricapi tipici della Vecchia Guardia di Napoleone, che gli inglesi avevano sconfitto) un eccezione per il fedele turbante dei sikh è più che giustificata. Giusto per ribadire il tenue sapore kiplinghiano che sopravvive, a volte, perfino nella Gran Bretagna di oggi…

18 dicembre 2012

IMPERVERSO SU "CLASS TV"

Come forse i lettori ricorderanno tempo fa ho registrato una serie di 10 presentazioni di film per la rete "Class TV" (canale 27 del digitale terrestre). Apprendo adesso che la rete ha messo in cantiere una replica , sempre al venerdì sera poco dopo le ore 21:00, del ciclo già trasmesso. La sera del 14/12/12 è andata in onda "Quando torna l'inverno" di Henri Verneuil. Gli altri titoli per ora previsti sono i seguenti, in ordine di data:


21/12/2012
Tempesta su Washington

28/12/2012
Friday Night Lights

11/01/2013
Revolution

18/01/2013
Le ceneri di Angela

25/01/2013
Frontiera

01/02/2013
The Cotton Club

Per quello che riguarda gli ultima 4 film, fornirò i dati in futuro non appena ne sarò in possesso. Chiedo scusa di questo subitaneo attacco di impudicizia auto promozionale.


13 dicembre 2012

L'OSSERVATORE GENOVESE

VISTO CON IL MONOCOLO


Come ormai è diventato un'abitudine pubblico qui, come sempre nella speranza di interessare qualche lettore, la più recente puntata, e cioè quella di domenica 9 dicembre, dalla mia rubrichetta sul "Corriere Mercantile".  Auguro a tutti buna lettura e, ancor più, richiedo a chi usufruisce abitualmente del Blog di farmi sapere che cosa pensa della rubrica. Voglio dire : se fossero lettori del "Corriere Mercantile" si soffermerebbero su "Visti con il monocolo" o lo salterebbero a pie pari? Non riesco a capire se gli argomenti che, via via, ho scelto fino ad ora  (e che, francamente, mi hanno interessato) presentino qualche motivo di curiosità e di attenzione anche per qualche lettore.
Mi auguro di ricevere risposte e invio a tutti i miei saluti.

"Viviamo nel mistero delle lingue e non ce ne accorgiamo mai"

Ho letto per caso notizie inattese sul festival musicale “Liet International”, nato dodici anni fa in Frisia. Presumo nella parte frisona dell’Olanda, visto che in una provincia il frisone è lingua ufficiale al pari dell’olandese mentre in Germania è riconosciuto come lingua minoritaria (ha affinità con lo “Scots”, parlato nelle “Lowland” della Scozia, e con il basso tedesco). Sembrano precisazioni inutili ma servono a far capire che la vocazione del “Liet International” è quella di dare sfogo musicale a tutte le lingue minoritarie d’Europa, ancor più di quelle nazionali schiacciate dall’uso dell’inglese come idioma internazionale della musica. Il festival cambia sede ogni anno: l’edizione del 2012 ha luogo in una città del golfo di Biscaglia che si chiama Gijòn in spagnolo e Xixòn in asturiano. Vi sono rappresentati testi e cantanti di tutte le lingue “secondarie” d’Europa: non solo, suppongo, il basco o il gaelico ma anche idiomi ancor più sconosciuti come il sami e l’udmurti. Ho controllato in internet: si tratta di due idiomi  ugro-finnici, il sami parlato da circa 75.000, persone dette anche Lapponi, divise fra Svezia, Norvegia, Finlandia e Russia; l’udmurti da più di 600.000 persone che vivono nella Udmurtia, repubblica autonoma russa, collocata ad ovest degli Urali. Nell’edizione di questo anno, come sempre contrassegnata da una ricerca dell’avanguardia musicale, vi sono anche due esponenti italiani: due (suppongo friulani) vengono da Udine ed uno rappresenta chi canta nella lingua catalana parlata (ormai minoritariamente) ad Alghero.
C’è qualcosa di patetico in questo sforzo, forse disperato ma certo toccante, non solo di tenere in vita meravigliose lingue locali che vengono via via rosicchiate dall’uso delle lingue nazionali e, ancor più, da quello ossessivo dell’inglese, ormai “koiné” musicale diffuso nell’universo mondo. E al tempo stesso c’è la manifestazione di come viviamo in un universo di lingue soggette, senza che noi ne siamo consapevoli, ad una continua erosione ed a una continua trasmigrazione. Ogni qual volta apriamo bocca facciamo mutare qualcosa intorno a noi.
La Torre di Babele continua, nei secoli, a conservarsi terribile e affascinante.

Claudio G. Fava

(battute 2.199)

5 dicembre 2012

A DOMANDA RISPONDE


Rispondo qui ai 5 Post giunti il 3 Dicembre 2012, dopo la pubblicazione del brano riguardante la telefonata di Petacco ed il rifiuto di Bertoldi, e il 4 Dicembre dopo la riproduzione della mia rubrica domenicale sul “Corriere Mercantile”,  in quella occasione dedicata a Gianni Brera.
In questo ultimo caso la rievocazione che il lettore fa de “Il calcio azzurro ai mondiali” evoca un esempio di quell’intelligente giornalismo sportivo di cui appunto Brera fu un interprete senza uguali. Mi ha incuriosito la citazione di un grande calciatore del passato, Matthias Sindelar detto “carta velina”, di cui ho sempre sentito parlare e di cui ho letto, senza averlo mai visto. Quando ero bambino la tradizione calcistica si alimentava di eredità verbali tramandate di generazione in generazione. Per esempio a Genova fu tipicamente il caso di un centravanti argentino che i genoani hanno adorato: Guillermo Stabile detto “El filtrador”. C’era una frase tipica che mi son sentito ripetere tante volte in dialetto dai vecchietti verbosi che si lasciavano andare ai commenti durante le partite di calcio: “O l’è arrivou au zoeggia, au sabbo o l’a zugou e o l’a feto dui goal!” (E’ arrivato al giovedì, al sabato ha giocato e ha fatto due goal). In particolare il mito di Sindelar fu fortissimo anche in Italia, dove gli anziani favoleggiavano di questo strepitoso ed elegantissimo attaccante austriaco, che perforava le difese e controllava splendidamente il pallone. Ho trovato su di lui, in internet un articolo di Antonio Giusto nel Blog del Guerin Sportivo. Ed a quell’articolo rimando per quel che riguarda la nascita ceca di Sindelar (era di Kozlov, suo padre emigrò a Vienna come tanti cittadini dell’impero Austro Ungarico e, morì in guerra, dalle nostre parti, sull’Isonzo nel 1917), la sua clamorosa carriera di attaccante e la sua morte in qualche modo misteriosa. Il soprannome “Der Papierene” è stato da noi tradotto con “Carta Velina”.
Per venire ai post del 3 Dicembre l’ottimo documentarista Claudio Costa, della Ronin Film Production, mi suggerisce l’idea di fare un intervista a Callisto Cosulich, un vecchio amico che è forse un decano della critica cinematografica italiana. Callisto, che ha rilasciato a Costa una lunga intervista in cui rievocava i suoi anni di “Naja” in Marina (quando, dopo l’8 settembre, assistette alla distruzione della corazzata Roma) è uno straordinario testimone di sessant’anni di vita del cinema italiano. Ci penserò.
Rosellina vorrebbe una telefonata con Carlo Verdone. Io praticamente non lo conosco, anche se sono in ottimi rapporti con suo fratello Luca. In quanto alla “recensione” di “Fronte del Porto” penso che si tratti di un film amplissimamente analizzato e soppesato, per cui non so se riuscirei a dire qualche cosa di nuovo e di particolarmente attendibile. Un altro “aficionado”, PuroNanoVergine, mi chiede un Petacco-bis (forse il materiale c’è, vedremo più in la se Arrigo ne ha voglia) e addirittura una Emmanuelle Beart, attrice di vaglia (basta pensare a “Nelly e Monsieur Arnaud” di Claude Sautet) ma che raggiungerei difficilmente.
Le richieste di Anonimo (Fofi, Martini, De Antoni, Medioli) potrebbero dare origine, con relativa facilità, ad interviste telefoniche. Ci penserò ma, soprattutto, resto in attesa per vedere se mi arriveranno altre richieste. Esse sono e saranno fondamentali per orientarmi. 
Nel frattempo molti cordiali saluti a tutti.

