Blog - Crediti


L'audio e i video © del Blog sono realizzati, curati e perfezionati da Lorenzo Doretti, che ha anche progettato l'intera collocazione.
L'aggiornamento è stato curato puntualmente in passato da diverse collaboratrici ed attualmente, con la stessa puntualità e competenza, se ne occupano Laura M. Sparacello ed Elisa Sori.

31 dicembre 2013

L' OSSERVATORE GENOVESE


Come al solito riporto nel Blog il mio articolo di domenica scritto per l'abituale rubrica sul "Corriere Mercantile". Mi accorgo adesso che nel testo ho omesso per errore il nome del regista della prima edizione di "The Secret Life of Walter Mitty" che era Norman Z. McLeod. Nato nel 1898 morì a Hollywood nel 1964. Ha meritato anche una stella della celebre "Walk of Fame". 
Fu uno di quei registi praticoni che lavorarono spesso in film di notevole successo soprattutto in America.
E' ricordato anche perché ha lavorato con i Fratelli Marx (per brevità indico solo i titoli originali) e cioè "Monkey Business" (1931) e "Horse Feathers" (1932). Fu uno dei numerosi americani della sua generazione che, poco più che ventenne, combatté in Francia come pilota da caccia della "U.S. Army" durante la Prima Guerra Mondiale.


VISTO CON IL MONOCOLO

WALTER MITTY È SEMPRE DI SCENA

In genere, visto che ho ossessionato i lettori del Mercantile per decenni, tengo fuori il cinema da questa rubrica. Ma oggi c’è un piccolo avvenimento marginale che è tuttavia significativo. Un tempo quando si procedeva al remake di un film, all’epoca importante, si citavano subito e ampiamente titolo, regista e attori della precedente versione. In occasione delle feste è uscito un film diretto e interpretato da Ben Stiller “I sogni segreti di Walter Mitty” (“The secret life of Walter Mitty”), ma solo tardivamente e occasionalmente stampa e televisione hanno ricordato che è appunto un remake (anzi un doppio remake). Tratto da un racconto del 1939 di James Thurber famoso disegnatore e umorista del New Yorker, il personaggio di Walter Mitty che lo anima è diventato un simbolo nei paesi anglosassoni (“un personaggio con la psicologia di Walter Mitty…”). In realtà è un piccolo uomo, un correttore di bozze,  attraversato dalla voglia di diventare simile ai grandi personaggi della mitologia avventurosa. La sua figura venne affidata nel 1947 a Danny Kaye (1913-1987). Kaye, un po’ attor comico un po’ parodista musicale, fu negli anni ’40 e ’50 un idolo americano, grazie, anche, alla sua capacità di recuperare lingue e motivi famosi. Fu popolare anche in Italia: il suo frenetico eloquio era in generale “tradotto” dal grande doppiatore Stefano Sibaldi. All'epoca il film non piacque molto a James Thurber (capita spesso agli scrittori con film tratti da loro opere), ma piacque al pubblico. Walte Mitty, grande pilota, che incollava personalmente sulla sua carlinga i simboli con la svastica per accreditarsi un nemico abbattuto, divenne celebre. Si capisce come in un mondo periodicamente dominato dalla civiltà delle immagini, la figura di Walter possa essere riproposta, come accadde con “Sogni mostruosamente proibiti” del 1982 dove il personaggio di Mitty incontrava quello di Paolo Villaggio, con l’inevitabile regia di Neri Parenti, in un abbinamento sulla carta assolutamente giustificati. Non so quel che potrà valere il film di Ben Stiller ma non vi è dubbio che nella ritualità celebrativa nel film si ritrovino due antichi miti del cinema: il divismo celebrativo e il divismo parodiato.


24 dicembre 2013

L'OSSERVATORE GENOVESE

Come d'abitudine solita pubblicazione della mia rubrica domenicale sul "Corriere Mercantile". Mi fa piacere che sia stata l'occasione per pubblicare una fotografia di Daniele Varé, diplomatico e scrittore ormai largamente dimenticato, ma famoso quando io ero un ragazzo. Le sue testimonianze sulla Cina (una Cina totalmente d'altri tempi sono godibilissime ancora oggi, soprattutto se si tiene conto di che cosa era quel paese un tempo, quando appunto Varé gli dedicò il romanzo "Il creatore di celesti pantaloni"). Buon Feste a tutti.

VISTO CON IL MONOCOLO

PER SCRIVERE IN FRANCESE UNA BOTTIGLIA COL TAPPO
La maggior parte delle grandi società non ha più un amministratore delegato ma un CEO (Chief Executive Officer). Perché per delle ditte italiane, venga usato un termine strettamente americano non è detto. Ma è implicito del fatto che quel che viene citato in inglese sembra automaticamente più credibile che in italiano. Un atteggiamento su cui si sono gettati tutti voracemente, con i politici in primo piano. Perché dire “Election Day” invece di “Giorno delle Elezioni”? Perché “Spending Review” invece di “Esame della Spesa”? Rimando al futuro un elenco delle assurdità bilingui che ci infettano. Le ho evocate per ribadire il passaggio definitivo, in Italia, di una lingua straniera di cauzione. Un secolo fa il francese era da noi quel che è ora l’inglese. E andava bene per tutte le occasioni (un elegante negozio genovese si chiama da sempre “Montres & Bijoux”. Significa “Orologi & Gioielli”). Uno straordinario e precedente storico è stato ricordato da Daniele Varè ne “Il diplomatico sorridente”: ai primi del maggio 1915 al Ministero degli Esteri si pose il problema urgente di preparare un’accettabile dichiarazione di guerra. La quale doveva essere, ovviamente, redatta in francese (era impensabile dichiarare la guerra all’Austria in italiano o in tedesco: sarebbe stato un gesto sconveniente e maleducato). Ma al Ministero ci si chiese: chi era in grado di maneggiare il francese in modo adeguato? Tutti risposero: “il Marchese Fassati di Bàlzola”, ormai in pensione (mi sembra fosse lui e se no era un altro Marchese: in carriera all’epoca erano quasi tutti nobili). Una sera Fassati venne convocato, e gli fornirono i necessari documenti informativi. Lui accettò e poi disse: “Voglio una bottiglia”, “Una bottiglia?”. “Si, col tappo”. Il personale di servizio trovò la bottiglia col tappo e il Marchese andò dal caffè Aragno a farsela riempire di caffè caldo. Poi andò a casa e per tutta la notte redasse la dichiarazione di guerra. Al mattino un usciere venne a ritirarla. “L’Italia” scrisse Varè “andò in guerra e il Marchese andò a letto”.

Vent’anni dopo tutti si dichiararono guerra nella lingua che preferivano. Il francese di Luigi XIV era morto. In un angolo c’era l’inglese.

17 dicembre 2013

L' OSSERVATORE GENOVESE

Con un po' di ritardo pubblico la solita rubrica domenicale sul Corriere Mercantile. A proposito della quale ho ricevuto una gentile e-mail di Alessandro Lombardo, Consigliere Scientifico della Fondazione Ansaldo. Gli ho chiesto l'autorizzazione di pubblicarla nel Blog e se me la darà avremo occasione di ritrovarci.
Spero, a presto.

VISTO CON IL MONOCOLO

QUANDO GENOVA ERA GRANDE

Bene ha fatto Maurizio Maggiani a cogliere il senso di incredibile tristezza che viene dalle immagini dell’Ansaldo così come sono state di recente rievocate in una mostra fotografica allestita a Genova. Si respira in quel che ha scritto lo stupore nel ritrovare l’immenso passato industriale di una città ormai completamente scomparsa. Ma il suo stupore è forzatamente quello di un uomo che ha conosciuto Genova da adulto, già intaccata da una totale decadenza. Egli (come Arrigo Petacco) è nato a Castelnuovo Magra, simpatica cittadina che mi è cara perché per tante estati sono andato a presentarvi dei film diventando amico di due inarrivabili animatori culturali locali, Giorgio Baudone e Paola Moro (nella biblioteca comunale c’è anche un “fondo” a mio nome!). Ma per chi a Genova è nato e cresciuto l’emozione ancora più grande è la tristezza ancora più acuta. Nel giro di pochi decenni abbiamo assistito non solo alla scomparsa di una classe operaia che fu tipica in Italia ma anche a quella di più generazioni di imprenditori che, fra pregi e difetti, erano stati fra i protagonisti della storia non solo nazionale ma anche europea. Giorgio Calabrese, uno dei più famosi parolieri italiani (da Bindi a Mina a Aznavour), quando da giovane cercava di diventare un agente marittimo andava a giocare a bocce alle Mura dello Zerbino per poter incontrare così qualcuno dei grandi armatori del tempo. Questi (che avevano capito tutto) o gli dicevano: “guardi non è il caso” oppure si lasciavano andare: “so che ha qualcosa in testa me lo dica”. Lui faceva la sua proposta (un carico così e così, per il tale porto, dal tale giorno) e loro, il comportamento era eguale in tutti, ci pensavano un po’ e poi dicevano “No” e allora il discorso era fermamente chiuso. Oppure “Si, si può fare”. “Capisci” mi diceva Calabrese, “avrebbero fatto partire sulla parola di un ragazzo di venti anni, una nave da carico che valeva milioni e rendeva milioni”. E se io dicevo: “ma, Commendatore, e per il denaro?” la risposta era: “passi poi con comodo in ufficio”. Sono vissuto al Mercantile ai tempi di Ernesto Fassio e so di cosa parlo.
Dove sono finiti gli eredi di Rubattino, di Gaslini, di Piaggio, dei Perrone che fabbricarono i cannoni del 1918? So che non so rispondere.

(battute: 2.262)

9 dicembre 2013

NOTA INTEGRATIVA DELLA MIA RUBRICA PUBBLICATA SUL MERCANTILE

Qui di seguito troverete alcune precisazioni, le quali fanno riferimento al testo (pubblicato successivamente a queste righe introduttive a causa del meccanismo grafico proprio del Blog). Nell'originale mi stupivo della pronuncia sdrucciola di Cuperlo ma non avevo spazio per approfondire il tema (a causa del solito sbarramento delle 2.200 battute).

