Blog - Crediti


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18 maggio 2009

In nome del “Peuple” italiano



(Nell'immagine qui a fianco il simbolo de "L'Union Valdôtaine")


Da molti anni ricevo regolarmente il settimanale “Le peuple valdôtain”, organo ufficiale de “L’Union Valdôtaine”, la formazione politica che ha il massimo dei consensi in Valle d’Aosta (data la struttura del voto europeo, nelle elezioni passate si era alleata con il Partito Democratico; per le elezioni del 6-7 Giugno 2009 si è invece alleata con il PDL, brusco cambiamento di indirizzo che però tiene conto delle peculiari caratteristiche del voto all’interno di una piccola regione autonoma; com’è noto, i collegi delle votazioni europee sono ampi e se non mi sbaglio in Liguria si può votare per “L’Union Valdôtaine”,). Debbo dire che il “Peuple valdôtain” io me lo leggo in genere dalla prima all’ultima riga, compresi i notiziari di ogni tipo, gli annunci delle recite teatrali in franco-provenzale, che i valdostani chiamano “Patois”, e perfino gli esiti degli sport locali che hanno nomi misteriosi e di cui non so assolutamente niente: Fiolet, Tsan, Rebatta. Questo per dire lo scrupolo con cui studio una pubblicazione ove cerco di individuare le caratteristiche minute e collettive di un movimento politico il quale nasce da una rivendicazione etnica e linguistica, ma che dopo 60 anni mi sembra sia divenuto un automatismo ed una civetteria locali.
Perché dico questo? Perché il giornale da un lato risponde ad un preciso richiamo culturale ribadito dall’uso del francese. In italiano si ritrovano soltanto frammenti di discorsi politici generali, ricopiati pari pari, o i flani pubblicitari di ditte valdostano-piemontesi, che evidentemente non possono concedersi variazioni bilingui e che perciò annunciano “Fornitura e posa in opera di serramenti esterni” oppure “Produzione tubi e raccordi in PVC e PE”. Tutto il resto è in francese, in una lingua scrupolosamente rispettata ma in qualche modo inamidata con delle piccole infiltrazioni italiane (ad esempio gli assessori regionali e comunali si chiamano “assesseurs” e non “adjoints”, “du maire” per quelli comunali, e via variando). Leggendo il giornale si ha la sensazione, forse errata, di una puntigliosa consultazione di vocabolari italo-francesi per non includere erroneamente italianismi e modi di dire locali, in italiano o in dialetto. C’è stato un periodo in cui regolarmente io venivo invitato (adesso mi muovo meno) al “Noir in Festival”, consolidata manifestazione sul cinema e sul romanzo gialli, di cui sono stato consulente già quando si svolgeva prima a Cattolica (il “MystFest”) e poi a Viareggio. Il “Noir in Festival” ha sede a Courmayeur, antica località montana prediletta dai Savoia, dove, a parte qualche albergo e qualche ristorante con il nome francese, tutto è italiano: dalle insegne alla lingua di ogni giorno. L’italiano è totalmente prevalente anche sulla bocca di quelli che teoricamente dovrebbero essere francofoni: a me è capitato nel principale hotel di Courmayeur di cenare con un gruppo di influenti politici