4 dicembre 2012

L'OSSERVATORE GENOVESE

VISTO CON IL MONOCOLO


Continuo qui la periodica pubblicazione delle puntate settimanali della mia piccola rubrica domenicale sul Corriere Mercantile. Ecco qui di seguito le tre puntate apparse rispettivamente 18 e il 25 Novembre 2012 e il 2 Dicembre 2012.

11) L'INCREDIBILE CASO DEL GENERALE PETRAEUS

Qualche giorno fa mi ero messo al computer a fare una ricerca sul generale Petraeus, che, nell’ aprile del 2011, ormai borghese, era stato preposto alla direzione della CIA. Ero incuriosito sia della fama di trionfatore della guerra in Afganistan, sia dai comandi che aveva ricoperto (praticamente i più importanti dell’esercito americano) sia dal numero spropositato di nastrini che gli invadevano la divisa (successivamente ho fatto il conto: egli ha complessivamente 86 decorazioni, di cui ben 15 straniere). Il giorno dopo che avevo iniziato le mie ricerche scoppiò in tutti i giornali e le televisioni del mondo il “Petraeus Affair”. Da allora non faccio che ricavare materiale e ho messo insieme un dossier considerevole. Mi limito ad osservare che si tratta di uno dei più straordinari casi di (improbabile) spionaggio emersi da molti decenni da questa parte. Come vecchio lettore di “Spy Stories” sono sbalordito. Non dico il grande Forsyth ma anche un medio sceneggiatore hollywoodiano si sarebbe rifiutato di utilizzare risorse di questo tipo: una specialista di anti terrorismo, Paula Broadwell, già allieva di West Point, che scrive un libro sul generale e ne diventa anche l’amante; il generale che via e-mail le invia dati (forse) segreti e messaggi sessuali. La stessa donna che per gelosia ne minaccia un’altra, Jill Kelley (romanzescamente di origine libanese). E’la regina delle feste di Tampa Bay – ove ha sede un immensa base aerea e il CentCom, il super comando delle guerre di Iraq e Afganistan – la moglie di un famoso chirurgo e anche l’amante del generale John Allen, il quale ha preso il posto che era di Petraeus ed è anche egli cultore (sembra) dell’erotismo elettronico. E poi i sospetti sulla morte dell’ambasciatore americano in Libia e l’ambigua presenza di  Frederick Humphries, agente dello FBI e amico della Kelley, che ha iniziato le indagini (si pensa ad un libro di Mark Riebling, “The Secret War Between the FBI and CIA”) a testimonianza del fatto che tutto questo incredibile caso, inizialmente basato su un tradimento coniugale, sembra una mescolanza di idiozia palese e di follia segreta, di cui vorremmo tanto conoscere la vera natura e le vere motivazioni.

12) QUEL GRAN GENIO DI GIANNI BRERA
Gianni Brera, o più esattamente Giovanni Luigi Brera, nacque a San Zenone al Po nel 1919, in una data fatidica per tutta la sua generazione, e cioè l’otto settembre, e morì il 19/12/1992 in un incidente automobilistico sulla strada che collega Codogno a Casal Pusterlengo. Fra qualche settimana ricorrerà il ventesimo anniversario della sua morte e molti giornali italiani si sono ricordati di rievocare il suo straordinario talento giornalistico ed il suo gusto compiaciuto per le acutezze e i complessi risvolti filologici della nostra lingua. Ci vorrebbe una pagina intera per rievocare quel che ha rappresentato Brera nel giornalismo italiano, e non solo in quello sportivo. Straordinario inventore di neologismi e di soprannomi calcistici ne coniò a decine l’uno più clamoroso dell’altro: Bonimba per Boninsegna, Puliciclone per Pulici, Stradivialli per Vialli (cremonese), Baron Tricchetracche per Causio, Rombo di Tuono (o, per evocare la pronuncia sarda, Giggirriva) per Riva, Accaccone e Accacchino per Helenio ed Heriberto Herrera (come dire: due grandi H e due piccoli H) e via citando. Praticamente innovò in toto (ma era inimitabile) il lessico dei giornalisti sportivi, fermo a quello imperativo e burocratico del ventennio. Si pensi a “contropiede” (ora si preferisce dire, in stile ferroviario, “ripartenza”), “uccellare”, “incornare”, “goleador”, “rifinitura”, “libero”(ormai usato nelle principali lingue europee), via via sino alla Dea Eupalla, sorta di Decima Musa protettrice del bel gioco. Brera piombò nel giornalismo sportivo come un fulmine lombardo a ciel sereno, lasciando tramortiti centinaia di professionisti che da allora spesso cercano vanamente di eguagliarlo, in preda alla goffaggine quando cercano di attingere al suo vocabolario. Non era infallibile: la sua avversione verso gli “abatini” (Rivera, Mazzola Sandro, Bulgarelli, forse la parte più elegante del nostro calcio) rimane incomprensibile così come è difficile accettare la sua fissazione che per motivi fisico-etnici gli italiani potessero giocare solo in contropiede. Ma è certo che per tanti lettori come me egli è stato un perenne motivo di fascinazione, come forse nessun altro scrittore italiano.