In realtà ho fatto qualche ricerca in internet e mi sono accorto che altri hanno avvertito la stessa perplessità. Vi è chi ha avanzato l’ipotesi che sia frutto dell’italianizzazione dello sloveno “Koper” o del croato “Kuper”, cioè Capo d’Istria. Altri pensano che l’originale fosse un cognome ungherese, anch’esso italianizzato a forza, come capitò largamente a Trieste durante il fascismo. In ogni caso l’unica città in cui si trova il cognome Cuperlo sembra sia proprio Trieste, dove l’uomo politico è nato.
Per quel che riguarda la collocazione come attore in uno sceneggiato seriale, bisognerà precisare che pensavo a qualche prodotto medio di Rai Uno, con la tradizionale mescolanza di scrupolo ma anche di approssimazione etnologica nell’attribuzione delle parti agli attori. La citazione di Dollmann come potenziale “rimando” a Gianni Cuperlo “attore” potrà sembrare maligna ma in realtà nasce solo dal desiderio di trovare un’attendibile equivalente “romanzesco”. Eugen Dollmann (1900-1985) fu in effetti un personaggio curiosissimo, confinato tutt’ora in una sorta di nube storiografica, in cui si mescolano realtà e fantasia. Sembra che all’origine non fosse particolarmente nazista (fra l’altro non aveva mai prestato servizio militare) ma è certo che Hitler lo nominò “standartenführer”, cioè Colonello delle SS, a quanto sembra conquistato dalle sue conoscenze della storia italiana, e in particolare della storia dell’arte. In origine si dice che si sia  laureato in filosofia, come lo è invece sicuramente Giuseppe Civati detto Pippo, il quale ha appunto conseguito il dottorato di ricerca, e in particolare sembra si sia prevalentemente preoccupato di filosofia risorgimentale. Ho terminato il mio articoletto dicendo che chiunque avesse vinto avrebbe comunque vinto il monoscopio, cioè l’immagine televisiva fissa che un tempo imperversava nel piccolo schermo e che probabilmente i più giovani non hanno mai visto. Non ci voleva molto a pronosticarlo: Renzi ha imperversato televisivamente da diversi mesi a questa parte, ed il meccanismo di “pescaggio”, tipico in casi del genere, è ancora una volta una riprova della fondamentale e decisiva importanza di una immagine micidialmente ripresa dal “piccolo schermo”.

L'OSSERVATORE GENOVESE

Abituale operazione del lunedì mattina per inserire nel Blog la mia rubrica domenicale sul Corriere Mercantile. Dato che, forse più di altre volte, la necessità di costringere il testo entro la gabbia delle 2.200 battute mi ha obbligato ad omettere qualche annotazione particolare, mi sono preoccupato di redigere, appunto nell'interesse stesso del Blog, una precisazione ed una conclusioni finali. 
Cordiali saluti a tutti

VISTO CON IL MONOCOLO

GLI UOMINI POLITICI E IL PASSAGGIO IN TV
Per ovvi motivi ho sempre tenuto la politica fuori dalla rubrica. Oggi faccio quella che potrà apparire un’eccezione, ma in realtà non lo è: solo un (ulteriore) riconoscimento dell’importanza decisiva della televisione nella nostra esistenza. In giornata (dalle 8 alle 20) avranno luogo le elezioni per l’assemblea nazionale e, soprattutto per il futuro segretario del PD. Io non ho mai avuto rapporti di nessun genere con il Club a cui i candidati sono iscritti, per cui le mie osservazioni nascono dal mio lungo passato di spettatore e di piccolo protagonista televisivo. In occasione dell’apparizione di Civati, Cuperlo e Renzi su Sky venerdì 29 Novembre bene ha fatto una vecchia conoscenza come Aldo Grasso (noto critico tv del Corriere della Sera) a recensire l’avvenimento al pari di ogni altra importante trasmissione in rete, dando ad ognuno di essi un triplice voto per “stile”, “linguaggio” e “contenuti”. Chi li ha visti “in scena” avrà colto l’estrema “normalità” televisiva del loro linguaggio e del loro comportamento. Consapevolmente o no essi si sono mossi con la precisione minuta e il calcolato abbandono di persone profondamente modellate dal piccolo schermo degli ultimi decenni. Hanno rivelato l’automatica dedizione degli attori di uno sceneggiato seriale. Il più anziano, Cùperlo (perché sdrucciolo?), anni 52, avrebbe potuto benissimo essere, ad esempio, un raffinato e colto gerarca nazista (ve ne sono stati alcuni) in stile Eugen Dollmann, ambigui testimoni di un impero in decadenza. Dei due “giovinetti” (hanno entrambi 38 anni) l’uno , Matteo Renzi, in preda alla obbligatoria disinvoltura dei toscani, fa pensare, per l’aggressiva scorrevolezza dell’eloquio, ad uno di quei protagonisti delle vendite “totali” di beni di consumo, tipiche un tempo delle grandi televisioni private. L’altro, Pippo Civati, appare totalmente progettato in funzione del piccolo schermo: barba disseminata, capelli controllati, gesti rattenuti. Due hanno accenti settentrionali e Renzi, ovviamente, quello fiorentino, quasi a prendere le distanze, con palese alibi culturale, dalle tonalità romano-meridionali di tanta televisione “bassa”.

Chiunque vincerà avrà comunque vinto il monoscopio.

3 dicembre 2013

L' OSSERVATORE GENOVESE

Solito rito del giorno dopo (questa volta sono due giorni dopo!) con la pubblicazione nel Blog della puntata domenicale della mia rubrica sul "Corriere Mercantile".
Approfitto dell'occasione per far presente a tutti quelli che hanno scritto (son ben 9) a proposito del mio ricordo di "Chicco" Pavolini (Savio), che prossimamente risponderò a tutti. In particolare faccio presente a Giulio Fedeli che il vecchio amico Baldo Vallero, per anni una colonna della cinefilia torinese, mi ha scritto proprio l'altro giorno per avere informazioni su un film di Helmut Käutner del 1946, uscito poi nel 1947 nella zona inglese della Germania post-bellica.
Come si dice, il mondo è piccolo.
Faccio anche presente a tutti che dei tre libri che mi hanno ossessionato in questi ultimi tempi, due sono di fatto terminati e consegnati agli editori (ci vorrà qualche piccola correzione ma si tratta di cose secondarie rispetto alla mole complessiva delle opere). Il terzo libro è tuttora "in lavorazione", e mi porterà via ancora molte ore di lavoro.
Tutto sommato dovrei disporre di più tempo libero per dedicarmi meglio al Blog, che negli ultimi mesi ho un po' trascurato.
Molti saluti a tutti.

VISTO CON IL MONOCOLO

I CALCIATORI COSTEGGIANO TUTTA LA NOSTRA VITA
Ancora una puntata di devozione calciofila (chiedo scusa in anticipo a Rosellina). Mi è capitato per caso di vedere un elenco dei 16 migliori marcatori (di reti) di tutti i tempi in serie A. E ho scoperto, a riprova della mia vecchiezza, che li avevo visti giocare tutti (i più anziani sul campo, altri in televisione. A riprova della misteriosa fascinazione che il calcio ha sempre esercitato sul maschio italiano medio (adesso anche su molte donne, giornaliste sportive comprese). Il primo in classifica è Silvio Piola (1913-1996) con 274 reti. Seguito da Francesco Totti (230), da Gunnar Nordhal (225), dal grandissimo “Peppino” Meazza (1910-1979) con 216 reti (meriterebbe un poema lui da solo). Vengono poi Altafini (216), Baggio Roberto (205), Kurt Hamrin (190), Signori (188), Del Piero (idem), Batistuta (184), Di Natale (180), Boniperti (178), Amadei (174), Savoldi (168), Gabetto (167) e Gilardino (165), uno dei pochi ancora in attività ed attualmente al Genoa. Il grandissimo Piola ha avuto una carriera così lunga che ho fatto ancora a tempo, nel primo dopo guerra a vederlo giocare nella Juventus e nel Novara. Le sue lunghe gambe prensili, quel suo stare con le spalle alla porta, la grande forza fisica e al tempo stesso l’estrema furbizia gli consentirono di giocare ad alto livello sino ai 40 anni. Totti è cosa ancora del giorno d’oggi, nota a tutti. Nordhal (ci rivelò l’eccellenza del calcio svedese di allora, insieme a Gren ed a Liedholm) impressionò per la forza fisica e la violenza del tiro, sintomi della buona salute fisica tipica di una giovinezza che non aveva conosciuto la guerra. E poi, via via tutti gli altri, ognuno dei quali è carico di una notevole quantità di ricordi, spesso legati ad un’Italia lontanissima e scomparsa. Da Boniperti che ho visto esordire (ha un anno più di me), straordinario insieme a Sivori ed a John Charles, ad Amadei, morto da pochi giorni (il 24 Novembre). Ricordo la sua voce al Ferraris che pregava i tifosi di fare un’offerta per chi era colpito dall’alluvione del Polésine, che egli ingenuamente pronunciava Polesìne. 
Da questi nomi, come da quelli di tanti registi molto amati, sento scaturire buona parte della mia esistenza.



27 novembre 2013

MA L'AMORE NO

Un omaggio che nasce dal cuore in memoria del caro amico Francesco Savio (Pavolini) detto "Chicco".

