Blog - Crediti


L'audio e i video © del Blog sono realizzati, curati e perfezionati da Lorenzo Doretti, che ha anche progettato l'intera collocazione.
L'aggiornamento è stato curato puntualmente in passato da diverse collaboratrici ed attualmente, con la stessa puntualità e competenza, se ne occupano Laura M. Sparacello ed Elisa Sori.

30 gennaio 2013

A DOMANDA RISPONDE



Vado, nell’ordine partendo dai post del 15 Gennaio via via fino agli ultimi del 28 Gennaio.



Ringrazio Giulio Fedeli per le precisazioni sugli usi della Cavalleria Corazzata. Me ne aveva parlato un collega che aveva prestato servizio in un reggimento un tempo famoso (Nizza? Genova? Savoia?, non ricordo) e mi aveva parlato anche lui del comando “a cavallo” per salire sui carri. Non sapevo, e trovo divertente, il particolare dei “ferri” che simulavano i rumori degli zoccoli dei cavalli. Su Scopigno confesso di non sapere altro che quello che ho scritto mentre ricordo molto bene Tito Cucchiaroni, che ho visto giocare nella Sampdoria; non vorrei sbagliarmi ma mi sembra fosse un ala sinistra. Proveniva dal Boca Juniors e poi dal Milan. Nella Sampdoria c’è stato (ho controllato) dal 1958 al 1963. Cinque anni durante i quali ha evidentemente affascinato i sampdoriani, visto che gli hanno dedicato un Club, credo molto attivo. Come dicevo l’ho visto giocare ma non mi ricordo nulla di lui. Cambiando argomento vedo che Fedeli trova “splendida” l’idea di un “Maigret politico”. Sto meditando (ma è uno stimolo che forse non si concreterà mai) un racconto ambientato nel 1943, e quindi più o meno in linea con i presunti dati “biografici” riguardanti il Commissario. Maigret dovrebbe venire a far parte nel 1943, ovvero un anno prima della liberazione di Parigi, di una organizzazione segreta aderente alla Resistenza chiamata “Honneur de la police”, che si prefiggeva di combattere i tedeschi e di sfatare l’aria di collaborazione che i “flic” avevano largamente praticato, a partire dal 1940, anche in quelle zone della Francia, come appunto Parigi, comprese sin dall’inizio nel territorio direttamente occupato dai tedeschi e quindi formalmente sottratto all’autorità della cosiddetta “Francia di Vichy”. Dal canto suo Gianni dello Iacovo mi trova concorde quando dice che “se fra trecento anni qualche curioso volesse sapere come era il mondo nel Novecento leggendo qualcuno di questi libri (appunto dai Maigret) imparerebbe molto di più che da molti trattati. Infine vorrei ricordare alla sempre presente Rosellina che “Vavà, Didì, Pelè” furono parte di quel favoloso attacco brasiliano con Garrincha (che meritò un documentario intitolato appunto “Garrincha, alegria do povo” cioè “Allegria del popolo”) all’ala destra. Come è noto egli era in grado di dribblare tutti grazie ad un ginocchio difettoso. Quell’attacco strepitoso imparammo a conoscerlo attraverso la televisione svedese nel 1958, grazie alla quale prendemmo conoscenza di tre personaggi fondamentali nel calcio post-bellico come Gren, Nordhal e Liedholm, divenuti di casa anche in Italia. Quel Brasile era, dal punto di vista etnico, un Brasile, non so come dire, all’antica. I neri erano nerissimi, come i due strepitosi difensori Djalma Santos e Nilton Santos, e gli europidi erano bianchi, come ad esempio Bellini. Come è noto i fuori classe brasiliani di oggi sono razzialmente intermedi: fisionomie fra l’europeo e l’africano e pelle scura di una coloritura che mi sembra tipica del calcio “do Brazil”. Potrei continuare ma rischierei di abbandonarmi ad un soliloquio calcistico (mi limiterò a ricordare che l’incredibile conferenza stampa di Trapattoni è facilmente rintracciabile in Google: si conclude con la frase “Ich habe fertig” che a quanto sembra in tedesco non esiste e che è diventato un errore famoso).