13) FARE RAI E...NON AVER PAURA
Nella puntata di “Visto con il Monocolo” del 3 Novembre scorso, intitolata “Rai non fare, paura non avere”, avevo narrato di un fatto stranissimo che mi era accaduto. Un funzionario di una rubrica domenicale di Rai Uno, “MixerItalia”, mi aveva telefonato per invitarmi ad essere intervistato dalla Rai di Genova a proposito dello uso del cinema in televisione. Poiché è un tema di cui mi sono occupato per 24 anni a Viale Mazzini avevo accettato volentieri. Pochi giorni dopo lo stesso gentile funzionario, imbarazzatissimo, mi ha telefonato per comunicarmi una sconcertante scoperta: gli ex-dipendenti della Rai non potevano essere intervistati, neppure a titolo gratuito. La cosa mi parve tanto assurda che ne ho fatto oggetto di una puntata della rubrica, ne ho inviato per raccomandata una fotocopia al Direttore Generale Gubitosi e, successivamente, avendo ottenuto il suo indirizzo e-mail ad uso personale, gli ho reso noto il mio testo. Era un gesto formale, che con ovvio scetticismo italiano pensavo fosse del tutto inutile. E qui nasce la mia sorpresa. Nel giro di poche ore egli mi ha risposto con un messaggio molto gentile in cui mi spiegava che non aveva ricevuto la raccomandata e che la proibizione era stata emanata per rendere impossibile l’uso sistematico degli ex dipendenti utilizzati nelle rubriche come ospiti continuativi. Il che non dovrebbe riguardare interventi occasionali. E, ha aggiunto, gli dispiaceva se la cosa mi aveva creato un problema, concludendo “se mi dà qualche dettaglio in più me ne occupo.” Stupefatto l’ho ringraziato, spiegandogli come erano andate le cose e dicendogli che intendevo menzionare l’accaduto nella rubrica. Mi ha risposto di nuovo, a stretto “giro di computer”, autorizzandomi a menzionare quel che ritenevo opportuno e di fargli sapere se poteva essermi utile in qualche cosa. 

Quel che è accaduto mi sembra non solo lodevolissimo ma, considerato il tono generale della burocrazia “pubblica” (statale e parastatale) in Italia, anche felicemente fuori dalla norma. Non so come si rivelerà Gubitosi in qualità di Direttore Generale ma certamente l’efficiente cortesia che lui ha manifestato qui ci induce a nutrire le più rosee speranze.



3 dicembre 2012

A DOMANDA RISPONDE



 Quesiti per Petacco (e per Silvio Bertoldi)

Rispondo in una sola tornata alla fedelissima Rosellina Mariani ed a chi si nasconde -ma credo di conoscerlo…..- dietro il nome di una piccola società di produzione dalle vocazioni giapponesi (i 47 Ronin, i fedelissimi che vendicano il loro signore, danno vita, come è noto, ad uno di grandi miti della tradizione samurai). Mi fa molto piacere che ad entrambi i corrispondenti sia piaciuta l’intervista con Petacco, al punto che mi chiedono un  seguito! Non se se Arrigo ne abbia voglia ma, comunque, prima di muovermi in questo  senso voglio ricevere altre richieste affini, e numerose quel tanto che mi permetta di capire se veramente esiste un nucleo abbastanza  grande di persone interessate.
Confesso che stavo anche meditando di effettuare una intervista similare con un giornalista che è stato forse uno dei primi divulgatori di storia, sulla stessa linea di Petacco e di quei numerosi colleghi che hanno rievocato fatti recenti e recentissimi  di casa nostra (e son molti e validi,  da  Luciano Garibaldi, a Gian Carlo Venè, a Giuseppe Mayda e via citando). Si tratta di Silvio Bertoldi, nato a Verona il 18 luglio 1920 ed autore di decine di libri ( a partire  sicuramente  del 1964, se non prima)  in buona parte centrati sull’Italia del fascismo,  della guerra e del dopoguerra (con diverse divagazioni oscillanti fra il XIX secolo e i giorni nostri). Io ho contato più di quaranta titoli, e forse sono di più. Per farla breve, grazie alla cortesia del collega Dino Messina del “Corriere della Sera” ho ottenuto  il cellulare di Bertoldi e l’ho chiamato al telefono. Mi ha risposto lui stesso, con una voce molto  giovanile, non, secondo la convenzione, da novantaduenne (anche a me, per telefono, dicono che non ho una voce da ottantatreenne; poi mi vedono di persona, e c’è il crollo). La cosa che mi ha stupito è che, appunto con sicurezza e piglio giovanili, mi ha risposto che non intendeva assolutamente rilasciare interviste, che con cose del genere aveva finito e che non voleva tornare sull’argomento. E’stato formalmente gentile ma fermissimo nella sostanza e, naturalmente, ho dovuto accettare la sua decisione.
Approfitto per chiedere ai lettori ed hai complici abituali del Blog, se vi è qualche persona che desiderano far intervistare da me. Posso raggiungere più facilmente, anche se non li conosco, gente del cinema e giornalisti professionisti, i quali ultimi sono in genere sensibili alla colleganza professionale. Ma accetto richiesta di ogni tipo, riservandomi il diritto di riuscire ad organizzare la telefonata, ipotesi non sempre sicura.
Resto in attesa di eventuali comunicazioni e invio i migliori saluti a tutti.

28 novembre 2012

Per piacere, intercettate! - Arrigo Petacco

Sono contento di poter inserire nel Blog, grazie come sempre alla decisiva collaborazione di Lorenzo Doretti, la telefonata che ho avuto con Arrigo Petacco. Lo conosco da quasi 60 anni (siamo coetanei) il che mi ha permesso di costringerlo ad una lunghissima auto - confessione ove si evoca e si rievoca una parte considerevole del giornalismo italiano post - bellico. Mi auguro che questo lungo viaggio verbale all'interno della vita professionale di Arrigo possa interessare molti lettori. In particolare devo correggere un mio errore. Per una sorta di subitanea mancanza di memoria ho commesso uno sciocco errore di attribuzione nel rievocare un libro di Arrigo, "La signora della Vandea. – Un' italiana alla conquista del trono di Francia" (Mondadori, 1994). La protagonista del libro è un personaggio storico, forse dimenticato al giorno d'oggi ma certamente ricco di risvolti romanzeschi. Si tratta della principessa Maria – Carolina (1799-1870), nata nella real casa di Borbone delle Due Sicilie (era figlia di Francesco I di Napoli e di Maria – Clementina d'Austria, figlia dell'imperatore Leopoldo II e nipote di Maria Antonietta). Cresciuta impetuosamente nell'esilio siciliano ed educata ad odiare i rivoluzionari, nel 1816 sposò giovanissima il Duca di Berry, figlio di Carlo X, Re di Francia dopo il fratello Luigi XVIII, a sua volta salito sul trono dopo il lungo intervallo del dominio napoleonico. Quattro anni dopo, il 14 febbraio 1820, il Duca di Berry venne assassinato da un fanatico bonapartista, Louis - Pierre Louvel, il quale riuscì così a spegnere in apparenza la discendenza dei Borboni "legittimi". Ma accadde che, diversi mesi dopo la morte del marito e cioè il 29 settembre 1820, Maria Carolina dette alla luce un figlio postumo del Duca di Berry. Per questa ragione il bambino venne chiamato "il figlio del miracolo", assunse poi il nome il Conte di Chambord e nel 1871 non divenne Re di Francia solo perché si rifiutò ostinatamente di accettare l'uso della bandiera tricolore, pretendendo di ritornare al vessillo bianco dei Borboni. La persuasione di essere la madre del giovanissimo "re in esilio" convinse Maria Carolina a cercare di scalzare il trono di Luigi Filippo, l'Orleans figlio di quel "Philippe Egalité" che aveva votato per la morte del cugino Luigi XVI, zio del Duca di Berry. Donna avventurosa si mise a capo di un gruppo di congiurati e cercò di sollevare la Vandea, in nome di suo figlio a favore del quale aveva abdicato il re in esilio Carlo X. Cercò di accendere una guerriglia come era successo 40 anni prima, quando i monarchici "chouans" vandeani avevano messo a ferro e fuoco un'intera regione. Ma era un'iniziativa senza senso, la Vandea era ormai una terra pacificata, gli Orleans non erano i Giacobini, e nel periodo maggio-giugno 1832 la rivolta finì. Ma avvenne che nel 1833 la principessa dette alla luce una bambina, Anna Maria (morta poi lo stesso anno). Di fronte allo sconcerto generale dovette confessare di avere sposato segretamente a Roma un nobile siciliano, Ettore Lucchesi Palli (da cui ebbe complessivamente cinque figli). Fu un momento decisivo, ma non unico per i risvolti avventurosi e romanzeschi, nella vita di Maria Carolina, che ebbe una vita sentimentalmente tempestosa e finì poi l'esistenza nel 1870, in Austria, ormai rifiutata dalla sua famiglia. Durante la telefonata, evidentemente rimbambito, ho detto che essa era la moglie del Conte di Chambord, mentre, come ho scritto prima, ne era la madre. Chiedo scusa a tutti.