Cercando di mettere ordine nella mia bibliotechina casalinga, e via via schedando libri che non avevo mai neppure pensato di schedare, saltano fuori sorprese di ogni tipo. Alcune graditissime. Ad esempio pochi giorni fa mi è tornato tra le mani, dopo decenni, un libro di cinema molto importante, sia per l’argomento e il modo di trattarlo che per il rilievo assunto per la personalità dall’autore. Si tratta di un libro che è opera di un amico. Si intitola “Ma l’amore no”, edito da Sonzogno nel 1976, ed è corredato da un sommario giustamente esplicativo che dice: “Realismo, formalismo, propaganda e telefoni bianchi nel cinema italiano di regime (1930-1943)”.
Il libro non è soltanto, come ho scritto prima, molto importante ma è anche una testimonianza toccante di una presenza al tempo stesso amichevole e tragica. E cioè quella del suo autore, Francesco Savio (1923-1976), che me lo volle dedicare con una frase esageratamente lusinghiera: “al mio amico e maestro” firmata: “Chicco”, che era il diminutivo con cui solitamente lo chiamavano gli amici ( lo obbligai anche ad aggiungere alla dedica il mio nome e cognome, altrimenti la frase sarebbe parsa quasi incomprensibile) Chicco era appunto un personaggio straordinario, segnato da una fine terribile e proveniente da una famiglia su cui la tragedia si era già accanita. Il cognome Savio fu una sua invenzione per non usare quello vero che egli odiava ( me lo disse una volta: “Non usare quel cognome che io detesto”). In effetti si chiamava Pavolini ed era il figlio di Corrado Pavolini (1898-1980), che fu poeta (lo si avvicinò addirittura a Cardarelli), saggista,autore teatrale e sceneggiatore cinematografico. Penso sia stato fascista come quasi tutti nell’ambiente letterario e giornalistico dell’epoca, ma senza fanatismi. Il fanatico, in realtà, in famiglia c’era e fu quell’Alessandro Pavolini (1903-1945), fratello minore di Corrado, squadrista della prima ora ma anche scrittore elegante e colto che, in un soprassalto mortale di incontrollata faziosità, divenne durante la repubblica di Salò segretario del Partito Fascista Repubblicano. E fu fondatore di quelle Brigate Nere che della Repubblica sono state le truppe moralmente meno difendibili. La ventata rabbiosa di aggressiva ferocia che contraddistinse soprattutto la parte finale della vita di Alessandro Pavolini è rappresentata da mille avvenimento e da un “piccolo” aneddoto famigliare. La moglie di Corrado, e quindi la madre di Chicco, era ebrea e si chiamava Marcella Hannau (lavorò, poi, con lui, che ne era Caporedattore, in quella pubblicazione preziosa e purtroppo dissolta, che fu l’”Enciclopedia dello Spettacolo”). Nel 1944, ovviamente prima dell’arrivo degli alleati a Roma, Corrado Pavolini scoperse che Alessandro aveva in animo di fare arrestare la cognata (madre di Chicco) appunto perché era ebrea. Allora, secondo quello che mi raccontò egli stesso, suo padre chiamò il fratello al telefono e gli disse: “Ho saputo che vuoi fare arrestare Marcella. Facciamo una cosa: vieni in casa nel primo pomeriggio e troverai lei, me e i miei due figli, che sono i tuoi nipoti. Così potrai farci arrestare tutti insieme”. Evidentemente davanti ad una frase del genere perfino ad Alessandro Pavolini tornò momentaneamente la ragione e rinunciò all’arresto. Questo terribile passato aveva così profondamente segnato l’animo e la mente di Chicco che egli cercò in ogni modo di far dimenticare il suo vero cognome (non tutti, evidentemente, in famiglia hanno avuto la stessa sofferente sensibilità. Suo fratello Luca, conservando senza problemi il cognome Pavolini, fu un militante comunista ed arrivò sino a dirigere l’Unità dal 1975 al 1977). Infatti  Chicco (dopo aver frequentato l’Accademia e tentato la carriera d’attore) si rese noto come, critico e storico del cinema di alto livello appunto con lo pseudonimo di Francesco Savio. A questo titolo curò la Mostra di Venezia, alcune delle più belle retrospettive dell’epoca (in un mondo senza DVD e senza Youtube migliaia di film potevano essere visti solo dai fortunati frequentatori di Cineteche o presenti in alcune specifiche e preziose manifestazioni internazionali). E più largamente dedicò al cinema una minuta, semi-nascosta e straordinaria opera di analisi e di recupero. Moltissime sono le pubblicazioni e i temi che egli curò e sviluppò, mi limiterò a ricordare “Cinecittà anni Trenta” (nata dalla stessa ricerca che portò alla creazione del libro di cui sto parlando) quando negli anni ‘70 intervistò praticamente tutti i superstiti del cinema italiano del passato, lasciandoci una documentazione senza pari, frutto di scrupolo filologico ma anche di grande passione di parte. Oppure nella stessa ottica di ricerca uno straordinario libro in cui analizzò, gesto per gesto e movimento per movimento, molti film di Chaplin del periodo iniziale della carriera, per i quali non esistevano “trascrizioni scritte”. Furono mesi di furiosa solitudine davanti alla moviola negli uffici londinesi del British Film Institute (al punto che durante un periodo di ferie gli lasciarono addirittura le chiavi di un appartamento con tutti i tesori cinematografici contenuti). I suoi meriti per anni furono conosciuti e apprezzati soprattutto dagli appassionati, fino a quando, verso la metà degli anni ’70 raggiunse finalmente la notorietà che meritava, grazie ai suoi libri ed al fatto che ha ottenuto la rubrica cinematografica di un importante settimanale. Proprio in quel momento, nel 1976, egli si uccise. Se le notizie dell’epoca furono esatte lo fece con una decisione particolarmente sinistra, insinuando la testa nel forno a gas della cucina. Quasi a ribadire la vocazione mortale che avvelenava la famiglia, pochi mesi dopo si uccise anche sua moglie (che non ho mai conosciuto). Un particolare sinistro è che Chicco aveva evidentemente così a lungo meditato la sua morte al punto di preparare (ed evidentemente pagare, visto che venne pubblicato) il suo necrologio per il “Messaggero”. Esso cominciava con una frase spaventosa: “oggi Francesco Savio ha scritto la sua ultima recensione”…
Potrei continuare con i ricordi. Ad esempio ho visto al suo fianco, per diverse sere, nella sede romana dell’ANICA, tutti i documentari che il giornale LUCE aveva dedicato al fascismo: da quello, se ricordo bene ancora muto, sul matrimonio di Galeazzo Ciano con Edda Mussolini alle ultime puntate nell’estate del 1943: all’epoca la televisione non dispensava molto materiale del genere e quell’occasione, dovuta ad una benemerita iniziativa di Ernesto G. Laura, rimase indimenticabile per gli appassionati di recente storia italiana. Ma mi limiterò qui a parlare di quel suo libro, “Ma l’amore no” di cui ho fatto cenno all’inizio. Credo doveroso ricordare per i più giovani che era anche soprattutto il titolo di una famosa canzone che provocò molte lacrime (anche le mie, di studente di terza media, nel 1943, sfollato ad Arezzo) fra gli spettatori di un film del 1942 di Mario Mattoli, all’epoca notissimo: “Stasera niente di nuovo”. Interpretato da Carlo Ninchi e da Alida Valli, che in quell’occasione si improvvisò anche cantante, il film resta un esempio molto importante della quadrilogia di Mario Mattoli detta dei “film che parlano al vostro cuore” . Gli altri titoli erano “Luce nelle tenebre”(1941), “Catene invisibili”(1942), “Labbra serrate”(1942). Giustamente Chicco scelse quella canzone tipica, scritta da Giovanni D’Anzi (quello di “Oh mia bella Madunina”) come implicito riassunto di tutto un lungo momento della storia del cinema sonoro italiano, iniziato con “La canzone dell’amore” (1930) di Gennaro Righelli e terminato sostanzialmente con l’armistizio dell’8 settembre 1943. Come ribadisce lo stesso Savio “fra il 1930 e il 1943 sono stati prodotti in Italia- ma girati talvolta a Berlino, a Parigi, e in Spagna- 722 film a soggetto”.  Di fatto tutto un mondo (del cinema ma anche dell’Italia) si esaurì in quei 13 anni. I film censiti da Francesco Savio sono 720. Per 228 di essi i “dati tecnici sono stati desunti alla moviola dai titoli di testa, e cioè dalla stessa copia, positiva o negativa, nitrata o ininfiammabile”. Un lavoro enorme che consentii all’autore di fornire un quadro straordinariamente completo dei dati tecnici e artistici di ogni film e che poteva essere compiuto, di fatto di persona, sugli originali dell’opera. Un’ operazione che riusciva possibile a un numero relativamente basso di privilegiati. Pertanto nel libro i singoli film si trovano incolonnati in ordine alfabetico con note d’ambiente e critiche d’epoca.
Il che significa che, in ordine alfabetico da “Abbandono” (1940) di Mario Mattoli (con Corinna Luchaire, Maria Denis, Camillo Pilotto, Enrico Glori, Osvaldo Valenti) a “La zia smemorata di Carlo” (1941) di Ladislas Vajda (con Dina Galli, Osvaldo Valenti, Carlo Campanini), c’è tutto un mondo. E, soprattutto tutta l’Italia, che va da quella di Benito Mussolini, quasi ancora con le ghette, a quella dell’8 settembre, con lo stesso Mussolini rinchiuso all’Hotel Campo Imperatore, sul Gran Sasso, e Vittorio Emanuele III e Badoglio incolonnati per imbarcarsi, dopo la sosta a Crecchio presso i Duchi di Bovino,  sulla Corvetta “Baionetta” a Ortona a Mare, e raggiungere Brindisi. Il bello, il brutto, il banale, il servile, l’ovvio, il furbesco ma anche l’ingegnoso e il (quasi) geniale, che animarono il cinema italiano durante quei tredici anni decisivi sono tutti riassunti qui. Basta sfogliare il libro per provare un’emozione speciale e particolare. Che non riesco a restituire perché dovrei qui allineare decine se non centinaia di titoli. Operazione che non intendo fare adesso (non escludo di recuperarla in futuro, se vi fossero specifiche richieste dei lettori).
Il libro non avrebbe senso senza la sottile, raffinata, appassionata personalissima lunga introduzione di Francesco Savio, che si estende in corpo piccolo per più di venti pagine. Analizzarla tutta sarebbe affascinante ma troppo esteso, c’è anche un toccante rinvio ad una dolorosa storia di famiglia: suo nonno, Paolo Emilio Pavolini fu un famoso filologo e linguista, padrone di moltissimi idiomi dal Sanscrito al Finlandese. Membro dell’Accademia d’Italia lasciò la famiglia per una giovine e bella ragazza nordica e consegnò al nipote la sua tessera di libero ingresso in tutti i cinematografi d’Italia “per S.E. ed accompagnatori”: grazie ad essa Chicco portava al cinema tutti i compagni di classe. Parlava del nonno con grande tenerezza: “un’estate- mi disse una volta- volle insegnarmi il malese delle isole. Per quel che riguarda la decisiva introduzione al libro mi limiterò a riportarne qui le prime righe, che danno già il senso di quelli che erano l’animo e la tecnica, l’intenzione e l’applicazione di un autore raro e (tragicamente) solitario. Ecco dunque:
“Certo giorni mi chiedo se è decente parlare di un film senza averlo toccato almeno una volta, senza averne aspirato il profumo, o fatto pila delle sue bobine. Mi chiedo, anche, se non basterebbe aprire al pubblico le Cineteche, e tenervi delle visite guidate: a sinistra, secondo scaffale, il negativo di Darò un milione; a destra il controtipo positivo di Giacomo l’idealista e di Ragazzo. A misura che il tempo trascorre, ed i film cosiddetti da museo mi diventano d’anno in anno più fraterni, godibili e attuali, tutto questo gran discorrere del cinema come d’un fenomeno inscindibile dal suo contesto storico mi arreca un crescente imbarazzo. Eccoli, i film, verebbe da esclamare: sta tutto chiuso la dentro, nelle spire ravvolte intorno al “nucleo”. Non domandate loro altro segreto, se non quello custodito dall’emulsione. Ma è pur vero, e bisogna riconoscere, che un ombra delle antiche proiezioni resta come inchiodata ai fotogrammi (non so: la “coda” di un Giornale-Luce, di un Topolino o di un prossimamente); e che i film di una data temperie serbano l’eco, affievolita e impropria, di un costume, di un clima, di un gusto”.