Venendo ad altri argomenti ringrazio Enrico per i suoi ricordi su Urania (confesso di essere andato a vedere il sito che lui mi ha segnalato). In una delle prime copertine ho rintracciato un romanzo di cui mi ricordo benissimo la trama ma di cui non ricordavo il titolo, e cioè “Il pianeta dei Mog”. Come sempre grazie a Giorgio di Roma che apprezza la mia rubrica sul Mercantile. Per quello che riguarda il mio articolo su Bottai, mi auguro che tutti abbiano visto che il testo tratto dal diario dello stesso Bottai è stato riproposto nel Blog da Doretti in modo ora assolutamente leggibile. Attendo la tesi di Rosellina Mariani sul tema “Gli intellettuali italiani di fronte al fascismo” e mi fa piacere che possa vedere in internet il sito con i disegni di mia moglie Elena Pongiglione. Venendo a Gianni dello Iacono gli confermo che nella copia originale di Casablanca esisteva un piccolissimo frammento, in cui scodinzolando a fianco del terribile maggiore tedesco (interpretato dal grande Conrad Veidt) appariva un ometto con una divisa che sembrava quella di un guardiano d’albergo libanese. Avrebbe dovuto incarnare l’equivalente italiano dell’ufficiale tedesco, essendo i due i rappresentanti della Commissione di Armistizio. Credo che per pudore patriottico in Italia (si tratta di pochi secondi) il frammento sia stato tagliato sin dalla prima apparizione di “Casablanca” e mai più restituito. Non so come mai ma è sempre andata così. E confesso che anche io, nei miei interventi di “restitutio in integrum”, mi sono sempre dimenticato di occuparmi del problema.
Infine, per quel che riguarda l’articolo su Gianni Agnelli e Alberto Sordi, confermo ad Enrico che questo ultimo era un personaggio straordinario e, in certo modo misterioso. Io ho avuto con lui una certa dimestichezza, avendo scritto su Sordi un libro via via sempre aggiornato sino al momento dei funerali (ho provato una certa vanità quando Goffredo Fofi, che ha scritto anche lui un libro su Sordi, me lo ha inviato con una dedica in cui dice che grazie al mio lavoro ha risparmiato metà della fatica). Tuttavia i rapporti fra e me e Sordi furono sempre formali e corretti. Ci siamo sempre dati del Lei, in un ambiente come quello dello spettacolo romano in cui tutti si danno del Tu, ma mi ha concesso la possibilità di sbirciare nella sua complessa psicologia. In certo senso un ritratto pieno dell’uomo è quello che vien fuori da un film che avevo sottovalutato all’inizio come il Marchese del Grillo e che invece è un piccolo capolavoro e, in certo modo, rispecchia anche la “crudeltà” di Sordi e il suo gusto freddo per le burle. E inoltre la sua fedeltà “politica” di cattolico romano all’antica. “Caro Fava” mi disse una volta “si ricordi che l’ultimo Papa è stato Pio XII”. E aggiunse (c’era ovviamente Giovanni Paolo II) “Ma questo Papa polacco quando dice: LA MATONNA, cosa fa, bestemmia?”.
Mi fermo qui ma potrei continuare ancora per molto. Ringrazio Bollicine per i suoi complimenti ma purtroppo non posso accontentarlo a proposito di Adriano Olivetti, che era, credo, un genio ma che non conosco abbastanza.



Molti cari saluti e ringraziamenti a tutti.

LA STANZA DEL CINEMA A GENOVA


Da circa quattordici anni il Gruppo Ligure Critici Cinematografici da vita, da ottobre a giugno, ad un appuntamento mensile, ogni primo lunedì del mese con un gruppo ormai fedele di ascoltatori. Si tratta della cosiddetta “Stanza del Cinema” in cui, per circa un’ora e mezza a turno due critici membri del Gruppo Ligure, riassumono ed esaminano i film più interessanti fra quelli proiettati a Genova nel mese appena decorso. Il tutto avviene con la mia “direzione” perché fui io, agli inizi, accettando una richiesta del caro amico Arnaldo Bagnasco, ahime da poco scomparso. Come Presidente di Palazzo Ducale (vecchio e famoso edificio al centro di Genova, tornato ad essere da qualche tempo al centro della vita culturale della città) mi aveva chiesto di affiancare, a lato della già esistente “Stanza della Poesia” appunto una “Stanza del Cinema”. Io chiesi l’intervento dei colleghi del Gruppo e d’allora l’iniziativa prosegue felicemente.
Da oggi, e farò così ogni mese, nella speranza di fare cosa utile per i lettori genovesi del Blog, pubblico il comunicato stampa che il Gruppo emana ogni volta.