26 novembre 2012

A DOMANDA RISPONDE

Rispondo qui ai post che mi sono giunti dopo aver messo nel Blog alcuni miei scritti. Lo farò qui di seguito, occupandomi via via di quelli più lontani e successivamente di quelli più vicini. Cominciamo con i quattro commenti che mi sono giunti in occasione della pubblicazione dell' "Osservatore Genovese", ovvero "Visto con il monocolo", in data 07/11/12. Mi hanno scritto Rosellina Mariani (come sempre!), Rita M., Ivana ed Enrico. Ringrazio tutti per la solidarietà. Va detta però una cosa importante. Dopo aver pubblicato sul Corriere Mercantile il breve brano che ho riportato nel Blog, l'ho spedito per Raccomandata 1 al Dottor. Gubitosi, Direttore Generale della Rai. Non avendo ricevuto risposta ma avendo individuato il suo indirizzo  e-mail glielo ho inviato con questo ultimo mezzo. Incredibilmente, nel giro di poche ore, mi è giunta una mail di ritorno in cui lo stesso Gubitosi mi forniva molto gentilmente delle spiegazioni. L'ho ringraziato spiegandogli come si era verificato il caso della "intervista impossibile". Lui mi ha immediatamente risposto autorizzandomi a dare pubblicità all'accaduto. E' quello che farò nella prossima puntata della rubrica del Corriere Mercantile, se non altro per far rilevare una efficiente cortesia, assolutamente stupefacente per chi ha passato 24 anni fra le brusche ed annoiate rudezze burocratiche della Rai. Rimando pertanto i lettori alla breve puntata che al più presto dedicherò all'accaduto nel Blog.
Vengo ora alle due missive ricevute dopo la pubblicazione del "Salvate la Tigre" del 17/11/12. Oltre a Rosellina che evoca Coluche e Cukor, Rita M. mi cita un film del 1956, "Incantesimo" (The Eddy Duchin Story con Tyrone Power e Kim Novak) in cui sarebbero state apportate "intrusioni" correttive nel doppiaggio italiano. Non ne so assolutamente nulla e sicuramente non mi sono mai occupato di questo film. E' curioso che il titolo italiano sia eguale al titolo che ha assunto da noi, "Holiday" con Katharine Hepburn e Caryn Grant, proprio di quel George Cukor prima menzionato. Infine approfitto qui per dar corso ad una richiesta di Rosellina che, a proposito di "Mano pericolosa" (la mia "recensione" era stata pubblicata il 30/10/12) mi aveva scritto che avrebbe voluto leggere tutto il brano di Jacques Lourcelles di cui citavo solo la prima frase. In via eccezionale, considerata l'acutezza dell'analisi del critico francese (personaggio di testa in un famoso gruppo di cinefili parigini chiamati, dal cinematografo di loro elezione, i "Mac Mahoniens") ho provveduto a far "ricopiare" per il computer il testo originale. Non lo farò altre volte, perchè non so quanti lettori del Blog gradiscano leggere in francese, e d'altro lato non ho voluto tradurre il testo in italiano perchè mi sembrava giusto conservare vocaboli e tonalità di quello originale. Approfitto per far presente che quando stabilmente compravo libri francesi (adesso non compro quasi più niente, neppure in italiano, perchè in casa non ho assolutamente più spazio) e poichè non esisteva e non esiste a Genova una libreria specializzata, mentre è molto difficile fare arrivare libri francesi, mi sono sempre servito con piena soddisfazione della "Librerie française" di Firenze ove la gentilissima signora Torricelli (non di Forlì!) cerca di risolvere ogni problema di approvvigionamento. Ricopio qui di seguito l'indirizzo:
 Piazza Ognissanti, 1 rosso 50123 Firenze Tel 055/21.26.59 e-mail: libfranflorence@iol.it

Ed ecco adesso il brano di Lourcelles, che nelle ultime righe rimanda ad una trasmissione televisiva di Antenne 2 del 1982, in cui Fuller spiega come ha ricostruito in studio a Los Angeles la sequenza iniziale del film ambientata nella metropolitana di New York:
 Admirable leçon de cinéma dont chaque plan est marqué par la sensibilité à vif de Fuller, Pickup on South Street est à la fois le plus impersonnel et le plus personnel des films. Il s’inscrit dans la veine documentaire du film noir, c‘est— à-dire qu‘il comprend beaucoup d’extérieurs et décrit une enquête qui pourrait donner lieu à un excellent  un excellent article de journal. Quand il était journaliste, Fuller avait d’ailleurs fréquenté les milieux de la petite pègre représentée ici. Les mérites de Pickup sont ceux d’un bon film d’action, parcouru de surcroît par le frémissement électrique que Fuller impose à tous ses récits : caractérisation aiguë des protagonistes secondaires et même des silhouettes (cf. l’homme s’empiffrant de riz qui vend des renseignements à Jean Peters et saisit avec ses baguettes les billets froissés qu’elle pose sur la table); tempo vif et parfois haletant; utilisation savante de la profondeur de champ et des longs mouvements d‘appareil pour donner à l’action sa juste dose de piment et de réalisme. (Par ailleurs, le baroquisme fullérien privilégie les plans très serrés ou très larges au détriment des plans moyens.) N’oublions pas l’humour, un certain humour sardonique et désabusé qui n’est pas spécifique à Fuller (cf. les films de Don Siegel) et qui a un double effet contradictoire, très fréquent dans le cinéma hollywoodien d’après-guerre : il distancie le spectateur d’un premier degré qui déjà ne fonctionnait plus à 1’époque mais accroche ainsi plus efficacement ce spectateur à 1 l’action en sollicitant sa complicité. Fuller laisse d’ailleurs tomber cet humour quand il juge bon, c’est—à—dire ici au milieu du récit. On jugera de son talent, de sa virtuosité et de son contrôle sur la matière du film au fait que la séquence la plus drôle de l’intrigue et la séquence la plus tragique ont pour protagoniste le même personnage, la vieille Moe (interprétée par la parfaite Thelma Ritter dont les compositions ont été souvent inoubliables cf. Letter to Three Wives‘, The Mating Season de Mitchell Leisen, l951, Rear Window‘: etc.). Dans la première de ces séquences, elle vende Widmark à la police selon tarif habituel. Dans la second séquence, elle se laisse assassiner, veille femme fatiguée, courageuse et intègre à sa façon, appelant la mort comme une délivrance. Passons à l’aspect le plus strictement fullérien du film. Toute l’action est vue du côté de deux rebuts de la société, deux personnages qui ne valent rien selon les valeurs bourgeoises de cette société, et donc traîtres l’un et l’autre à ces valeurs. La ressemblance profonde  qui existe entre Jean Peters l'aventurière et Widmark le pickpocket (passeé trouble, dynamisme et vitalité puissante, situation précaire de survie dans la jungle des villes) rend crédible le coup de foudre qu’ils ressentent l’un pour l’autre entre deux tabassages (ils n'arrêteront pas de se cogner dessus tout au long du film). Le point de vue de Fuller est de montrer une certaine solidarité une certaine intégrité chez ces personnages marginaux, assumant plus ou moins bien leur condition et adeptes à demi conscients d‘une morale qui pourrait en remontrer aux piliers de la société. Personnages décalés, déphasés constamment en déséquilibre entre l’univers des bons et celui des méchants et n’appartenant pas plus à l’un qu’à l’autre, ils permettent à l’auteur d’ exprimer, au sein de son pessimisme: explosif, une vision morale et non conventionnelle du monde. L‘anticommunisme sujet sert de critère pour juger de la relative pourriture des personnages. Ceux qu’affectionne particulièrement Fuller, tel le pickpocket joué par Widmark, se tiennent à la bordure du mal absolu, mais ne franchissent jamais la frontière. Quand ils sont tentés de le faire, leur bon ange les en empêche (scène où J. Peters assomme Widmark). Peut-être parce qu’ils sont les plus exposés, sont-ils aussi — dramatiquement et moralement — les plus attachants. N.B. Selon le désir des dirigeants de la Fox française, les agents communistes furent transformés, dans la version française du film, en trafiquants de drogue. D’où le titre: Le port de la drogue. Remake: The Cape Town Affair, 1967, de Robert D. Webb. Dans une séquence de l'émission de télévision << Cinéma Cinéma >> (du 1-12-1982 sur Antenne 2), Fuller commente à la moviola les premiers plans de son film et indique notamment sont, contre toute attente, des décors construit en studio.