Già da questo incipit si può cogliere l’impasto profondo di slancio poetico e di amore “tecnico” che reggevano la cinefilia di Chicco. In un’epoca in cui, non esistendo l’immenso mondo digitale, e con una televisione che stava appena abbandonando l’avarizia in fatto di cinema, il gusto fisico di maneggiare, scrutare, “aggiustare”, far scorrere la pellicola (“I film- aveva l’abitudine di dire- si vedono da soli e in moviola”) era determinante. E, come accadde con lui, lo strumento per far vibrare appunto intorno all’immagine l’infinito tremore della poesia.

25 novembre 2013

L'OSSERVATORE GENOVESE

Abituale recupero, al lunedì, della mia rubrica domenicale sul Corriere Mercantile. L'accusa di essere un "Laudator temporis acti" è una di quelle in cui più facilmente si incorre superata una certa età. Sarei curioso di sapere quali sono le opinioni dei lettori. Cordiali saluti a tutti.

VISTO CON IL MONOCOLO

FORSE È VERO /CHE È MEGLIO IL PASSATO?
Circa venti secoli fa Orazio, fra le tante cose geniali, diede anche origine ad un’espressione divenuta immortale. Un vecchio, egli scrisse, è assediato da molte insidie, opera timidamente, rimanda tutto e diventa “laudator temporis acti, se puero”. Cioè loda il tempo andato, quando era fanciullo, e depreca quello presente, sempre deludente. Ci cadono tutti i vecchietti, ed io come gli altri. Ma mi chiedo spesso se non abbiamo ragione a lodare il bel tempo che fu, in presenza dello sfascio totale che ha investito l’Italia di oggi quasi ad ogni livello (e, per venire a Genova in particolare, al dramma della AMT, che mentre scrivo queste righe, sta formalmente arrestando la città intera). Forse è per questo che ho cominciato a pensare al passato con maggior lucidità. Nel dopo guerra (io ho assistito a comizi di entrambi) De Gasperi e Togliatti divisero l’Italia con un’asprezza totale, contrapponendosi con una durezza che, vista adesso, restituisce ai due uomini una nobiltà shakespiriana: l’uno decisivo per il dopoguerra italiano, l’altro appesantito da un passato terribilmente ambiguo. Ma entrambi, a rivederli adesso, attori di primo piano di una immensa tragedia mondiale. Per venire più vicino a noi, ripenso a due uomini politici genovesi, che nello stesso modo furono nettamente contrapposti: Gelasio Adamoli (sindaco dal 1948 al 1951), Vittorio Pertusio (sindaco dal giugno 1951 al maggio 1960 e poi dal febbraio 1961 al febbraio 1965). Visti allora sembravano lodevoli ma modesti politici di provincia. Ripensati adesso acquistano una statura straordinaria, per quello che hanno rappresentato e per quello che sono riusciti a fare a Genova. Adamoli, (nato a San Potito Ultra, Avellino, cresciuto a Teramo, laureato a Genova e divenuto profondamente genovese nonostante un volto che faceva pensare ad un attore messicano d’epoca) si impegnò molto per la ricostruzione della città, e in particolare del Carlo Felice. Pertusio, avvocato brillante e simpatico, fu in realtà un amministratore di alto livello (si pensi alla Sopraelevata, che bene o male ha salvato la città, o a Corso Europa). Entrambi, rivisti adesso sembrano quasi due giganti.
O sono laudatore del tempo passato?

18 novembre 2013

A DOMANDA RISPONDE

Molti i commenti giunti dal 26 Settembre ad oggi. Ho cercato di rispondere a tutti. Nella lunga parte finale del mio testo troverete un mio sfogo, forse un po' ridicolo, a proposito dei miei "meriti" Rai su cui alcuni degli scriventi si soffermano affettuosamente ma che, a suo tempo, trovò nell'azienda una indifferenza totale, fra lo sprezzante e il crudele


Sono contento di vedere che è piaciuto il ricordo di Vincenzoni. Ringrazio Simone Storace per la segnalazione del link su cui vedere un’intervista con il nostro amico Luciano:


Ringrazio anche S.G, per l’indicazione del sito su cui ascoltare due puntate di Hollywood Party:

