Blog - Crediti


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29 settembre 2008

Ermanno è un “unicum”

Il premio che la Mostra di Venezia, proprio nel corso dell’attuale edizione della manifestazione del Lido, attribuisce a Ermanno Olmi in certo senso colma un vuoto e pone riparo ad un’omissione quasi ridicola. La carriera di Ermanno è una riprova straordinaria di un talento ritroso, cauto e scaltramente proletario che ha stentato ad affermarsi nel cinema italiano. Fin dagli inizi gravò su di lui un sospetto “ideologico” che lo rendeva sgradito a molti. Vale a dire quello di essere un autore “cattolico”, il che lo rendeva sospetto a sinistra, in un ambiente, quello della critica cinematografica italiana, dove la militanza a sinistra è sempre stata importante se non decisiva. Dopo tanti anni (eravamo nel 1961) mi ricordo ancora oggi il momento finale della proiezione, alla Mostra di Venezia, del suo secondo lungometraggio, “Il posto”, e il risolino di compassione con cui due signori anziani e autorevoli guardavano la sala che applaudiva entusiasta: “Lasciamoli divertire”, diceva uno dei due all’altro con un sorriso di indulgente compatimento.
Io non incontro Ermanno da molti anni e negli ultimi decenni ci siamo visti poco, ma è anche vero che ci siamo conosciuti, e diventammo amici, tanti anni fa. C’era in lui un sorridente attivismo lombardo che ribadiva un rapporto con il cinema profondo e istintivo, frutto non tanto di letture ma di un operoso rapporto da filodrammatico con le scene, e con le immagini di cinema da auto-formatosi e talentuoso operatore. Tutti i numerosi documentari aziendali girati per la Montedison, una quarantina fino al 1961, testimoniano di un naturale istinto cinematografico che trova la sua consacrazione in un lungometraggio a soggetto, “Il tempo si è fermato” (1960). Un documentario simulato, il quale in realtà contiene delle tenere e godibili invenzioni di “fiction” a testimonianza del naturale tocco narrativo di Olmi, che non deve niente a nessuno.
Io ho conosciuto Ermanno ancor prima che girasse “Il posto”, quando era in certo senso un conosciuto sconosciuto, e diventammo amici (da qualche parte in casa devo ancora avere una fotografia che ci hanno fatto a S. Margherita Ligure in occasione del Festival del Cinema Latino-Americano: indossiamo entrambi un improbabile abito da sera e malgrado il sorriso festoso sembriamo due “extra” assunti all’ultimo momento da un’impresa di catering). Da allora ho seguito con grande affetto, da lontano, la carriera di Ermanno, il quale è riuscito ad avviare una sua vita professionale autonoma (prima a Milano, poi ad Asiago) senza l’inevitabile trasferimento a Roma, che è uno dei pochi cineasti italiani ad esser riuscito ad evitare (l’altro è Maurizio Nichetti, rimasto ostinatamente milanese). Si può dire che tutti i film di Olmi, in quasi mezzo secolo, testimoniano di un’ostinazione solitaria e narrativamente fruttuosa fuori delle convenzioni para-romanesche del cinema italiano post-bellico. Opere come “Un certo giorno” (1969), il primo film a mia memoria ambientato nel mondo dei pubblicitari milanesi, “Durante l’estate” (1971), curiosamente ambientato in un universo di ricerche araldiche, oppure il clamoroso “L’albero degli zoccoli”, che Olmi riuscì a girare in presa diretta in un arcaico dialetto bergamasco, dando vita ad un capolavoro di poetica ricostruzione del passato. Son passati quasi quarant’anni e Ermanno ci ha abituato a inaspettati colpi di reni. Ad esempio, per indicare un film recente, a un’opera come “Il mestiere delle armi”, straordinario recupero degli ultimi giorni della vita di Giovanni delle Bande Nere (2001); oppure a “Cantando dietro i paraventi” (2003), paradossale re-invenzione di una Cina del XVII° sec.; per non far cenno del più recente “Centochiodi” (2007), dove riusciva ad evocare una crisi personale ed una crisi religiosa a testimonianza di una perenne vitalità narrativa. Una filmografia ampia e straordinaria, per la quale il riconoscimento di Venezia è solo un omaggio tardivo.