Brano tratto da: "Dictionnaire du Cinéma" di Jacques Lourcelles, Editions Robert Laffont, Collection "Bouquins" dirigée par Guy Schoeller, Parigi 1992.

19 novembre 2012

LA TIGRE E’ STATA SALVATA ANCORA TRE VOLTE.


Provvedo adesso ad inserire nel Blog le ultime tre puntate pubblicate su FilmTv della mia rubrica “Salvate la tigre”. Ovviamente, anche in questo caso, mi auguro che interessino a qualcuno. Cordiali saluti.

7) Salvate la Tigre ( La signora scompare e riappare per merito mio).

Quasi sicuramente questa esperienza risale agli anni ’70, quando alla Rai dovevo occuparmi solo di film. Nel 1981 divenni capostruttura a Rai Due e le mie competenze si allargarono enormemente, inglobando anche telefilm, seriali, Tv Film e soap-operas, per cui ebbi più responsabilità e meno tempo a disposizione (fra l’altro dovetti anche inventare, anche da un giorno all’altro, il “cinema di notte”). In sostanza credo che l’esperienza di cui parlo adesso risalga perciò agli anni ’70 (più passa il tempo e più le esperienze del passato diventano “flou”).
Avevo l’intenzione di dedicare un ciclo ai film inglesi di Alfred Hitchcock, che sono in genere molto belli, ammontano a circa una ventina ed erano largamente sconosciuti da noi. Credo che per i soliti motivi contrattuali non riuscì nel mio intento. Alla fine mi ritrovai con una sola preda e cioè con il delizioso “The Lady Vanishes” del 1938. E’ uno dei film di “Hitch” di più esplicito impegno storiografico: in un treno trans-europeo, una ragazza inglese, Iris Henderson (Margaret Lockwood) simpatizza con un’anziana governante britannica, Miss Froyd (Dame May Whitty), la quale poi scompare subitamente senza lasciare tracce. Ma Iris è sicura di averla vista e di averle parlato e si mette disperatamente alla sua ricerca, fra passeggeri menzogneri e subdoli cospiratori. Alla fine, naturalmente, riuscirà a trionfare. Riuscii ad importarla, a farla doppiare ed a metterla in onda. Come Hitchcockiano militante sono molto orgoglioso (anche se nessuno me ne ha mai riconosciuto il merito) di questo tassello che consentì di allargare nel pubblico italiano la conoscenza del regista. Fra i doppiatori Fiorella Betti, Manlio De Angelis, Giorgio Piazza, Gianfranco Bellini e perfino Rosetta Calavetta. Tutto sommato un buon “cast”.

 (Battute 1.790).

8) Salvate la Tigre (“Garçon!” di Claude Sautet)

Ho sempre avuto molta attenzione e molta simpatia per l’opera di Claude Sautet (1924-2000). Esperto confezionatore, correttore di sceneggiature, regista raffinato, lavorò spesso con un gruppetto di interpreti di alta qualità.   E’ stato via via un piccolo maestro del nero francese (“Asfalto che scotta”,”Corpo a corpo”, “Il commissario Pelissier”), grande rievocatore di ricordi intimi e sentimentali (“L’amante“ cioè “Les choses de la vie”), insuperato cantore degli amori e dei dolori della medio - alta borghesia francese (“E’ simpatico …. ma gli romperei il muso”, “Tre amici, le mogli e (affettuosamente) le altre”), via via diresse un’altra serie di film di qualità, e infine gli ultimi “Un cuore in inverno” e “Nelly e Monsieur Arnaud”, piccoli e (forse) ormai dimenticati capolavori. Ma negli anni’80 avanzati mi accorsi che un suo film, “Garçon!” centrato su uno dei suoi attori prediletti, Yves Montand (fra gli altri Michel Piccoli, Romy Schneider, Serge Reggiani, Michel Serrault)  non era stato importato in Italia. Riuscii a comprarlo, a farlo doppiare ed a trasmetterlo. Purtroppo, schiacciato dai compiti molteplici che incombevano all’ epoca su un capo - struttura, non potei seguire il doppiaggio come avrei dovuto. Non credo, a memoria, che il film abbia ottenuto un grande successo in televisione ma mi consentii, in un certo senso, di pagare una sorta di debito d’onore con un regista da noi poco apprezzato.
Verso la fine della sua vita ebbi la fortuna di conoscerlo e di frequentarlo e diventammo (quasi) amici. Mi raccontò moltissime storie personali che lo situavano in un momento determinato della società francese (aveva 16 anni nel 1940 al crollo della Francia). Da lui imparai molto, sul cinema francese e sul cinema in generale, e lo ricordo con molta nostalgia.

(Battute 1.792).

9) Salvate la tigre (Ruggivano gli anni di Cagney).