Passiamo ai commenti pervenuti il 27 Settembre. Sia Rosellina che Enrico hanno apprezzato la lettera di Pier (Luigi Ronchetti). L’idea che “la classe operaia va in Paradisino avrebbe strappato un sorriso anche a Volonté” mi sembra divertente, tenuto conto della programmatica cupezza del volto dell’attore. Un particolare su di lui mi ha sempre colpito. Egli è stato giustamente (forse a volte anche per motivi politici) molto popolare in Francia. Tante volte mi sono sentito dire: “un acteur italien que j’aime beacoup c’est Djan Maria Volònte”. Sempre il mio interlocutore faceva un terribile sforzo per non accentare l’ultima sillaba dell’ultima parola, pronunciandola appunto come se fosse stata scritta “Volònte” con l’accento sulla “o”. Non so perché ma questo errore, in gente che normalmente pronuncia tutti i cognomi italiani con l’accento sull’ultima sillaba (Mussolinì, Rossellinì, Paolorossì,), veniva compiuta sempre da tutti. Io mi affannavo a ripetere: “Il faut le prononcer Volonté, exactement comme le mot français” ma nessuno mi dava mai retta.
Passiamo adesso ai commenti del 4 ottobre. Vedo che tutti gli intervenuti (il Principe Myskin, Rosellina, Giorgio, Enrico e Luigi Luca Borrelli) hanno apprezzato l’omaggio a Giuliano Gemma. Faccio osservare al Principe che il grado di Gemma nel “Deserto dei Tartari” era probabilmente quello di “maggiore” e non quello di “maresciallo”, che è il grado più ambiguo di tutta la carriera militare. Perché può indicare sia il più elevato dei sottufficiali che il più elevato degli ufficiali. Talmente elevato che in molti eserciti non esiste neppure. Ad esempio da noi non c’è più il grado di “maresciallo d’Italia”, che fu tipico di Badoglio, Graziani, Messe, eccetera. Questo duplice significato giustifica un’arguzia che mi raccontava sempre mio padre. Quando, nella sua cittadina natale di Finale Ligure, il maresciallo Caviglia (forse il miglior generale italiano in assoluto) si recava alla stazione per prendere un treno, il locale maresciallo dei carabinieri vi si precipitava a sua volta per rendergli omaggio. E Caviglia lo salutava dicendo: “Buon giorno collega”. Fine dell’aneddoto militare.
Per quel che riguarda il 7 di ottobre ringrazio Rosellina, che è sempre troppo affettuosa e Giorgio. Per quel che riguarda il 9 di ottobre vedo che tutti (Rosellina, Eugenia Tarchini, Giorgio, Rita M. e Enrico) hanno gradito l’omaggio a Lizzani. Enrico ha rievocato la terrazza del Lido di Venezia. Presumo sia quella dell’Excelsior, dove ho passato tante ore e dove ho partecipato a diverse trasmissioni. Sono frammenti di un’esistenza, personale e professionale, che, per darmi in qualche modo una giustificazione, mi sforzo di ritenere che non sia stata completamente inutile.
Venendo ai commenti del 9 di ottobre ringrazio alcuni dei fedelissimi (Rosellina, Enrico e Rita M.) che hanno gradito l’omaggio a Marchesi. In particolare per quel che riguarda Marchesi e quel che Rita M. ha scritto a proposito di Oreste del Buono vorrei ricordare che fra tanti meriti di quest’ultimo non c’è solo quello del sostegno a Raymond Chandler ma più largamente a tanti nomi, momenti e frammenti delle narrative “basse” o intimamente “alte”, che da Oreste hanno ricevuto apporti critici ed editoriali definitivi per quel che riguarda il panorama italiano. Su di lui ci sarebbe da scrivere un romanzo. Basterebbe ricostruire il numero ed i nomi delle Case Editrici e delle Riviste  dove ha lavorato per avere un panorama quasi completo di tutto ciò che riguarda parecchi decenni dell’Italia libraria e giornalistica. “Io” si vantava spesso “sono l’uomo più licenziato d’Italia”. In realtà credo fosse spesso lui ad andarsene perché aveva un carattere giustamente puntiglioso. Mi ricordo i lunghi anni in cui ho avuto occasione di frequentarlo abbastanza spesso quando partecipavo, fra gli “esperti”, a quell’importante manifestazione sul poliziesco cinematografico e libresco che si chiamava “Mystfest” (significa “Mystery Festival”) di Cattolica. Aveva raccolto l’eredità del “Gran Giallo” inventato da Enzo Tortora e raggiunse una notorietà internazionale sotto la direzione prima di Felice Laudadio, poi di Irene Bignardi e infine di Giorgio Gosetti. Il quale Giorgio dirige ormai da molti anni, insieme a Marina Fabbri, il “Noir in Festival” di Courmayeur che, dopo una sosta a Viareggio, si è definitivamente stabilito in Val d’Aosta,  proseguendo appunto l’esperienza iniziata in Romagna e continuata poi in Toscana. È tutto un mondo del cinema e del giornalismo legati al Giallo e al Nero in cui sono vissuto per anni e che mi piacerebbe rievocare. Qualche anno fa mi sono imbattuto per caso in un cantautore che avevo conosciuto quando era un diligente liceale, che frequentava il cinema “Ariston” di Cattolica perché sua mamma era l’Assessore alla Cultura del comune. Si chiama Samuele Bersani. Forse tornerò sul tema che riguarda Del Buono e la ventura di quel genere che Alberto Tedeschi introdusse nel panorama librario d’Italia e che, dal colore delle copertine delle collane della Mondadori, venne chiamato “Giallo”.
Fra i vari commenti del 14 di Ottobre sono contento di vedere che il brano di Valerio Caprara su Lizzani è piaciuto. In futuro, sempre con il permesso dell’autore, ho intenzione di saccheggiare il suo sito in presenza di articoli di particolare interesse cinematografico. Ringrazio tutti per gli auguri per il mio compleanno e prendo nota di quel che mi scrive Enrico a proposito della notizia apparsa su Film Tv. Secondo la rivista fu addirittura Carlo Lizzani, definito “provetto ballerino di Boogie Woogie e di Twist” (ma quest’ultimo ballo, nato negli anni ’60, evidentemente non c’entra) a far da controfigura a Gasman nella sequenza di ballo in “Riso amaro”. Devo dire che è una notizia stupefacente.
Per quel che riguarda i commenti del 21 di Ottobre mi fa piacere che il brano di rubrica su “Le signorine dello 04” abbia destato interesse. In particolare per quel che riguarda Enrico ho appreso con stupore che, molti anni fa, era lecito telefonare dall’Inghilterra all’Italia a carico del destinatario (mi pare insuperabile la frase “es Milanopoli que non respond”). Ho sempre creduto che questo meccanismo, antico ed abituale da sempre negli Stati Uniti, esistesse in Italia solo per quel che riguarda le telefonate di lavoro a carico del numero telefonico di un giornale. Si chiamava il centralino dei telefoni, si diceva “signorina vorrei fare una R” (significava “rovesciata”) a carico del giornale “xyz” che ha il seguente numero “xyz”. La centralinista chiamava il giornale e se otteneva una risposta favorevole vi metteva in comunicazione. L’ho fatto per anni e anni e ho sempre creduto che fosse un privilegio professionale. Evidentemente mi sbagliavo.
Veniamo ai commenti del 28 ottobre (quando ero bambino si faceva festa a scuola perché era l’anniversario della “Marcia su Roma”!). Mi fa piacere che il convegno di Alessandria del 19 Novembre sul tema “Il cinema e la Prima Guerra Mondiale”, abbia destato qualche interesse. Non potendo partecipare di persona grazie a Lorenzo Doretti ho registrato un DVD di 46’. Una volta passato il giorno del convegno, lo riprodurrò nel Blog. Sempre del 28 ottobre sono i commenti che riguardano la nostalgia di Pizzul che era al centro di una puntata della mia rubrica sul “Mercantile”. Molto gradito il commento di Enrico che ricorda qualche frase tipica dei tele radiocronisti di un tempo, da Martellini a Ciotti (personaggio bizzarro a fianco del quale partecipai a ben due serie di puntate di una trasmissione di Gloria De Antoni e Oreste De Fornari intitolata “Pacem in terris”. Finite le riprese Ciotti era velocissimo nell’impadronirsi dell’unica automobile, con autista, a disposizione, per farsi accompagnare a casa lasciando con un palmo di naso, come si dice, me e quello straordinario personaggio del giornalismo italiano che è Giovannino Russo. Di questo ultimo mi piacerebbe riparlare. Gradite anche le rievocazioni di alcuni tipici “relatori” di “90o Minuto” (Bubba, Castellotti, Carino, Giannini, Necco, eccetera). Necco era un personaggio assolutamente bizzarro. Come cronista di calcio scivolava in tutte le possibili imboscate alla retorica, e se ricordo bene una volta, proprio a causa del calcio, fu “gambizzato”, come si scriveva allora, da una revolverata. Una volta ebbe occasione di partecipare con lui ad una trasmissione che non ricordo, ed ebbi la sorpresa di scoprire che era inattesamente colto. Mi dimostrò che aveva ragione lui a dire “sismo” e non “sisma”, come dicono e scrivono tutti, per la rigida derivazione della parola dal greco. E svelò un inaspettato interesse ed una inaspettata competenza in fatto di archeologia (anzi lui mi disse che era laureato in archeologia) ho fatto un rapido controllo in internet e ho scoperto che effettivamente condusse dal 1993 al 1997 la rubrica “L’occhio del Faraone”, per la quale ha realizzato e messo in onda 360 documentari e servizi sull’archeologia nell’area mediterranea (Pompei, Grecia, Egitto, Turchia, eccetera). Sembrerebbe anzi che sia riuscito a ritrovare il famoso tesoro di Troia rinvenuto nel 1873 da Heinrich Schliemann e che si riteneva fosse stato distrutto nel 1945 durante i bombardamenti di Berlino. Pare che Necco, con molte ricerche in tutte le aree orientali dell’Europa divisa dalla guerra fredda, abbia individuato i ladri ed il nascondiglio del tesoro di Schliemann, facendolo esporre nell’aprile 1996 nel Museo Puškin  di Mosca. Sul tema Necco ha anche scritto un libro, intitolato appunto “Giallo di Troia”.
Come vedete a questo mondo non si cessa mai di imparare qualche cosa.
Venendo ai commenti successivi registro la solita piacevole testimonianza di Rosellina a proposito di Luigi Magni (4 Novembre) e passo al 5 Novembre con molte graditissime testimonianze su di me (ancora Rosellina, Giorgio, bash, Enrico, Carlo Gatti, Rita M. e Giulio Fedeli). Per quel che riguarda quest’ultimo prendo sul serio la proposta di occuparmi di Frank Sinatra, che è una splendida testimonianza di una curiosa legge dello spettacolo. E cioè che si impara a recitare recitando. È un’esperienza fondamentale che lo avvicina ad un altro famoso “canterino”, Yves Montand (curiosamente anche egli di origine italiana),  il quale come cantante fu bravo quasi subito mentre come attore imparò praticando il mestiere. Agli inizi era pessimo e alla fine della carriera era diventato un interprete sottile, complesso,  intenso e raffinato, contribuendo a darci dei ritratti di alto livello dell’uomo francese medio-alto soprattutto per ciò che riguarda gli anni ’70 (nato nel 1921 morì nel 1991).
Visto che la maggior parte degli interventi sono occasionati dalla pubblicazione dell’e-mail dei signori Clavarino e Bassi a proposito dei miei meriti professionali nei miei ventiquattro anni di Rai, colgo l’occasione per evocare (credo che sia la prima e probabilmente sarà anche l’ultima volta) il momento doloroso, e quasi umiliante, del mio rapporto con l’azienda nell’ultimo periodo di lavoro. È un argomento che cito con imbarazzo, perché in fondo ero e sono rimasto affezionato alla Rai, ma che è richiamato da una mia lettera del 21 Maggio 2008 al professore Pier Luigi Celli allora Direttore generale della L.U.I.S.S. ma in passato Direttore del Personale della Rai (i burocrati hanno inventato l’espressione Direttore delle Risorse Umane, espressione che mi fa rabbrividire come se evocasse un campo di concentramento). Nella lettera, che sembra non sia mai stata ricevuta, si fa cenno ad un mio articolo apparso sul Secolo XIX, con cui allora collaboravo, ed a Celli se ne spedisce copia insieme alla mia e-mail. Per non farla troppo lunga mi limito a riportare qui la sola lettera a Celli, che bene o male coglie il cuore del problema. E cioè il modo indegno con cui l’azienda, pochi mesi prima che io compissi i sessantacinque anni previsti, dal contratto giornalistico, si liberò di me quasi fossi un peso morto. Contemporaneamente nei confronti di una persona politicamente più gradita come Angelo Guglielmi-mese più o mese meno è mio coetaneo- il suo contratto era stato automaticamente prorogato di due anni. Naturalmente il professor Celli non mi ha mai risposto (forse non gli è mai pervenuto nulla) e in fondo io me lo aspettavo. La sua responsabilità, come Direttore delle Risorse Umane (!), era ed è evidente. E le sue frasi, che io richiamo esplicitamente nel testo, riguardavano un suo intervento in un dibattito, in cui avevo appunto dichiarato che lui e gli altri dirigenti giunti alla Rai intorno al 1993, avevano, si, “salvato il bilancio, ma distrutto l’azienda”. Alludendo appunto all’epurazione indiscriminata che era stata effettuata negli alti gradi considerati in blocco responsabili della crisi (quando, spesso, erano invece quelli che avevano tenuto in piedi la Rai grazie ad una professionalità duramente acquistata nel corso degli anni).
Ecco qui dunque il testo della mia e-mail del 21 Maggio 2008 ( a cui ne ha fatto seguito un’altra del 4 Giugno che qui tralascio per brevità e per non creare confusioni). Anche il testo dell’e-mail che riproduco contiene evidentemente ripetizioni rispetto a ciò che ho scritto adesso, ma preferisco lasciarle invece di mettere tutto a soqquadro inseguendo complicate cancellature.