Claudio G. FAVA
("EMME-Modena Mondo", a. 2, n. 78 del 3 Settembre 2008)

12 giurati alla russa

Un film di Nikita Mikhalkov è comunque un avvenimento date le esplosive caratteristiche dell’autore, sospinto da una biografia che lo pone al centro delle curiosità politico-culturali della Russia da molti decenni a questa parte. Mikhalkov, fratello minore del regista Andrei Mikhalkov Končalovskij (il quale ha lavorato per anni con successo a Hollywood), è nato in una famiglia di forti connotazioni politico-letterarie: nonni e bisnonni pittori, la madre Natal’ja Končalovskaja poetessa e traduttrice, il padre Sergej M. autore di libri per ragazzi ma anche delle parole dell’inno sovietico. Nikita è cresciuto flottando fra le scadenze di regime e le fascinazioni di una potenziale contestazione. È diventato il regista russo forse più conosciuto all’estero grazie ad opere come “Schiava d’amore” (1976), “Oblomov” (1980), “Oci Ciornie” (1987), “Urga” (1991), “Sole ingannatore” (1994), “Anna – 6-18” (1994) e “Il barbiere di Siberia” (1999), divise tra occhiate teneramente commosse al passato pre-rivoluzionario e terribilmente addolorate sugli anni dello Stalinismo. Il film che adesso circola sugli schermi italiani, “12”, è stato premiato alla Mostra di Venezia 2007 con il Leone d’oro speciale per il complesso dell’opera e ed è entrato nelle nominations per il Premio Oscar 2008 come miglior film in lingua straniera. Contiene molti elementi di curiosità, fra cui un esplicito rinvio nei titoli di testa alla sceneggiatura di Reginald Rose “The Twelve Angry Men”, per un famoso originale televisivo trasmesso nel 1954 da Studio One per la CBS. La sceneggiatura divenne poi l’architettura di un film che si chiamò in Italia “La parola ai giurati” del 1957, clamoroso esordio alla regia di Sidney Lumet, segnato anche dalla presenza di una serie straordinaria di attori, da Henry Fonda via via agli altri undici giurati, tutti di splendido talento: Martin Balsam, John Fiedler, Lee J. Cobb, E. G. Marshall, Jack Klugman, Ed Binns, Jack Warden, Joseph Sweeney, Ed Begley, George Voskovec, Robert Webber.
Il riferimento di Mikhalkov ad un film che è stato un autentico oggetto di culto per tutta la mia generazione, assume un complesso significato cinefilo. Infatti l’intrecciata compilazione del testo russo (un totale di 153’ rispetto ai 95’ del film di Lumet) consente a Mikhalkov una costruzione ambiguamente parallela delle vicende che si intersecano nell’unione-scontro dei dodici giurati russi chiamati a giudicare il destino di un giovane ceceno accusato di aver accoltellato un ufficiale russo che lo aveva adottato e protetto. Il meccanismo di fondo del testo è quello della sceneggiatura di Rose arricchito dalle infinite variazioni personali e dalla rievocazione della guerriglia cecena. Naturalmente anche fra i giurati si ritrovano le componenti familiari e maniacali che furono tipiche dei personaggi americani. Qui in più ci sono un chirurgo che rivendica la sua origine caucasica ed un ebreo costretto a fare i conti con l’antisemitismo viscerale di uno dei giurati che è anche quello che odia maggiormente i ceceni, rei di aver invaso Mosca con i loro soldi e la loro arroganza. Infine il personaggio incaricato di far scattare i buoni sentimenti della coscienza e dell’autocoscienza (fu quello di Henry Fonda) è interpretato dallo stesso Končalovskij, nei panni di un attore ex ufficiale, persuaso dell’innocenza del ragazzo ceceno ma anche convinto che ai giurati convenga proclamare la sua colpevolezza pur di tenerlo in carcere al riparo della vendetta di chi ha ucciso il padre del ragazzo e che attende soltanto di vederlo libero per poter abbattere anche lui.
Opera molto complessa per la varietà degli impulsi narrativi tipicamente russi iniettati nell’originale, concreto dispositivo “yankee” della sceneggiatura di Reginald Rose, il film rivela una gran voglia di far cenno della società moscovita dei nostri giorni e al tempo stesso di commentarne le intricate connessioni ad un passato imbarazzante, ad un presente convulso e ad un futuro aperto a mille possibili contraddizioni.