GRUPPO LIGURE CRITICI CINEMATOGRAFICI

Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani.
Genova 16121 Genova Via Fieschi 3/26 (13° piano).
Tel. 010565702 Fax 010 564170

Lunedì 4 Febbraio 2013, alle ore 17 e 30, a Genova nei locali dell’Istituto di Storia Patria, al piano terreno di Palazzo Ducale, si terrà la consueta Stanza del cinema. L’iniziativa, giunta al quattordicesimo anno, è curata dal Gruppo Ligure Critici Cinematografici (SNCCI) in accordo con la Direzione del Ducale. 
Piero Pruzzo e Francesca Felletti parleranno dei film usciti a Genova nel mese di gennaio.
Alla discussione parteciperanno sia il pubblico, sia altri colleghi del Gruppo.
Lo stesso giorno La Gazzetta del Lunedì pubblicherà una tabella con i punteggi assegnati dai critici liguri ai film in discussione.
Guiderà il dibattito Claudio G. Fava.
L’ingresso è libero.

Francesca Felletti – ufficio stampa gruppo ligure critici cinematografici
349.0514823

28 gennaio 2013

L'OSSERVATORE GENOVESE

VISTO CON IL MONOCOLO

Come è ormai un'abitudine riproduco qui il testo della mia rubrica citata nel titolo, apparso nel Corriere Mercantile di domenica 27/01/2013.

GIANNI & ALBERTO RE D'ITALIA DA ESPORTAZIONE

“La Stampa” ha pubblicato Domenica scorsa uno “speciale” per commemorare Gianni Agnelli nel decennale della scomparsa (era nato il 12/03/1921 e morì il 24/01/2003). Queste righe appaiono in un giornale che con “La Stampa” (quotidiano di famiglia) viene venduto, come si dice, “in panino”ma ribadiscono comunque il carattere estremamente rappresentativo di Agnelli. In questi giorni tutti i giornali italiani si sono furiosamente dedicati a rievocarlo, e non vorrei pertanto cimentarmi in una ulteriore ostentazione (al di là della personale, enorme simpatia per un uomo troppo al di sopra della mia collocazione sociale perché io potessi conoscerlo e frequentarlo; chi mi conosce sa che ero considerato piuttosto bravo nell’imitarne l’accento e il rotacismo). Quel che ancora una volta mi ha colpito nella sua morte è stato il misterioso legame che in questa occasione lo ha unito ad Alberto Sordi (quasi coetaneo, era nato il 15/06/1920 e morì il 24/02/2003, ad un mese esatto di distanza). Seguii con attenzione in televisione entrambi i funerali (a quello di Sordi avrei potuto, avendo scritto un libro su di lui, essere ospitato ma preferii astenermi) e non posso dimenticare l’enorme impressione che in entrambi i casi mi fece il concorso della folla. Le due cerimonie divennero una sorta di parafrasi regale, quasi si celebrasse la morte di un ipotetico Re del Centro Sud- e di uno altrettanto ipotetico del Nord. Le due folle immense che seguirono le celebrazioni avevano caratteristiche precise e rivelatrici: quella romana dichiarava la profondissima affinità nutrita verso un Figlio Prediletto in cui riconoscersi e giustificarsi (so cosa voleva dire andare in giro per Roma con Sordi a fianco: la gente rimaneva fulminata come se avesse visto il Papa). Quella torinese, passando davanti alla famiglia compostamente riunita al Lingotto, svelava le due profonde radici della città. Da un lato i piemontesi che salutavano “L’Avucat”. Dall’altro i meridionali ed i loro figli e nipoti che testimoniavano della loro fedeltà ad un “padrino” che li aveva presi di peso a casa e condotti in un altro mondo. Un immagine che aveva la schiacciante, indimenticabile lucidità di un trattato di sociologia.