locali. Quando arrivavano si stringevano la mano dicendo “Bonsoir, Bonsoir”, e poi proseguivano il discorso in italiano. Del resto la Francia dista non più di una ventina di km, compresa la lunga galleria di confine, ma è come se fosse situata in un’altra parte del mondo. Ad esempio dai giornalai, mentre c’è un’ampia scelta di quotidiani italiani e di lingua inglese come in tutte le stazioni turistiche eleganti, non c’è un solo giornale francese: né “Le Monde”, né “Le Figaro”, per non parlare dei locali come il “Dauphinée Liberé”. Non faccio cenno della lingua che si ode per strada, che è l’italiano per gli indigeni e l’italiano con forte accento milanese per i turisti.
Al contrario, tutta la politica de “L’Union Valdôtaine” ribadisce una commovente fedeltà, non so se formale o sostanziale, al francese come lingua e come cultura. La regione fa orgogliosamente parte della comunità mondiale francofona e partecipa con suoi inviati ufficiali alle periodiche riunioni in giro per il mondo, ovunque ci sia una minoranza etnica o anche solo culturale di lingua francese. Un esame attento del settimanale consente molte piccole scoperte parziali. Ad esempio la maggioranza dei politici de “L’Union Valdôtaine” ha cognomi francesi ma spesso nome proprio italiano (si vedano Alberto e Italo Cerise, Giuseppe Jocallaz, Carlo Grosjaques, eccetera). Mentre c’è tutta una generazione il cui nome proprio francese figura orgogliosamente a fianco del cognome (Jean-Pierre Lillaz, Joel Farcoz, Laurent Brunodet, Laurent Dunoyer: che son tutti giovani e che si direbbe abbiano recuperato il suono interamente francofono dell’identità al di là delle convenzioni dello Stato Civile). Altrettanto dicasi delle nascite e dei decessi, dove le spinte si intersecano. La nascita di Ronny Pongan e la morte di Pierina Bordet veuve Pasquettas, come quella del signor Carlo Rolland, ex partigiano, ovvero “ancien maquisard”. E ben’inteso, salto a piè pari i nomi e i cognomi italiani largamente presenti fra i politici in generale ed i militanti di base. Da tutti questi dati si deduce una risicata politica locale apparentemente assai simile nelle strutture formali alle venature esplicitamente tedesche della provincia di Bolzano e dell’Alto Adige in genere, che rispondono all’esistenza di due gruppi etnici e linguistici che non si fondono e che, semmai, si tengono d’occhio furbescamente. Qui, rispetto alla zona “tedesca” dell’Italia, la fusione operata prima e soprattutto durante il Fascismo, con la scrupolosa italianizzazione dei nomi francesi delle località (quando Courmayeur era diventata “Corte Maggiore” e le barzellette locali dicevano che “Prés Saint Didier” sarebbe stato traslato in “Prete senza didietro”), è ben maggiore e ben diversa. Si ha spesso la sensazione che il bilinguismo formale, riscontrabile nelle scritte ufficiali, non corrisponda ad una realtà oggettivamente presente nella vita di tutti i giorni.
Rimane soltanto la rispettosa lettura de “Le peuple valdôtain”, a cui mi concedo con devozione ogni settimana, come di fronte ad un piccolo miracolo linguistico ebdomadario.