Sto cercando di ricordarmi quale sono i cicli di film che ho inventato  a Rai Uno e a Rai Due (così numerosi e complessi che fatalmente si estinguono nel ricordo). Uno di cui sono sicuro è quello che, dedicato a James Cagney, permise a tanti telespettatori di gustare questo eccellente attore, ormai completamente rimosso dalla memoria di tanti cinefili. Nato nel 1899 e morto nel 1986 di diabete, fu all’inizio di carriera un eccellente ballerino e si mutò poi in un divo di carattere, spesso obbligato a inventare indimenticabili personaggi di “duro” e di “gangster”. Fra film e TvFilm poco meno di una settantina di opere, nella maggior parte dei casi da protagonista o da coprotagonista, e dagli anni trenta ai sessanta quasi allo stesso livello di Gable, Cooper e Tracy. Per il ciclo credo di aver fatto doppiare diversi film, e di due inediti sono sicuro: uno è “Lady Killer” (1933) di Roy Del Ruth, che ricordo come uno scatenato strumento comico in cui Cagney è un gangster in fuga che si rifugia a Hollywood e diventa un divo del cinema. Il caso dell’altro è ancora più curioso. Si tratta di “The Roaring Twenties” (1939) di Raoul Walsh (lo ribattezzai “I ruggenti anni venti”), famoso nel mondo ma inspiegabilmente mai importato in Italia. Qui Cagney, al fianco di Bogart (forse per l’ultima volta comprimario di lusso), impersona un reduce di guerra che diventa uno dei capi del commercio illegale di alcol ed è fatalmente destinato a cadere. Come è noto Raoul Walsh (1889-1981) fu un autore autentico protagonista del cinema americano dagli anni 10 ai primi anni 60. Ci lasciò nel 1964 con “Far West”, in cui il genere, così tipicamente americano, è rivisitato con una sorta di pacata tristezza. 
Mi congedai a mia volta da Cagney importando “Terrible Joe Moran”, TvFilm inedito del 1984.

(Battute 1.799).

17 novembre 2012

RITORNA “SALVATE LA TIGRE”



Riprendo qui la pubblicazione di alcune delle puntate della rubrica “Salvate la tigre”di cui sono titolare sul settimanale FilmTv. Pertanto provvedo a riportare la quarta, la quinta e la sesta puntata pubblicate a suo tempo sulla rivista. Mi auguro che la cosa possa interessare i cinefili più attenti. Approfitto, con una certa civetteria professionale, per riportare anche i numeri di battute di ogni frammento. L’accordo con la redazione di “FilmTv” è che ogni puntata consti di 1800 battute. Come potrete vedere riesco quasi sempre a restare praticamente nei limiti.

4) Salvate la tigre

Il mio amico Enrico Lancia (grande intenditore di doppiatori, dotato di un favoloso orecchio) mi ha segnalato un piccolo avvenimento “cinefilico” di cui mi ero completamente dimenticato. Una domenica sera ha rivisto in una vecchia registrazione “Ribalta di Gloria” (Yankee Doodle Dandy, 1942) di Michael Curtiz. Ed ha avuto la sorpresa, assolutamente inaspettata, di riconoscere la mia voce che riassumeva brevi sequenze trasmesse in originale o che traduceva titoli di giornali americani. Me lo ha scritto e mi è venuto in mente quel che era successo (me ne ero completamente dimenticato). Lavoravo ancora a Rai Uno quando progettai e poi  misi in onda un fortunato ciclo inteso a rivalutare James Cagney, attore apparentemente monocorde ma in realtà capace di molte sfumature, consacrato come “duro” ma anche eccellente ballerino e uomo di commedia. Recuperai e proiettai molti film, naturalmente nelle copie integrali stampate apposta, diversi dei quali inediti  (uno di essi fu sicuramente “Lady Killer” del 1934). “Ribalta di gloria” è la biografia laudativa di George Michael Cohan (1878-1942),  popolarissimo attore e compositore di canzoni di grande successo (circa 1.500, si calcola, e fra di esse il famoso “Over There”, che divenne una sorta di inno nazionale durante la prima guerra mondiale). Molti dei doppiaggi forniti erano manchevoli (perché, non so). Invece di adottare il solito criterio Rai di tagliare brutalmente le immagini non coperte da doppiaggio finii nell’ufficio di un montatore dalle parti di Piazzale Flaminio: qui registravo per ogni brano “scoperto” un riassunto e le traduzioni prima citate. Fu un esperimento nuovo e probabilmente mai tentato in precedenza alla Rai. Non credo abbia avuto seguito. Chissà dove sono finite le copie dei film con la mia voce..?

(Battute 1.793)

5) Salvate la tigre

In Francia si stanno preparando ben cinque libri per commemorare Coluche. Il quale, nato a Parigi il 28 ottobre del 1944 e morto a Opio, nelle Alpi Marittime in un incidente di macchina il 19 Giugno 1986, continua a godere Oltralpe di una grande popolarità. Figlio di un imbianchino laziale e di una fiorista francese egli divenne un giovanotto estremamente parigino, in possesso di un tagliente e naturale humor proletario. Fatalmente approdò allo spettacolo leggero, francesizzò in Coluche il nome nativo Michel Gèrard Joseph Colucci, e iniziò una carriera salutata da un enorme successo personale. Paradossalmente si candidò alla Presidenza della Repubblica e fondò una catena di mense per i poveri, “Les restos du coeur”, tuttora in funzione. Il suo personaggio beffardo, rivestito di una “salopette”blu e di una T-Shirt gialla, divenne famoso . Lavorò in almeno 26 film, oltre che in alcune mini serie televisive, tutti di intenzioni comiche. Salvo uno, “Tchao Pantin” (1983) di Claude Berri (quello de “Il vecchio e il bambino”) volutamente ed esplicitamente drammatico. A Rai Due seguivo da tempo, attraverso stampa e televisione, la sua carriera e mi accorsi dell’inatteso talento concentrato in questo suo film “nero” di vocazione e di coloritura. Nel mercato italiano non interessò a nessuno, io lo comprai, lo feci doppiare e poi lo trasmisi. Coluche interpretava un ex poliziotto alcolizzato che lavorando in una stazione di servizio vendicava la morte di un piccolo “dealer” e veniva ucciso a sua volta. Naturalmente dotato, come tutti i comici di talento, per il versante drammatico Coluche ritagliò un grande personaggio, al punto di ricavarne un “César” per la migliore interpretazione (al suo fianco un altro premio toccò a Richard Anconina). 
Sono contento di aver avuto occhio!

(Battute 1.795)

6) Salvate la tigre

Questa piccola operazione che sto per descrivere è stata resa possibile solo dalla confluenza in un'unica persona (cioè io!) delle competenze che riguardavano sia il mondo del cinema cosiddetto Theatrical che quello della fiction di produzione. Da mesi avevo deciso che volevo dedicare un ciclo e rendere quindi un grande omaggio a quel personaggio straordinario che è stato Katharine Hepburn, al tempo stesso grande attrice drammatica e grande attrice brillante. Perciò da tempo controllavo filmografie varie e “lo stato dei diritti” dei singoli titoli, operazione noiosissima ma ineluttabile. A questo punto mi accorsi che esisteva un’opera drammatica interpretata dalla Hepburn di cui a rigori si davano notizie nelle biografie più puntigliose ma che al tempo stesso sfuggiva ad una somma globale. La sintesi mi fu resa possibile per l’abitudine forzatamente professionale a dover controllare sia gli elenchi della produzione cinematografica che di quella televisiva. In sostanza la Hepburn nel 1975 aveva interpretato per la Tv, a fianco di Laurences Olivier, un grande pezzo di teatro intitolato “Love among the Ruins” (Amore tra le rovine). Ma poiché era prodotto per la televisione veniva scartato dagli elenchi propriamente cinematografici. E nessuno dei cinefili aveva mai provveduto a saldare due elenchi non comunicanti. Si trattava, in verità, di un piccolo gioiello diretto da George Cukor, centrato su un anziana attrice denunziata dal suo giovane fidanzato e difesa da un famoso avvocato che da giovane era stato un suo innamorato. “Grande romantica commedia che riunisce per la prima volta due autori leggendari. Debutto in televisione di Cukor a 76 anni. Premi Emmy a tutti e tre” dice il dizionario del mio amico Morando, che gli concede ben quattro stellette. Adesso ne rivendico il merito!