Claudio G. FAVA

("EMME-Modena Mondo", a. 2, n. 73 del 9 Luglio 2008)


Servillo tra il Bagaglino e la tragedia

L’impresa a cui si è accinto Paolo Sorrentino dirigendo “Il Divo” – suo sesto lungometraggio dopo “L’amore non ha confini”, “L’uomo in più”, “La lunga notte”, “Le conseguenze dell’amore” e “L’amico di famiglia” – è estremamente ricca di difficoltà. Com’è noto, “Il Divo” è un ritratto di Giulio Andreotti che oscilla fra le asperità e i riferimenti alla cronaca quotidiana propri di un “pamphlet”, e le intenzioni più accavallate e tortuose legate alla presenza stessa di un protagonista come Toni Servillo. Ovviamente bravissimo e pur tuttavia servo di due tirannici padroni, Servillo a momenti è una parodia da “super-Bagaglino” e al momento dopo diventa un simbolo complicato, il ritratto di un’Italia complessa e corrotta, dove il “Presidente” si inoltra, così come nelle deserte strade di Roma notturna, circondato da guardie del corpo armate sino ai denti. La straordinaria avventura personale di Andreotti diventa il pretesto per un disegno di una società politica dove da un lato campeggiano i Salvo Lima, Cirino Pomicino, gli Sbardella, i Ciarrapico, i Mino Pecorelli, gli Aldo Moro, i Franco Evangelisti, i Vincenzo Scotti, eccetera, mentre dall’altro, solo indirettamente, è evocato il meccanismo di fondo dell’attività di Andreotti politico per eccellenza. Per inerzia e comodità si è tutti portati a dimenticare che l’intera sua carriera è in qualche modo rapportabile all’ombra del Vaticano, che si staglia e si proietta sulle mere coincidenze romanesche, laziali e mediterranee di cui si nutre la quotidianità del politico. In realtà, quel che vien fuori dalla lettera del film è l’eccellenza di un cammino umano in qualche modo misteriosamente parallelo a quella vocazione biografica a muoversi entro i confini di un’esperienza solo geograficamente italiana, ma che si nutre dei succhi di un mondo d’oltre Tevere, in cui tutta la vita e l’attività politica di Andreotti trovano alimento, motivazione e giustificazione ideologica. A pensarci verrebbe fatto di immaginare quale straordinario Segretario di Stato – altro che i Merry Del Val, i Gasbarri, di cui solitamente ci vengono tessute le lodi – avrebbe potuto essere se avesse scelto, come tanti suoi amici, la veste talare invece di innamorarsi di una ragazza, conosciuta al Verano durante un funerale, di sposarla e di averne diversi figli (la moglie è impersonata da Anna Bonaiuto, che riesce a dare al personaggio una lavorata finezza ed una notevole complessità di testimonianza).
Credo che si avverta nelle mie parole la difficoltà di penetrare nel corpo segreto di un film. Che in parte oscilla fra rievocazioni di tempi, di luoghi e di persone con risvolti di aperta o indiretta polemica. Ma che in parte risente anche del desiderio di dare al personaggio centrale una sua complicata collocazione ideologica, quasi un simbolo dei servaggi e delle servitù che vanno immolati quotidianamente nell’esercizio della politica spicciola. Si capisce che il regista è consapevole del fatto che da un lato è strascinato sul terreno scottante della polemica politica di casa nostra (si veda il dialogo fra Giulio Bosetti con barba d’ordinanza che interpreta Eugenio Scalfari e che rimprovera ad Andreotti non so quante colpe e quante compromissioni), ma che d’altro lato si apre intorno al “Presidente” un enorme terreno di politica e di ideologia all’ombra del quale si è dipanata buona parte della vita pubblica italiana, dal dopoguerra ad oggi.
C’è nel film, nella finezza della struttura visuale sapientemente tessuta da Luca Bigazzi, la continua provocazione, la consapevolezza dolorosa di trovarsi sul confine di una grande scoperta – quella dell’urgenza di una pacificazione nazionale e di una missione internazionale dell’Italia - che il regista ha sfiorato mille volte, senza riuscire tuttavia a varcarlo completamente. Tanto è affascinante l’idea che muove il film, tanto è a momenti deludente il risvolto narrativo della realizzazione. Ma è certo che si tratta di un’opera di un insolito rilievo politologico, a cui il nostro cinema non ci ha abituato e che può ritrovare motivazioni e giustificazioni in alcune opere ormai lontane di Francesco Rosi.
Claudio G. FAVA
("EMME-Modena Mondo", a. 2, n. 72 del 2 Luglio 2008)