Genova, 21 Maggio 2008

Egregio Prof.
Pier Luigi Celli
Direttore Generale
L.U.I.S.S. “Guido Carli”
Viale Pola, 12
00198 Roma





L’anno scorso, quando vennero rese note le sue dichiarazioni riguardanti il disastro che la classe dirigente di cui faceva parte aveva causato alla RAI nell’intento di pareggiare le finanze, pubblicai nel “Secolo XIX” l’articolo che qui le allego in fotocopia. Mi sono procurato anche la registrazione della sua frase, pronunciata per radio, il cui senso è: “Abbiamo salvato il bilancio, ma abbiamo distrutto la RAI”.
A suo tempo spedii la fotocopia dell’articolo a diverse persone e decisi di non mandarglielo per una sorta di delicatezza, visto che a un certo punto si parlava di persone chiamate i di lei “scherani”. Adesso leggo che si fa di nuovo il suo nome come direttore generale della RAI ed a questo punto voglio togliermi la soddisfazione, supposto che lei ne abbia voglia, di farle leggere quel che avevo scritto (…) e vada alla sostanza. Per rendersi conto che dopo quattordici anni la ferita è ancora viva. Sapevo di aver portato all’Azienda un contributo decisivo e, in particolare per quel che riguarda RAIDUE, in tredici anni da capo-struttura, di aver collaborato in modo determinante alla saldatura del palinsesto (vi fu un periodo in cui fornivo dal Lunedì al Venerdì il 60 % dei programmi, ed eravamo sei strutture in organico!). E ancora oggi ricordo per contrasto la furiosa incertezza degli ultimi mesi, il vuoto di impegni e di ordini che aveva preso subitamente il posto del lavoro ossessivo svolto per quasi ventiquattro anni…al punto che accettai di andar via in estate, anziché a Ottobre – sono nato il 17 Ottobre del 1929 – solo per finirla al più presto. Parlai con lei in tutto una sola volta – mi ricevette usando contemporaneamente due telefoni – e non mi concesse più attenzione di quanta avrebbe potuto pretenderne il portatore di un giornale gratuito.
Da allora figuro negli archivi della contabilità RAI come “beneficato” (o qualcosa di simile) ed ogni volta che ho collaborato per molti programmi di RAITRE ho dovuto, ormai pensionato, invocare uno speciale intervento riservato al direttore generale, ultimo tocco di umiliazione.
So di aver contribuito in modo decisivo a riequilibrare il bilancio di RAIDUE – solo lo share della soap-opera l’ho portato da 200.000 contatti a più di 5.000.000 – senza che nulla l’Azienda facesse per aumentarmi in maniera significativa la retribuzione (ricordo che mi venne concesso un aumento importante soltanto quando il mio ex-direttore Mimmo Scarano cercò di portarmi via dalla RAI per andare a lavorare in un network, che peraltro fallì clamorosamente). Del resto entrai alla RAI nel 1970 come capo-servizio giornalistico e ne uscii ventiquattro anni dopo come capo-redattore!
In realtà non so bene perché le scrivo, ma curiosamente sento ancora intorno a me i favori, e vorrei dire l’affetto, di un pubblico molto ampio formato da adulti, che erano poco più che bambini quando presentavo i film in televisione (ed era appena la punta dell’iceberg di un enorme lavoro di ufficio che solo potevano intuire gli addetti ai lavori). Ma anche da giovani che non si sono ancora arresi all’idea che il cinema sia usato alla RAI con gli stessi criteri con cui a Genova si avvolge l’untuosa focaccia in una rugosa carta gialla... È proprio il peso toccante di questo quieto ma stringente riconoscimento che in certo senso mi induce a guardare al mio passato con un minimo di orgoglio, respingendo il sapore di sconfitta e di disprezzo che si respirava al terzo piano di Viale Mazzini, dove – come lei ricorderà benissimo  - era collocato il Servizio Personale. Al punto che gli amici della Cineteca Comunale di Bologna vorrebbero dedicarmi una “personale” con i film che ho importato, e fatto doppiare, nel mercato italiano, come puro esempio di un lavoro che nessuno mi aveva richiesto, ma che è una testimonianza della dedizione di cui si nutriva il nostro rapporto con l’Azienda.
Mi auguro che questa lettera inutile sia meno inutile di quanto possa sembrare e che, nel caso di un suo ritorno alla RAI, lei sia in grado di evitare, almeno in parte, gli errori del passato.

Claudio G. FAVA


L'OSSERVATORE GENOVESE

In omaggio alla tradizione pubblico nel Blog la mia rubrica domenicale sul "Corriere Mercantile" del 17 Novembre. Colgo l'occasione per far presente che la puntata precedente della rubrica, centrata sulla figura di Anna Maria Cancellieri, ha riscosso solo pareri negativi. A leggere le cronache di Lunedì mattina si direbbe che per la Sig.ra Ministro le cose si mettano male. Per quel pochissimo che vale, la mia simpatia è rimasta immutate e, salvo clamorose smentite del futuro, lo rimarrà.
p.s.
Mi sembra doveroso far presente che le parole in genovese contenute in "Un' Italia tutte di colf e di badanti" possono destare qualche imbarazzo in chi genovese non è. Per una lettura corretta del testo ricordo che, per una convenzione adottata da molto tempo, e che mi ha sempre lasciato perplesso, la lettera "o" deve in realtà leggersi "u", e quindi "Son" si legge "Sun". C'è un altro problema più comprensibile. Esiste in genovese un suono equivalente a quello del francese "j", come in "je", "jour", "jeunesse", eccetera. Tuttavia non si poteva trascriverlo usando la "j", perchè in italiano essa deve leggersi come la "i" normale, e sicuramente sarebbero nati dei malintesi. Allora si è deciso di rappresentarlo con la lettera "x". Che va appunto letta come la "j" francese prima ricordata. Un esempio tipico è una parola che è nel testo della canzoncina. E cioè "caxo", che significa "caso" e dove, pertanto, la "x" si legge come la "j" francese e la "o" si legge "u". Per fare un esempio paradossale Nino Bixio dovrebbe leggersi "Nino Bijo".
Spero di non avervi confuso troppo le idee e passo a ben distintamente salutarvi.

VISTO CON IL MONOCOLO

UN’ITALIA TUTTA DI COLF E DI BADANTI
Durante la guerra, sfollato in campagna fra Novi e Gavi, leggevo molti libri e sentivo molti dischi. La canzone sul retro del famoso “Ma se ghe penso” di Mario Capello s’intitolava “Ciassa de Pontexello”, cioè Piazza di Ponticello (ora è Piazza Dante). Con al centro una fontana, il famoso “Barchì”, ospitato a Piazza Campetto. La seconda strofa della canzone diceva letteralmente: “A dumenega adunansa de servette invexendè/ son vestie cun elegansa, e son tutte profumè/Pontexello, feghe caxo, a diventa trasformâ, in Monteuggio, Breummia (Bromi, frazione di Montoggio), Traxo (Traso, frazione di Bargagli), Martin d’Orba (San Martino d’Orba), Uè (Orero), Arquà (Arquata)”. E concludeva: “Cossa dixe anche a ciù bònn-a? Dixe mà da seu padronn-a”. Per ragioni di spazio non posso allegare anche la traduzione (è stato prezioso l’aiuto linguistico di Maria Vietz). Quel che mi sembra importante è che quell’elenco di piccoli paesi, a volte frazioni di paesi, situate o in Liguria o in Piemonte, è quasi automaticamente indicato come luogo di origine delle cameriere. Chi è vissuto all’epoca sa che questo è rigorosamente vero. Come in tutte le grandi città anche a Genova esse venivano dai paesini dei dintorni: vi esisteva all’epoca un proletariato, prevalentemente contadino, che sino agli anni ’50 ha fornito la base del mercato del lavoro “fisico” d’Italia. Non vorrei sembrare nostalgico di una società padronale che, come si dice, i tempi hanno mutato o annullato. Ma è certo che la sostanziale sparizione di uomini e di donne pone un interrogativo non casuale. Cosa è successo? Le famiglie da cui le cameriere di Piazza Ponticello provenivano sono totalmente scomparse? Anche se le nascite si sono ridotte il destino di centinaia di migliaia di uomini e di donne rimane misterioso. Hanno tutti e tutte rifiutato in blocco un lavoro servile divenuto umiliante nella considerazione dei più? Si sono tutti laureati in filologia romanza o in ingegneria elettronica? Nella pratica della vita italiana il loro posto è stato occupato da immigrati dei due sessi: Peruviani, Ecuadoriani, Ucraini, Filippini, Rumeni e Moldavi, un popolo intero di badanti che tiene in piedi un’Italia invecchiata e misteriosa.

11 novembre 2013

L'OSSERVATORE GENOVESE

Come al solito al Lunedì ecco la rubrica della domenica del "Corriere mercantile". Questa volta la puntata riguarda la "Cancellieri di Ferro" e non so se tutti saranno d'accordo (meglio così, sia detto incidentalmente). Dopo la rubrica provvederò a rispondere ai numerosi post giunti in questo ultimo periodo. Intanto cordiali saluti a tutti.

VISTO CON IL MONOCOLO

QUEL SORRISO UN PO' COSI' DEL MINISTRO CANCELLIERI
Non so come finirà questa lotta (un po’ goffa) sulle colpe teoriche della Signora Cancellieri Annamaria. Ma mi pare giusto dire che fra i protagonisti politici di questi ultimi anni è quella che mi è apparsa la più simpatica. Io ho abitato a Roma 25 anni e so quanto possano essere antipatiche certe donne (le impiegate ministeriali che escono dall’ufficio nell’orario di lavoro e vanno a fare altezzosi acquisti gastronomici, oppure  le borghesucce lamentose che sembrano perennemente colpite da catastrofi apocalittiche). Ma so anche quanto possano essere autentiche certe popolane ricche di buon senso e certe medio-borghesi pacate ma ferme nel carattere. È appunto la sensazione che comunica la signora Cancellieri, di cui fino adesso sapevo soltanto che era stata Prefetto a Vicenza, a Bergamo a Brescia, a Catania e per un anno, prima di andare in pensione, a Genova, dove sembra che se la sia cavata benissimo. Così come ebbe risultati positivi da Commissario straordinario a Bologna e a Parma. Ha giusto settant’anni (è nata a Roma il 22 Ottobre del 1943), l’atteggiamento ed il sorriso sono tipicamente capitolini ma privi del potenziale supplemento di beffa così fortemente avvertibile in tanti romani. Può darsi (non sono in grado di dirlo) che abbia avuto qualche gentilezza eccessiva verso la famiglia Ligresti, ma dà comunque la sensazione di appartenere a quella minoranza di servitori dello Stato che lo Stato lo servono veramente. Paragonate il suo sorriso a quello di tanti altri suoi colleghi o avversari, e poi tirate le somme: Monti sembra sempre in procinto di presiedere distrattamente una seduta di laurea, Enrico Letta ha il volto precocemente invecchiato del primo della classe che ha imparato il francese a Strasburgo, in piena Alsazia, Alfano è costretto dalla conformazione del volto a sorridere troppo spesso, Epifani esplica il sorriso faticosamente benevolente ereditato dalla CGL, Rosy Bindi dà sempre l’impressione di essere fortemente irritata perché ha dovuto troncare a metà la recita dell’Ave Maria.

Rispetto a loro Anna Maria Cancellieri emana la stessa bonomia persuasiva che fu tipica di Aldo Fabrizi e la stessa astuzia romana a fin di bene di Marisa Merlini.