(Battute 1.809)

14 novembre 2012

VISTO CON IL MONOCOLO


Ecco la decima puntata della mia rubrica settimanale apparsa sul Corriere Mercantile 12/11/12. 


10-CON L'INNO DI MAMELI RISCHIAMO LA BOCCIATURA
Una norma approvata al Senato, e già approvata dalla Camera, rende definitiva una disposizione riguardante il così detto Inno di Mameli. E’, in qualche modo, dall’avvento della Repubblica l’inno italiano (anche se non so quando e come questa ufficialità sia stata formalmente ribadita per legge). Ma da oggi è anche materia di insegnamento obbligatorio nelle scuole. Con 208 voti a favore, 14 no e due astenuti la pronuncia del Senato rende definitiva questa decisione. Che naturalmente ha sollevato la prevedibile opposizione della Lega Nord (a cui credo dispiaccia particolarmente il brano in cui si dice “(…) dov’è la vittoria, le porga la chioma, che schiava di Roma, iddio la creò (…)”. E’ quella più inattesa, dell’Associazione Nazionale dei Présidi il cui Presidente Giorgio Rembado parla di “visione ottocentesca” trovando anacronistico e sbagliato che “il Parlamento si occupi dei contenuti dell’insegnamento”. 
Ripeto. Non mi pare un argomento di una decisiva importanza tale da fargli sopportare la lunga trafila legislativa prevista dal nostro bipartitismo perfetto. Tuttavia, visto che perfino i calciatori hanno imparato le parole dell’inno, farne oggetto di studio nelle scuole può ribadire la profonda dipendenza dell’immaginario collettivo italiano dal gioco del football. Su due piedi non saprei dire se e quanti sono gli inni nazionali tutelati dalle leggi dei rispettivi Paesi. Ad esempio la Marsigliese (ammettiamo che la musica di Rouget de l’Isle sia più trascinante di quella del maestro Novaro) è prevista dalle leggi francesi o è solo un simbolo vocale e sonoro di tutto un momento della storia di Francia? E, a parte il profondo radicamento nella tradizione nazionale, quale è l’assetto giuridico che concerne il God Save the Queen (o, secondo i casi, the King)? Lo stesso inno nazionale americano, The Star Spangled Banner, è di fatto ufficiale o solo ufficioso? E altrettanto dicasi per quello tedesco (dove si è conservata la musica ma si è tolto il brano che diceva “Deutschland, Deutschland Über Alles”).
Gli unici che potrebbero ufficialmente compiacersi sono i genovesi, visto il luogo di nascita di Mameli (pur di origine sarda) e di Novaro. Ma non lo farà nessuno.

Claudio G. Fava
(battute 2.198)

N.17 del CORSARONERO rivista Salgariana di letteratura popolare

PERIODICO SEMESTRALE-REDAZIONE C/O BIBLIOTECA CIVICA , VICOLO S. SEBASTIANO, 3-37121 VERONA CONTATTI: ilcorsaronero@delmiglio.it 


Mi è giunto il n.17, settembre 2012, de "IlCorsaroNero". E' una pubblicazione che non solo ricevo regolarmente ma sulla cui copertina (riproduciamo qui il logo con quella che credo sia una famosa caricatura di Salgari ad opera di Pipéin Gamba) figura il mio nome, insieme a quelli di Raffaele Crovi, Mino Milani e Darwin Pastorin, tutti e quattro a titolo di direttori spirituali. All'interno, nella rubrica dal titolo catulliano "Nugae", figura anche un mio articolo su Raffael Sabatini, pubblicato in questo stesso blog, nel mese di marzo 2009 (vedi qui). Si trattava all'origine di una mia lettera a Goffredo Fofi riguardante appunto quel trascurato e straordinario romanziere avventuroso che fu Rafael Sabatini (nativo di Jesi) di cui allora era stato ripubblicato un romanzo famoso, "Scaramouche" (da cui venne tratto un film altrettanto famoso). Nella mia lettera ne parlo a lungo e parlo soprattutto di quello che ne è il seguito (nella versione italiana "La congiura di Scaramouche") che a mio parere è ancora più bello.
Ho approfittato della cosa per rileggere quello che avevo scritto e ho anche apportato qualche minima correzione stilistica al testo. Ma soprattutto la pubblicazione è tornata utile perchè mi concede qui di riproporre il sommario del n.17 che torna tutto a favore del suo industriosissimo direttore, Claudio Gallo.
Ecco il sommario:
Pg.2 EDITORIALE
Pg.3 TESTIMONIANZE: "Il Cavalier Salgari, mio condomino" di Ernesto Ferrero 
Pg.6 LABORATORIO: "Odore di tradimento" di Giulio Gorello; "Marco Buticchi e il segreto della morte di Hitler" di Luca Crovi; "Siano lodati i vampiri oggi o alla moda": intervista con Fabio Giovannini, di Fabrizio Foni; "Salgari e la musica" di Simonetta Sotragni Peruzzi; "Emilio Salgari e i Casalesi. Strane coincidenze e ragionamenti matematici ci trasportano verso una nuova scoperta letteraria" di Mauriozio Sartor; "Valerio Evangelisti, Salgari del Duemila" di Carlo Crescitelli 
Pg.31 STUDI: "Il principe triste che ispirò Salgari. Sconfitte e conquiste dell'avventuroso Duca degli Abruzzi" di Pablo dell'Osa; "Un Duca ai confini del cielo" di Beppe Muraro 
Pg.39 ARCHIVIO: "La vertenza tra il Capitano Cagni e lo scrittore Emilio Salgari" di Claudio Gallo e Caterina Lombardo 
Pg.45 (il già ricordato) NUGAE: "Racconto" di Darwin Pastorin; "In the name of Sabatini" di Claudio G. Fava; "A modo mio. Un alfiere milanese" di Giuseppe Bonomi.  
Inoltre a Pg.52 PROFILI, a Pg.56 NOTIZIE, a Pg.62 Segnalazioni bibliografiche.

Mi auguro che questo sommario possa interessare i lettori del Blog. Se avrò una segnalazione in questo senso lo includerò fra le riviste di sui vorrei pubblicare regolarmente i sommari, contando anche CINECRITICA, edito a cura del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani.