Vedi Napoli e poi (sicuramente) muori

Vedendo “Gomorra” di Matteo Garrone, si provano reazioni molto complesse e in parte contraddittorie. Ci si rende subito conto di essere in presenza di un grande film dove il regista e uno stuolo di sceneggiatori riescono a portare sullo schermo il magma ribollente che agita come una forza biologica parallela il tessuto della società napoletana. Fra gli sceneggiatori ci sono lo stesso Garrone e Roberto Saviano, l’autore del libro da cui il film è tratto e che, per intervento dell’allora Ministro Amato e per vergogna d’Italia, deve vivere con una scorta delle forze dell’ordine.
Molti film d’ambiente mafioso fanno baluginare i confini impercettibili ma ferrei di un mondo dove chi è estraneo alla malavita è per sua natura un diverso ed, in certo senso, un malato. Qui in particolare la descrizione è apparentemente distratta, ma in realtà minuziosa, ed evoca uno sfondo dove vecchi, adulti e ragazzi, uomini ma anche madri di famiglia, agiscono tutti all’interno della stessa dialettica e, verrebbe fatto di dire, della stessa rigida gradazione di valori. C’è un’altra Legge, apparentemente non scritta, che regola le azioni di tutti. Tutti rigorosamente camorristi senza che nessuno avverta la possibilità di vivere in un modo differente. La spaventosa periferia urbana e il dirupato mondo contadino sono le due scansioni fisiche entro cui la Camorra trova naturale riparo, anzi che servono a misurare tutte le cose senza dubbi e senza crisi di coscienza (fatte salve le secessioni e le scissioni che scuotono vite e destini degli affiliati).
Garrone, classe 1968, fino ad ora con questo sette lungometraggi, fra cui non si può non ricordare l’eccellente “L’imbalsamatore”, dimostra qui una toccante maturità ed una vaporosa scorrevolezza che gli consentono di evocare un brulichio di personaggi articolati in non meno di cinque frammenti narrativi: essi riguardano il piccolo Totò (Salvatore Abruzzese) che paga il suo scotto al feroce apprendistato; il ragionier Ciro (Gianfelice Imparato) che porta lo “stipendio” della Camorra alle famiglie dei carcerati; il sarto Pasquale (Salvatore Cantalupo) che produce grandi modelli per la “Haute Couture”, ma fa anche il maestro di un’ossequiosa classe di clandestini cinesi; il freddo e cinico Franco (Toni Servillo) abilissimo nel riciclare in Campania i rifiuti ambientali di una ineccepibile società del nord; e infine i due animaleschi adolescenti Marco e Ciro (Marco Macor e Ciro Petrone) che sognano solo una cosa: sparare. E verranno puntualmente uccisi.
Il livello medio dell’interpretazione (ed ho menzionato solo alcuni degli attori) attinge a quelle punte di genialità che sono tipiche di un certo cinema d’ambiente napoletano (si pensi al Nino Vingelli de “La sfida” di Francesco Rosi, del 1958… o a tanti figuranti di un altro film dello stesso Rosi, “Le mani sulla città” del 1963). Ma qui la coralità della recitazione raggiunge sapori toccanti per l’intensità e la profondità dei toni e dei passaggi al punto che il grande Toni Servillo è indubbiamente eccezionale, ma al suo stesso livello recitano i relativamente poco conosciuti Cantalupo e Imparato. In omaggio a quelle misteriose capacità di recitazione che fanno di tanti napoletani dei potenziali, impeccabili protagonisti in grado di dar vita ad una fisiologica popolazione di attori, eguagliati solo, per talento e graduazione di toni, dagli inglesi.
Più largamente, vedendo il film, si è via via permeati da una sorta di incredula stupefazione. Come ha potuto una città, che sotto tanti profili si trova al livello massimo della cultura nazionale, cadere in preda ad una metastasi maligna che sembra averne contagiato il corpo con la stessa lucidità delinquenziale con cui, ad un certo momento, è caduta vittima di una stravolta utilizzazione dei rifiuti urbani?
Francamente non ho una risposta.
Claudio G. FAVA
("EMME-Modena Mondo", a. 2, n. 68, 4 Giugno 2008)