5 novembre 2013

AFFETTUOSA TESTIMONIANZA DI UNO SPETTATORE DI ALTRI TEMPI

Ho ricevuto al mio indirizzo e-mail (che è riportato nella mia rubrica sul Mercantile) una lettera molto affettuosa di un mio spettatore televisivo dei vecchi tempi. Gli ho chiesto l'autorizzazione di pubblicarla nel Blog e lui me l'ha data, pregandomi anche di aggiunger alla sua firma quella di sua moglie.
Ecco dunque la sua lettera

Buongiorno, dottor Fava.
Ho trovato il suo indirizzo di email sul Corriere Mercantile.
Mi è parso irrinunciabile scriverle due righe, a nome mio e di mia moglie,
perchè siamo entrambi suoi antichi ammiratori.
Ricordiamo ancora con piacere le sue introduzioni ai film sulla RAI,
specie quelli parte di cicli memorabili.
La nostalgia è certamente per quelle serie di film ormai introvabili, a
fronte di demenziali programmazioni di cui non si capisce il senso; ma ci
mancano molto i suoi commenti pacati, acuti e dotti. Un vero piacere
culturale di cui ancora serbiamo chiarissima memoria.
Tutto qui.
Lei sappia che c'è almeno una famiglia italiana in cui Cludio G Fava è
sinonimo di competenza e buon gusto.
Pensavo le potesse far piacere.
Distinti saluti.
Alberto Clavarino, Elisabetta Basso.


4 novembre 2013

L'OSSERVATORE GENOVESE

Solito apporto del lunedì mattina: ecco il testo della mia rubrica domenicale sul "Corriere Mercantile". E' un periodo in cui mi occupo del Blog con forzata lentezza, ma in cui mi sto comunque cercando di creare per voi qualche cosa di più corposo della rubrica.
Cordiali saluti a tutti.

VISTO CON IL MONOCOLO

LA ROMA AUTENTICA DI LUIGI MAGNI
Ormai da parecchie settimane ho varcato il confine del primo anno di durata di “Visto con il Monocolo”: rarissimamente, se non in modo quasi occasionale, mi sono concesso citazioni e notazioni cinematografiche (è una specializzazione, chiamiamola così, che ho coltivato per tutta la vita, e non ho perciò voluto invadere i confini della rubrica). Ma oggi voglio fare un’eccezione commemorando un uomo che è morto pochi giorni fa (esattamente il 27 di Ottobre) e che per tutta la sua esistenza è stato appunto un uomo di cinema. Si tratta di Luigi Magni (era nato il 21 Marzo 1928): regista, sceneggiatore e occasionalmente anche autore teatrale e televisivo. In un cinema stabilmente radicato a Roma a partire dagli anni ’30, l’uso del romanesco come “koiné” popolar-furbesca, e la collocazione romana degli sfondi dei personaggi, sono diventati ormai da decenni uno stanco luogo comune del nostro cinema. È una cosa che mi ha sempre profondamente infastidito, anche se credo di aver sempre giudicato il “fenomeno Roma” nel cinema con una certa equità (non per nulla ho scritto un libro, diverse volte ristampato, su Alberto Sordi). Tuttavia ho sempre pensato che in mezzo a tanta Roma e a tanto romanesco d’accatto e di convenzione vi fosse solo un regista (oltre che diversi attori) in cui l’uso del vernacolo e la scelta degli sfondi capitolini apparissero totalmente giustificati. Si tratta appunto di Magni che, nonostante un cognome prevalentemente lombardo, era e si sentiva romano dalla testa ai piedi e pensava in romanesco (anche se poi parlava un italiano molto corretto) ha diretto le cose migliori evocando e rievocando una Roma puntigliosamente anti-papalina, immersa in un uso totale del romanesco. Dal suo primo lungometraggio, “Faustina” (1968) a l’ultimo, “La Carbonara” (2000), passando attraverso “Nell’anno del Signore” (1969); “Scipione detto anche l’Africano” (1971); “In nome del Papa Re” (1977); “Arrivano i Bersaglieri” (1980); “State buoni se potete” (1984); “In nome del popolo sovrano” (1990), eccetera, l’intera sua opera è immersa in questo esplicito gusto rievocativo. Nella sua parola (egli fu sempre con me gentilissimo) Roma era sempre, ma non fastidiosamente, presente.

28 ottobre 2013

L'OSSERVATORE GENOVESE

Eccezionalmente, per un disguido tecnico, la mia abituale rubrica domenicale sul "Corriere Mercantile" è stata pubblicata dal giornale solo oggi lunedì. E comunque il giorno in cui sono abituato a riportarla nel Blog, per cui, sotto questo profilo no vi è alcuna differenza.
Ecco quindi il brano della rubrica rigorosamente vietato (come in fondo, seppur in modo meno brusco, si dice anche nel testo) a chi non ha l'abitudine di seguire in televisione i principali avvenimenti calcistici.
Ecco dunque, per gli appassionati...

VISTO CON IL MONOCOLO

VORREI SENTIRE DI NUOVO BRUNO PIZZUL
Premetto che la puntata di oggi può interessare soltanto chi segue il calcio (altrimenti rischia di annoiarsi). Ho visto per caso una trasmissione di Rai Sport che rievocava “90o minuto”. Immagini sfuocate e flebili di volti un tempo famigliari, a cominciare da quello di Paolo Valenti, (uno degli ideatori insieme a Maurizio Barendson), che condusse poi la trasmissione sino al 1990 quando morì. A fargli corona molti volti di cronisti di sport, bravi o mediocri che fossero, divenuti famosi all’epoca fra gli appassionati perché apparivano regolarmente ogni settimana a introdurre brevi frammenti documentari sulle singole partite. Qualche nome? L’epico Tonino Carino (poverino, è morto nel 2010) Gianni Vasino e Giorgio Bubba, entrambi provenienti da Genova (con Bubba ricordo di aver fatto un viaggio in treno da Nizza, e non so perché), Beppe Viola (morto nel 1982, mentre stava montando un servizio su una partita) e poi, a caso, Emanuele Giacoia, Ferruccio Gard, Marcello Giannini (un toscano che sembrava sempre arrabbiato), il romanzesco Luigi Necco, da Napoli, (fu ferito nel 1981 prima di una partita) Cesare Castellotti, Franco Strippoli, Italo Kuhne, eccetera eccetera. A rivederli adesso sembrano provenire da un’epoca remota e ripropongono un’idea, come dire, ministeriale del calcio, la stessa che reggeva alcuni notissimi radio-telecronisti d’epoca, tutti eredi di Nicolò Carosio: Ameri, Martellini, Provenzali (anche egli scomparso; con lui ho diviso una cattedra in un corso universitario di giornalismo) eccetera. Per anni ci hanno abituato a delle cronache, tecnicamente esatte, forse un po’ ovvie a momenti, ma certo di grande competenza professionale. Vien fatto di raffrontarle con quelle attuali che si ascoltano su Sky: da un lato incomparabile superiorità tecnica e incredibile numero di partite trasmesse contemporaneamente ma dall’altro fastidiosi rumori in diretta che spesso coprono le voci dei cronisti. I quali sono due, l’uno descrittivo e l’altro “tecnico”: col risultato che spesso non si capisce niente e si perde completamente il filo di quel che vi dicono le immagini.
Confesso di avere una grande nostalgia di Bruno Pizzul e della sua intelligente diligenza friulana.

AD ALESSANDRIA UN CONVEGNO DI CRITICI SUL CINEMA E LA PRIMA GUERRA MONDIALE

Il giorno 19 novembre prossimo, grazie all'azione congiunta della Edizioni Falsopiano (casa editrice specializzata in pubblicazioni cinematografiche)  e del Circolo del Cinema Adelio Ferrero, verrà tenuto ad Alessandria, nella sala consiliare della Provincia, un convegno sul tema  "Il cinema e la Grande Guerra". Io sono stato invitato e l'amico Lorenzo Doretti ha avuto la gentilezza di registrare e montare un mio intervento della durata di circa 46 minuti. Una volta che l'intervento stesso sarà stato visto e udito ad Alessandria lo porrò nel Blog, ove, come è noto, esiste la sezione "video".
Intanto, sperando che possa interessare, riproduco qui sotto la bozza del programma, così come mi è stato inviato da uno dei responsabili di Falsopiano, Roberto Lasagna. Mi pare di capire che da qui al 19 Novembre sono possibili mutamenti di persone e di temi ma quella che segue dovrebbe essere l'ipotesi prevalente del programma della rassegna. 

Bozza in evoluzione convegno Cinema e grande guerra, Alessandria, 19 novembre

ore 10 introduzione (Roberto Lasagna e Saverio Zumbo, dedica del convegno a Gianni Volpi)
ore 10,30 Nuccio Lodato, "Altre fonti, altre trincee diverse dalle nostre"
ore 11,00 Paolo Micalizzi, "Un cineoperatore in guerra: Antonio Sturla"
ore 11,30 miscellanea di proiezioni, con commenti di Massimo Benvegnu' e Nuccio Lodato

Pausa pranzo

ore 14,30 Antonella Ferraris, "Vivement Tavernier"
ore 15,15 Antonio Tentori presenta il suo libro su "La grande guerra"
ore 16,00 Claudio G. Fava racconta il cinema classico su "La grande guerra"
ore 17,00 Massimo Benvegnu', "Peter Weir e Gallipoli"
ore 17,30 Beppe Varlotta, "Il mio Monicelli e La grande guerra"
ore 18,00 Barbara Rossi, "Anna Magnani in guerra"
ore 18,30 Franco Livorsi, "Paranoia"

ore 19,00 conclusione

nb. La mattina e' prevista la partecipazione di scolaresche. Sono in atto contatti con i cineasti Yanikian e Ricci-Lucchi per averli al convegno. Prevista la proiezione ripetuta di loro film.

21 ottobre 2013

L'OSSERVATORE GENOVESE

Cari amici, in attesa di qualche apporto più corposo , ecco il solito contributo del lunedì con la mia rubrica domenicale sul "Corriere Mercantile". Dato che voi non vedrete la pagina originale ma solo il testo, preciso che, come accade ogni volta, in redazione è stato incorporato nel brano la fotografia di una delle persone menzionate, in questo caso l'attrice Giovanna Ralli. Per i più giovani ricordo che è nata nel 1935, dopo essere stata utilizzata dal cinema quando era molto piccola (ne "I bambini ci guardano" di Vittorio De Sica" del 1942 era una bambina che giocava ai giardinetti). Esordì di fatto nel 1950 con "Luci del varietà" del 1950 di Lattuada e Federico Fellini, iniziando una carriera che proseguì sino a tutti gli anni '70 e che ha conosciuto dal 1980 ad oggi una decina di "ritorni" sino ai giorni nostri. Tant'è vero che è prevista nel cast di un film che Pupi Avati dovrebbe girare nel 2014: "Un ragazzo d'oro". Le sue prestazioni migliori le offrì nei panni di una romana, popolare  e popolaresca in molti film. Per citarne alcuni: "La famiglia Passaguai" di Aldo Fabrizi (1951); "Villa Borghese" di Gianni Franciolini (1953); appunto "Le signorine dello 04"; "Racconti romani" di Gianni Franciolini (1955); "Tempo di villeggiatura" di Antonio Racioppi (1956); "Era una notte a Roma" di Roberto Rossellini (1960) eccetera, eccetera.