7 novembre 2012

L’OSSERVATORE GENOVESE


VISTO CON IL MONOCOLO

Riprendo qui la pubblicazione della mia rubrica che, con l’occhiello e il titolo sopra citati, appare ogni domenica sul Corriere Mercantile di Genova. Sino ad oggi nel Blog avevo riportato le prime 7 puntate. Quelle che pubblico ora sono le ultime due apparse (per l’esattezza la seconda, e più recente, è stata pubblicata, per ragioni di impaginazione, non alla domenica 4 novembre ma il giorno prima, sabato 3 novembre). Cominciando da oggi numererò progressivamente le rubriche, che in futuro cercherò di trascrivere settimanalmente sul Blog, vale a dire con la stessa cadenza con cui esse appaiono sul giornale.

8 - DA VERO PROVINCIALE, RIFLESSIONI SULLE PROVINCE 

La decisione del governo Monti di ridurre il numero delle Province mi ha lasciato stupito sin dall'inizio  Probabilmente ne sono state istituite troppe, alcune forse inutili. Ma è certo che esse sono intimamente legate alla struttura dello Stato Nazionale, come si venne configurando dalla proclamazione del Regno d’Italia (1861) ed anzi dall’assetto assunto dal Regno di Sardegna dopo la fine del dominio napoleonico. Istintivamente ognuno di noi si è sempre riconosciuto nella provincia in cui è nato o e domiciliato. E sempre, se si menziona un paese o una località che non conosciamo, salta istintivamente in bocca la domanda: “in che provincia è?”. Un’ antica abitudine che non è stata certamente dissolta dall’istituzione ufficiale delle regioni come enti territoriali autonomi (previste dalla Costituzione nel 1948 ma di fatto attuate solo nel 1970). Da allora esse costituiscono un indubbia fonte di larghe spese e, in qualche caso, di clamorose assunzioni clientelari. Ma non mi sembra che nessuno pensi di limitarle o, paradossalmente, di accorparle. Mentre le riforme previste implicano un vero e proprio terremoto amministrativo in confini spesso consolidati da almeno un secolo e mezzo. In Liguria dovrebbero restarne solo tre: Genova e La Spezia ingrandite ed una terza formata da due entità poco affini: Imperia, prevalentemente di colore bianco, e Savona, prevalentemente di colore rosso (quale fra le due città sarà il capoluogo? Si tenga conto del fatto che a sua volta Imperia è nata da una discutibilissima decisione del governo Mussolini: fuse insieme due paesini che profondamente si odiavano, Oneglia e Porto Maurizio). Inoltre, fatalmente, la provincia di La Spezia finirebbe con l’inghiottire altre terre linguisticamente genovesi, oltre quelle che già detiene: Deiva, Framura, Bonassola e Levanto. I provvedimenti allo studio colpiranno due regioni a statuto speciale, Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige, in cui la pressione linguistica e culturale italiana colpevolmente esercitata a suo tempo su popolazioni di altra lingua e tradizione, implica da parte dello stato il dovere di non intaccare le concessioni fatte in questo dopo-guerra.
Mi sembra un gran brutto pasticcio.

(Data di pubblicazione sul Corriere Mercantile: Domenica 28/10/2012).

9 - RAI NON FARE, PAURA NON AVERE.

Circa una settimana fa mi ha telefonato da Roma un funzionario di Rai Uno per invitarmi a partecipare, dalla sede genovese di Corso Europa, ad un collegamento per un’ intervista con una trasmissione intitolata “MixItalia”. Il tema era l’uso del cinema in televisione nel corso degli anni. L’intervista (ovviamente gratuita) mi interessava e risposi di si. Pochi giorni dopo il funzionario, visibilmente imbarazzato, mi ha richiamato per dirmi che aveva appreso di una recente disposizione aziendale: erano proibiti tutti i collegamenti, anche gratuiti, con ex – dipendenti. Si trovava nella stessa situazione anche con Antonio Lubrano e con un altro noto ex - collega, e non sapeva come sostituirli. La notizia era tanto sbalorditiva che lì per lì ho stentato a capirla. Una proibizione del genere dovrebbe colpire potenzialmente centinaia di ex-dipendenti, da Umberto Eco a Furio Colombo da Ettore Bernabei al mio amico Arrigo Petacco che fu per anni caporedattore del Tg1 quando il direttore era il genovesissimo Emilio Rossi, ferito alle gambe in un attentato e ormai totalmente dimenticato dalla Rai. Confesso che la notizia mi ha ferito. Sono assolutamente consapevole, con una punta di civetteria, di far parte di quel manipolo di dirigenti che negli anni’80 ha vittoriosamente salvato gli ascolti di Rai Due. Ho “inventato” e programmato centinaia di film, forse migliaia di telefilm, alcune collocazioni che furono fondamentali, dal “preserale” poliziesco al “cinema di notte”, rubriche come “Dolly” e “Set”, per non parlare dell’enorme incasso pubblicitario di cui ho fatto usufruire per anni  l’azienda, avendo io lanciato la soap opera “Capitol” e scoperto “Beautiful” e “Quando si ama” (molti me lo rimproverano!). Sono anche abituato alla totale mancanza di riconoscenza della Rai nei miei confronti (capita a molti). Ma questa esclusione – che mi ha impedito di parlare di un tema di cui sono storicamente uno dei pochi in grado di occuparsi – mi ha ferito. Se questa è la nuova Rai, ansiosa di riformarsi, ho la sensazione che si avvii ad essere ancor peggio di quella precedente.
So che l’Italia ha problemi più gravi da risolvere, ma anche questo è un sintomo di un irreparabile decadimento.

(Data di pubblicazione Corriere Mercantile: Sabato 3/11/2012).

N.B. : dopo aver scritto il pezzo ho appreso che la disposizione della Direzione Generale può essere alleggerita se chi vuol richiedere l’intervista domanda il permesso almeno 8 giorni prima. La precisazione non attutisce il vago senso di inverosimiglianza che si prova ad apprendere la notizia della proibizione.

A DOMANDA RISPONDE


Rispondo qui tutto insieme, ai post apparsi sul Blog dopo i miei brani pubblicati il 22, il 24 e il 30 Ottobre.
Ringrazio Rosellina Mariani per tutti i suoi vari commenti, sia quello che riguarda la “scomparsa della carta stampata” (interessanti, sullo stesso tema, le notazioni crepuscolari di Anonimo), Preston Sturges, le mie presentazioni su Class TV e la “recensione” di “Mano Pericolosa”. Mi dispiace che, sempre a proposito di Sturges, Rita M. non sia riuscita a leggere il mio brano tratto da “La Rivista del Cinematografo”. Ma credo di avere ceduto alla mia vanità riproducendolo. Sono contento che “Mano pericolosa” abbia destato interesse anche in altri lettori come, ad esempio, il Principe Myskin. Grazie a PuroNanoVergine per le precisazioni tecnologiche e per il suggerimento di chiedere ad Aldo Fittante di riportare l’indirizzo del Blog in fondo alla mia rubrichetta “Salvate la Tigre” su Film Tv. Fittante mi ha risposto che accetta e che d’ora in avanti ci sarà in coda al mio brano la citazione di “Clandestino in Galleria”. Grazie infine a Lucio Linaro a cui ho risposto via e-mail.
In attesa delle prossime telefonate molti saluti a tutti.