Le vecchiette di Di Gregorio

Alla recente Mostra di Venezia, ha costituito un inatteso motivo di curiosità ed ha dato origine a un piccolo caso. Ha ricevuto anche diversi riconoscimenti, fra cui il “Premio De Laurentiis” per la migliore opera prima. Si tratta di “Pranzo di ferragosto” di Gianni Di Gregorio, uomo ormai di una certa età con un passato ormai ampio di sceneggiatore e di aiuto regista, ma che qui esordisce come attore e di fatto anche come protagonista. Selezionato e presentato alla “Settimana della critica”, “Pranzo di ferragosto” ottenne un riscontro inatteso ed ora è entrato nel circuito cinematografico, con un palese successo di pubblico. Ha indubbiamente molti meriti fra cui quello di durare soltanto un’ora e un quarto, caratteristica nobilissima in un momento in cui tutti i film tendono a durare oltre le due ore, smentendo così le tradizioni di concisione e di brevità che un tempo contraddistinsero l’opera di molti grandi registi. Un’altra caratteristica di fondo è il sofferto carattere autobiografico del film, che a quanto si capisce è girato nella stessa abitazione trasteverina del regista. Del resto tutto il film è molto capitolino, a cominciare dalla presenza di Di Gregorio, il quale riesce a spalmarvi sopra la sua sottile romanità, ribadita dall’accento, dal vocabolario e ancor più dal suo volto che in linea di massima è molto generico e senza severe collocazioni etniche, ma che è anche animato da una sorta di arresa arrendevolezza parastatale, grazie alla quale il personaggio diventa compiuto e coerente. Egli è qui Gianni, uomo ormai di una certa età, senza un mestiere preciso, che vive con l’anzianissima madre e si occupa dei lavori di casa, inciampando di continuo nei debiti (non paga la luce da anni, utilizza gratuitamente l’ascensore e di fatto desta la riprovazione dei condomini che vorrebbero farlo mandar via). Per non scontentare Luigi (Alfonso Santagata), l’amministratore che lo protegge e gli offre di scontare i debiti condominiali (dice che deve andare alle terme per motivi di salute ma poi parte con una ragazza giovane), accetta di tenere in casa durante il periodo di ferragosto la madre di quest’ultimo. Ed è poi costretto a far lo stesso con la zia dello stesso Luigi e con la madre di un amico medico, che lo cura gratis affettuosamente, e che non vuole lasciarla sola durante il turno di notte. Alla fine si trova quattro anziane donne in casa, fa delle acrobazie per sfamarle, è costretto ad andare in giro in una Roma deserta per trovare del pesce per un conveniente pranzo di ferragosto, per accorgersi poi di aver dato vita ad un quartetto femminile di straordinaria intensità da cui accetterà denaro per tenere in piedi una sorta di famiglia senile ma felice.
Si sente che il film è opera di uno sceneggiatore improvvisatosi regista, ma si sente anche il gusto della piccola opera esatta e rifinita, del piacere di un aneddoto breve ma civile, di un elzeviro inatteso in un momento in cui il cinema italiano è prevalentemente magniloquente e ammonitorio o soltanto furbesco. È un film pieno di trovate minime ma garbate: si veda il rapporto fra Gianni, ormai uomo di casa da molti anni, con la cucina e il vino bianco, di cui fa un consumo affettuoso e continuo secondo le tradizioni proletarie di una città ove il vino rosso è sempre stato considerato con sospetto. Naturalmente il film vive grazie alla rinsecchita ma festosa presenza di quattro anziane signore, e cioè: Marina Caciotti (85 anni, la madre di Luigi), Valeria De Franciscis (93 anni, la madre di Giovanni), Grazia Cesarini Sforza (90 anni, madre del medico impersonato da Marcello Ottolenghi) e Maria Calì (87 anni, la zia di Luigi). Sono loro la grande invenzione di un piccolo film grazioso ed al tempo stesso simbolo di una nazione ormai protesa senza remissione verso la vecchiaia.



Claudio G. FAVA




("EMME-Modena Mondo", a. 2, n. 81 del 24 Settembre 2008)

13 settembre 2008

GIOCHI DELLA MEMORIA (3)