Claudio G. FAVA

14 maggio 2009

LA GENIALE E FRAGILE ETNOLOGIA DI GIANNI BRERA

Io seguo il calcio sin da bambino, prima della guerra dunque, sicché non è strano che a suo tempo io sia diventato un lettore accanito di Gianni Brera. La vorticosa felicità verbale e verbalistica del suo scrivere volutamente “lombardo” hanno fatto la gioia di migliaia di affezionati e non intendo riscoprirla qui. Fra le cose affascinanti di Brera c’era, fuori di dubbio, la sua posizione, come dire, “etnologica”, dettata dalla consapevolezza che gli italiani era costituzionalmente deboli e quindi forzosamente votati al catenaccio ed al contropiede. Non potevano che difendersi e cercare di colpire, una volta effettuata la parata, come nei romanzi sulla scherma. Non so quanto questa prospettiva fosse fondata, ma Brera la affermava con quella lampeggiante capacità di scoprire e rinverdire un vocabolario nazionale, dialettale e latineggiante al tempo stesso, che costituiva una delle sue fascinazioni di scrittore. In questi ultimi tempi ho pensato spesso alle toccanti ma presumibilmente fragili teorie di Brera, proprio guardando in televisione le squadre di calcio più famose al mondo. Più sono celebri, più i giocatori provengono da orizzonti totalmente diversi. Neri pienamente africani o filtrati da passaporti europei (tipici, ad esempio, i francesi e gli olandesi, con i loro oriundi del Suriname). Latino-americani di ogni estrazione, dagli argentini, spesso di sangue ligure o piemontese, agli altri, peruviani, cileni, eccetera, con le complicazioni razziali proprie di nazioni dallo storico meticciato. Per non parlare dei brasiliani che per metà sono neri o nerissimi e per il resto diventano un’antologia di due secoli di immigrazione europea. Il risultato finale è che, essendo sparita ogni colorazione propriamente “patriottica”, qualsiasi speculazione sugli “obblighi” nazionali dei calciatori è fisiologicamente scomparsa. Per fare un esempio, si prenda l’Inter attuale, dove gli italiani che giocano sonorarissimi. Dal bambino italiano Santon al semi-desaparecido Materazzi, oppresso da un carico schiacciante di tatuaggi, i due sono larghissimamente sovrastati dagli stranieri, in massima parte argentini e brasiliani, ma anche di altra origine, sino ad arrivare ad un centravanti bosniaco dal passaporto svedese (Ibrahimovic). È un po’ difficile, pertanto, che un ammonitorio allenatore portoghese, che ha imparato benino l’italiano ma che dell’Italia sembra essersi già stufato, possa rilanciare una visione “etnica” del calcio. Il “folber” caro a Brera è pertanto irrecuperabile e può avere corso unicamente nelle squadre nazionali, pur con i loro allenatori stranieri, ammesso che ci sia qualcuno nella stampa sportiva che abbia la tenacia (e la genialità) di riscoprire il gusto ottocentesco dell’invenzione parascientifica che fu di Gianni Brera. Naturalmente le sue qualità non possono essere confinate soltanto in questa paradossale e divertita teoria antropologica. Ho accennato prima al livello straordinario delle sue creazioni verbali o del suo recupero di parole divenute, nel senso breriano, di uso corrente fra i tifosi. Si pensi, tanto per fare qualche esempio, a termini come “goleador”, “melina”, “incornare”, “pretattica”, “atipico”, “centrocampista”, “cursore”, “euclideo”, “la dea Eupalla”, che apparvero fulminanti nelle pagine di Brera e che, riscoperti da stanchi imitatori, rivelano un tronfio sapore di volonterosa goffaggine cittadina, da parte di chi non ha un passato lombardamente e fluvialmente agricolo (ci sono quelli che scrivono “Non si può cantare e portar la croce”, senza poter aggiungere al proprio trascorso la vocazione paesana e religiosa di quella Padania che Brera invocò ben prima, e con maggiore eloquenza, della Lega).
Claudio. G. FAVA

5 maggio 2009

Bertrand Tavernier - video

Questo video E' stato girato in occasione del trentesimo anniversario, celebrato la sera del 16 Dicembre 2008, dell'attività di Cineclub nei locali del Teatro Comunale di Alessandria. Attività organizzata dallo stesso nucleo che da molti decenni bandisce il "Premio Ferrero" e da diverso tempo la manifestazione "Ring!", Festival della Critica Cinematografica Italiana. Quella sera veniva proiettato il film "Che la festa cominci" di Bertrand Tavernier, scelto appunto trent'anni prima (nel 1978) per iniziare le manifestazioni del Cineclub.