VISTO CON IL MONOCOLO

TELEFONO E TELEFONINO UN FILO FRA DUE UNIVERSI
Credo che tutti vedano di continuo quelle terribili scene in televisione, quando su un terreno sul quale, come sempre, è stato consumato un crimine si aggirano presenti, parenti, estranei e indaffarati e, soprattutto in provincia, carabinieri. C’è sempre almeno un ufficiale che ha, come da tradizione, i guanti nella sinistra e un telefonino nella destra. Che cosa fa? Naturalmente telefona. Si direbbe che gli ufficiali dei carabinieri facciano inchieste solo telefoniche. Ma ormai tutti telefonano, anche se non sono carabinieri. Con il telefonino oggi si fa tutto: si parla, si fanno fotografie, si gioca, si va su internet, si leggono i libri, si frequentano i social - network, cosicché non si parla neppure più ma ci si scrive (male)  usando una sorta di cifrario simbolico che elimina anche le parole. Tutto questo in una ventina di anni che, anche sotto questo profilo, hanno di fatto sconvolto il pianeta. Due secoli fa passavano cinquant’anni e, pressappoco, i nipoti vivevano come i nonni. Adesso basta un quinto di secolo per entrare in un altro mondo. È uno spettacolo che ogni volta mi fa venire in mente un tenue ma garbato film di Gianni Franciolini del 1954, “Le Signorine dello 04” che, nel ricordo, sembra provenire da un altro universo. Come spiegare ad un giovane di oggi che sessant’anni fa (i prefissi naturalmente non esistevano) per parlare da una provincia all’altra, e forse anche all’interno della stessa provincia, era indispensabile passare attraverso un centralino (appunto lo 04) dove delle signorine indaffarate vi iscrivevano in una lista di attesa. Un’attesa spesso molto lunga che dava origini a litigi e contestazioni. Per accorciarla bisognava pagare di più. Richiamare il centralino e dire, con voce di pianto: “signorina, allora me la faccia urgente!”. E credo, magari, anche “urgentissima”. Naturalmente il film era popolato di attrici d’epoca, Antonella Lualdi, Franca Ralli, la cara Marisa Merlini, la geniale Franca Valeri (come sempre straordinaria), la catarrosa Tina Pica e di molti attori d’epoca da Antonio Cifariello a Peppino De Filippo. Ma anche essi sembrano uscire, nel ricordo, da un astronave fantascientifica. Il tempo passa troppo rapidamente.
(TITOLO ORIGINALE: "DAL TELEFONO AL TELEFONINO: UN ALTRO UNIVERSO")

14 ottobre 2013

ANCORA UN RICORDO DI LIZZANI NELLE PAROLE DI VALERIO CAPRARA

Mi pare giusto riprodurre qui (con l'amichevole autorizzazione dell'autore) quel che Valerio Caprara ha scritto sul suo sito in occasione della morte di Carlo Lizzani. Come si vede Valerio ed io, che non avevamo certo legami di militanza comune con lo Scomparso, abbiamo ceduto entrambi al moto più grande che possa guidare parole e sentimenti di un essere umano. E cioè a quello del cuore (e del rimpianto).

articolo integrale su scomparsa di Lizzani

05 Ottobre 2013


“A V. C. questo vagabondaggio attraverso un secolo che ha lasciato aperte tante ferite e tante domande. Con affetto”. Questa dedica di Carlo Lizzani, datata 2007 e vergata sul frontespizio di uno dei più formidabili libri di cinema mai scritti in Italia, “Il mio lungo viaggio nel secolo breve”, apparterrebbe solo alla sfera privata se non fosse per le ragioni che, oltre a rendere doloroso il compito di tramandarne la memoria, possono contribuire a illuminare la statura dell’uomo prim’ancora della sua opera. E’ indubbio, infatti, che troncando tragicamente la propria lunga e intensa vita –si è suicidato gettandosi ieri dal balcone del proprio appartamento del quartiere Prati a Roma, ricalcando incredibilmente il gesto compiuto dall’amico e collega Mario Monicelli tre anni orsono- l’anziano regista, sceneggiatore e storico ha ritenuto chiusa per sempre l’opera maieutica compiuta nei confronti di due generazioni di critici e cinefili, quella dei nostri padri e la nostra. Senza rinnegare la propria formazione umana e artistica, forgiata negli anni della fronda universitaria al fascismo, della militanza nell’orbita del Pci romano e nell’attiva adesione alle istanze estetiche ed etiche del neorealismo, Lizzani ha, in effetti, praticato, perfezionato e anche modificato con rigore e pazienza per oltre un cinquantennio alcuni assiomi, forse più “rivoluzionari” di quelli legati alla lotta politica: la passione per il mestiere non può ispirarsi solo ad astratti canoni autoriali e non deve mai disprezzare la ricerca di un autentico rapporto con le platee; fare i film può corroborare la possibilità di saperli analizzare, storicizzare e persino valorizzare sulle ribalte festivaliere; girare il mondo intero per realizzare documentari vuole dire essere sempre pronti ad aprirsi a tutte le nuove “metriche” sperimentate dal medium (arcinemica tv compresa); l’impegno civile e culturale non deve essere sinonimo di fideistica fedeltà ai lasciti fallimentari delle utopie totalitarie del sunnominato secolo breve.
Sono tantissimi, in questo senso, i segnali che ci ha generosamente lasciato sul percorso di appassionati di cinema periodicamente esposti alle ubriacature ideologiche, agli assolutismi teorici, alle conventicole specialistiche, al ricatto del box-office e a quello del cineforum. Sia pure legato all’attività critica della rivista “Cinema”, crogiolo dei futuri leader neorealistici, comprende presto come la sceneggiatura costituisca un forte background per la successiva libertà creativa delle riprese, tanto è vero che la sua giovane mano si fa sentire nelle collaborazioni con Vergano, Lattuada, De Santis, Rossellini.
Esordisce dietro la macchina da presa con un trittico di documentari infiammati dal clima del dopoguerra, ma il primo film di fiction è “Achtung! Banditi!” del ’51, che già contiene il dna di tutta la sua poetica: una sceneggiatura, appunto, serrata e consequenziale, un po’ all’americana; la ricostruzione di un autentico episodio della Resistenza, ma nell’ottica di un’immediata epica popolare; un estremo verismo di ambientazione e dialoghi, ma con il forte richiamo costituito dal protagonismo di due divi dell’epoca come Gina Lollobrigida e Andrea Checchi. Il primo successo internazionale arriva tre anni più tardi, quando la giuria del “mondano” festival di Cannes decide di riservargli un premio speciale per “Cronache di poveri amanti”, robusto melò d’azione sull’opposizione fiorentina alla presa del potere fascista tratto dal romanzo omonimo di Vasco Pratolini. Nella sua subito nutrita filmografia è evidente come l’interesse per la fase storica che lo ha fatto crescere, sia dal punto di vista intellettuale che da quello filmico, si confronta sempre più spesso e con esiti inevitabilmente alterni con il senso del ritmo, dell’avventura, dello scontro tra personaggi in cui il pathos privato può arrivare a surclassare quello sociale o di classe. Sono gli anni di “Il gobbo” (interpretato da Pasolini), “L’oro di Roma” “Il processo di Verona”, “La vita agra”, che ricevono, a causa della loro spigliatezza, accoglienze tiepide proprio da parte della stampa schierata a pregiudiziale tutela di un cinema antagonistico ai valori dominanti.
L’eclettismo del cineasta-gentiluomo, assiduo in ogni dibattito e in ogni polemica (anche perché nel frattempo ha pubblicato la prima “Storia del cinema italiano” dell’editoria nazionale esaustiva e circostanziata), ma sempre con un atteggiamento costruttivo, il tratto cortese e una lucidità non prona agli slogan abborracciati, lo conduce all’incontro con la commedia all’italiana. “La vita agra”, storia della dolorosa integrazione dell’anarchico Tognazzi nel confortevole tessuto del “miracolo economico” tratta dal romanzo di Bianciardi, non a caso è del ’64, ma Lizzani non si aggrega alla marcia trionfale dei Risi, Comencini e Monicelli e preferisce ritornare ai cortocircuiti con la cronaca (“Svegliati e uccidi”, “Banditi a Milano”, “Barbagia, la società del malessere”, “Roma bene”, “Storie di vita e malavita”, “San Babila ore venti”) che gli permettono di coniugare l’inchiesta con la spettacolarità. Che il cinema, inteso come arte di cuore e viscere, lo streghi da ogni punto di vista stanno a dimostrarlo tanti altri titoli, sparsi con allegra fluidità sino nei territori interdetti ai “colti” del suo livello: il western all’italiana (“Requiescant”), la storia (“Mussolini, ultimo atto”), il terrorismo mixato con l’erotismo (“Kleinhoff Hotel), il giallo (“La casa del tappeto giallo”). Non si creda che Lizzani, infine passato al piccolo schermo con una serie, anche questa, debordante di docu-dramma (da “La donna del treno” del ’98 a “Le cinque giornate di Milano” del 2004 e fino a “Hotel Meina” del 2007), abbia accettato passivamente di essere collocato in serie B dalla Nuova Onda iper-cinefila. Non solo, infatti, ha rilanciato, dirigendola dal ’79 all’82, l’agonizzante Mostra di Venezia, ma ha continuato instancabilmente ad alternare gli interventi, le discussioni, le rievocazioni e gli scritti con film non più incisivi eppure mai banali, mai raccomandati alla benevolenza dei critici (“Caro Gorbaciov”, “Cattiva”, “Celluloide”). E’ indifferente, a conti fatti, chiamarlo o meno maestro. Come ha sempre desiderato, ha di sicuro “lasciato tracce”: le uniche, peraltro, in grado di sfidare la sparizione, destino comune di ogni essere umano.