In questi giorni si è molto parlato e scritto della copia restaurata (credo da Tatti Sanguineti) della parte allestita da Pasolini per il film "La rabbia", in cui questo frammento veniva proiettato a fianco di un brano omonimo scritto e inventato da Giovannino Guareschi. Com'è noto, il film di Pasolini è stato rimpolpato da brani recuperati e proiettato alla Mostra di Venezia "senza" il pezzo di Guareschi. Nei giorni scorsi mi è capitato, su invito del Prof. Dino Cofrancesco di dirigere una tavola rotonda (presenti i Professori Monti Bragadin e Cipolloni) a conclusione di un congresso sulla satira politica. La manifestazione era organizzata come appuntamento annuale di studi italiani ad uso di universitari stranieri, indetta nella bellissima Villa Durazzo di S. Margherita Ligure e curata dallo stesso Cofrancesco. A conclusione della serata è stato proiettato il brano allestito e commentato da Guareschi, cioè quello che Giuseppe Bertolucci, Presidente della Cineteca Comunale di Bologna, aveva tolto dalla copia presentata al Lido, causando le proteste di Alberto e Carlotta Guareschi (Bertolucci, che è una persona molto perbene, riconoscendone le motivazioni, ha addirittura abbandonato il compito che si era assunto per Venezia). Dopo quarantacinque anni ho pertanto rivisto a S. Margherita il frammento de "La rabbia", curato dal papà di Peppone e Don Camillo, presentato come tipico esempio di satira politica. Passato quasi mezzo secolo, lo confesso, non mi ricordavo assolutamente nulla ma mi è venuta voglia di rileggere quello che avevo scritto a suo tempo, quando ero il critico cinematografico de "Il Corriere Mercantile" di Genova. Ho trovato il ritaglio, Chiara ha avuto la gentilezza di batterlo al computer, è breve e lo trascrivo qui, augurandomi che possa interessare qualche lettore anche se il pezzo, riletto adesso, mi sembra resti nel vago.



CINEMA LUX

LA RABBIA – Italia – Bianco e nero- antologia di montaggio – 1 a. parte a cura di: Pier Paolo Pasolini – Voci: Giorgio Bassani, Renato Guttuso – 2 a. parte a cura di: Giovannino Guareschi con Giacinto Solito – Voci: Carlo Romano, Gigi Artuso – Montaggio: Nino Baragli – Produzione: Opus Film – Galatea - Distribuzione: Warner Bros.

Ecco una curiosa trovata, anche in un’epoca sempre più favorevole ai film di montaggio ed alle antologie filmate di costume e d’attualità. Affidare, cioè, a due personalità totalmente diverse, opposte, antitetiche, che più clamorosamente disarmoniche fra loro non si potrebbero immaginare come Pasolini e Guareschi un compito eguale: rispondere, attraverso un montaggio di immagini di avvenimenti di questo dopoguerra, ad una stessa, complessa, dolorosa domanda: “quali sono le ragioni della nostra stanchezza, della nostra angoscia, della nostra paura, della paura della guerra e della guerra stessa, di cui tutti soffriamo o abbiamo sofferto?”. Ognuno ovviamente, ha risposto a modo suo, Pasolini, da marxista militante, aggrappandosi alle immagini di povertà e di ricchezza, alla pompa fastosa della Chiesa e al messaggio di pace del Concilio Ecumenico (ma i brani che riguardano il Papa sono, solo all’apparenza beffardi. In realtà celano una ambivalenza affettuosa e tormentata, tipica dell’autore). Celebrando la Russia e i russi, e Fidel Castro e gli algerini, pur con dolorose e incomplete punte di critica e di autocritica. Guareschi, da anticomunista convinto, ricordando la scomunica del 1949, l’orrore delle fosse di Katyn o del muro di Berlino. Il commento di Pasolini (particolarmente uggiosa la cupa voce salmodiante di uno dei due “lettori”, il pittore Renato Guttuso) raggiunge qualche alto momento di tensione poetica; ma altrettanto spesso, invece, si impiglia in una tenera e complice oscurità di frasi e di concetti (tipico, a questo riguardo, è l’inizio, con il commento ai fatti di Budapest). Il commento di Guareschi, evidentemente più semplice di struttura e più discorsivo, suonerà famigliare ai suoi antichi lettori di “Candido”. Come si diceva, il film è una “trouvaille” che si esaurirà in se stessa. Troppo diversa è la personalità dei due autori (hanno in comune solo tre cose: sono entrambi cittadini italiani, entrambi sono settentrionali ed entrambi hanno frequentato il Liceo classico; per il resto due monadi, distinte e incomunicabili), [la recensione è stata pubblicata omettendo una parte del testo] rende impossibile una polemica, anche a distanza e senza contraddittorio.
La mancanza di uno sviluppo dialettico qualsiasi confina il film nei limiti sconsolanti d’una testimonianza, significativa anche se parziale, della barriere mentali che dividono gli uomini di oggi gli uni dagli altri, ognuno col suo bagaglio di fedi, pregiudizi, incomprensioni, odii nascosti.
c.g. f. (Claudio G. Fava ,"Corriere Mercantile",
16/04/1963)