4 maggio 2009

Marchionne e la nobiltà


(Nella foto qui sopra: Sergio Marchionne, come sempre senza cravatta)

Confesso di essere rimasto molto impressionato dal raid di Marchionne in America e dei suoi prolungati viaggi andata e ritorno da Torino a Detroit su un piccolo aereo personale, che gli consentiva tuttavia di dormire. Dopo aver portato a termine incredibilmente l’operazione Crysler, egli da oggi, Lunedì 4 Maggio, si dedicherà al difficilissimo negoziato per l’acquisizione della Opel. Com’è noto, la Opel è la filiale tedesca, e credo attiva dal punto di vista finanziario, della fallimentare General Motors americana. Sembra i tedeschi siano molto maldisposti all’idea di cedere la Opel ad una industria italiana, paese dal quale i tedeschi importano cantanti e killer della ‘Ndrangheta ma al quale non sembra siano intenzionati a vendere automobili, e operai, germanici.
Il ribollente Marchionne è nato nel 1952 a Chieti (città che dista solo 113 km da L’Aquila) ed è palesemente partecipe della stessa intensità e dignità di reazioni tipiche degli abruzzesi che abbiamo imparato a conoscere, attraverso la televisione, in questo mese di terremoto. Adesso dovrà vedersela con le massime autorità federali tedesche, fra cui il Premier Angela Merkel, figlia di un pastore protestante cresciuta nella Germania Est e quindi doppiamente educata alla durezza di reazioni. E al suo fianco Marchionne troverà il giovane Ministro Federale Tedesco per l’Economia e la Tecnologia, in carica dal 9 Febbraio 2009.

(Nella foto qui sopra: Karl-Theodor von un zu Guttenberg, Ministro Federale Tedesco per le Finanze e la Tecnologia)


Ha un nome impressionante, Karl-Theodor Maria Nikolaus Johann Jacob Philipp Franz Joseph Sylvester Freiherr (cioè barone) von und zu Guttenberg. È nato a Monaco di Baviera il 5 Dicembre 1971, è stato Segretario Generale della C.S.U., cioè del partito democristiano della Baviera, e i suoi legami familiari hanno un che di romanzesco. È figlio di un direttore d’orchestra, Enoch von und zu Guttenberg, e di una nobildonna, Gräfin und Edle Herrin, cioè “contessa e nobile signora”, Christiane von und zu Eltz “Genannt” (cioè “detti”) Faust von Stronberg, imparentata con i principi del Liechtenstein e discendente da parte di madre dai conti di Merano, linea morganatica degli Asburgo-Lorena. È divertente notare che, divorziata da Enoch nel 1977, ha sposato niente di meno che Adolf von Ribbentrop, figlio di Johan von Ribbentrop, Ministro degli Esteri di Hitler. Dal canto suo, il nostro Karl-Theodor ha sposato Stephanie “Gräfin” (cioè “contessa”) von Bismarck-Schönhausen, pronipote di Otto von Bismarck-Schönhausen, notissimo Primo Ministro di Guglielmo di Prussia, poi Imperatore di Germania. Bismarck fu Cancelliere della Prussia dal 1862 al 1870 e da questa data Cancelliere dell’Impero fino al 1890. Rimase in carica pertanto 28 anni e fu soprannominato, com’è noto, il “Cancelliere di ferro”. Dal matrimonio con Stephanie sono nate due figlie. La parentela del Ministro è varia, sempre all’interno di famiglie nobiliari. Per fare un solo esempio egli è infatti cugino di Florian Henckel von Donnersmarck, (anch’egli di famiglia patrizia fuggita all’Ovest dall’Est) reso subitamente famoso per aver girato un film del 2006 “Le vite degli altri”, centrato sul terribile precedente della Germania Est, rappresentato dalla “Stasi”, nome abbreviato della polizia politica comunista, che si chiamava in realtà “Staatsicherheit”, ovvero “Sicurezza di Stato”. Il film fu premiato con l’Oscar per il Miglior Film in Lingua Straniera.
Mi auguro che in questo reticolato di nobili l’ottimo Marchionne, figlio di un sottufficiale dei Carabinieri emigrato in Canada, e quindi presumibilmente devoto alle autorità, non perda completamente la testa.
P.S.: Questi dati sono frutto delle mie incursioni in Internet, divenute ormai per intere generazioni la madre di tutte le enciclopedie.