24 gennaio 2013

SALVATE LA TIGRE

Pubblico qui la puntata più recente della rubrica, apparsa su Film TV agli inizi di gennaio. Man mano che il tempo passa i ricordi del passato impallidiscono e quindi anche le memorie dei miei "salvataggi". Ma, come vedete, qualcosa mi ricordo ancora...

HUMPHREY BOGART  

Nella puntata scorsa ho ricordato un ciclo di cui sono particolarmente orgoglioso, e cioè quello su Jean – Pierre Melville. Adesso vorrei rievocare un altro ciclo del passato, in onda su Rai Uno dal giugno 1975. Titolo, “Humphrey Bogart: il fascino della solitudine”. Fu facile per me pronosticare il successo divistico in Tv di un personaggio come “Bogey” che, in un’ epoca di rigido monopolio televisivo della Rai, provocò una sorta di entusiasmo nazionale. I film del ciclo furono molti (almeno una decina). Fra di essi ve ne erano diversi, editi a suo tempo ma, visto che avevo la proibizione di far sottotitolare i film, di fatto non utilizzabili perché non si trovava più la colonna del doppiaggio: il più fascinoso, “Il mistero del falco” di John Huston (1941), il più famoso, “Casablanca” di Michael Curtiz (1942), il peggiore, “Agguato ai tropici” ancora John Huston (1942), il migliore, “Il grande sonno” di Howard Hawks (1946). Infilai tutti in un unico calderone di doppiaggio ove la voce di Bogart divenne quella di Paolo Ferrari, abilissimo nel foggiarsi una inattesa tonalità quasi roca. Per quel che riguarda “Il grande sonno” mi ero ripromesso assolutamente di intervenire quando avevo letto in una corrispondenza da Cannes di “Pietrino” Bianchi che il film lo proiettavano in un cinematografo di Rue d’Antibes mentre era vergognosamente assente da anni in Italia. In “Agguato ai tropici” mi sedusse la presenza, nei panni inverosimili di una spia inglese al servizio del Giappone, di Sidney Greenstreet, il favoloso grassone di “Casablanca”. Per questo ultimo film provvidi a far sottotitolare le arroganti parole di “Die Wacht am Rhein” che provocano la rivolta dei francesi nel Caffè di Rick. I disegni della sigla del ciclo, molto belli, furono di mia moglie Elena Pongiglione.

23 gennaio 2013

L'ENIGMA DI VITTORIO EMANUELE III VISTO DAL LEGIONARIO BOTTAI


Si può dire che è da tutta una vita che io mi interrogo su Vittorio Emanuele III (o almeno sin da quando, ragazzo, appresi la mattina del 26 Luglio 1943 della caduta di Mussolini). Personaggio assolutamente enigmatico il penultimo Re d'Italia (come è noto l'ultimo fu suo figlio Umberto, per poche settimane "Re di Maggio") stette sul trono 44 anni, se si guarda alla sostanza dei poteri, e 46 se ci si limita a un formale calcolo di competenze. Un periodo lunghissimo durante il quale egli fu tutto e il contrario di tutto. Salito al trono nel 1900 nell'onda clamorosa dell'assassinio di suo padre Umberto I, egli fu, sino all'ottobre del 1922 ovvero all'avvento del fascismo, un pignolissimo Re costituzionale, formalmente attento alle competenze degli organi deputati ed all'equilibrio dei partiti e dei poteri. Con il fascismo egli, pur sempre formalista, giorno per giorno cedette all'aggressivo movimento mussoliniano frammenti sempre più importanti di quella Costituzione elargita da suo nonno Carlo Alberto, sino ad arrivare a due firme tragicamente decisive: quella sulla legge che varò i provvedimenti cosiddetti razziali, vale a dire contro gli ebrei, e quella che autorizzò la catastrofica entrata in guerra del 1940. Nel primo caso Casa Savoia smentiva un atteggiamento molto esplicito al riguardo, visto che lo Statuto di Carlo Alberto aveva totalmente liberato gli ebrei piemontesi e addirittura concesso molti titoli nobiliari a molti israeliti. Nel secondo, prodotto di una dinastia squisitamente militare o militarizzata, Vittorio Emanuele sapeva benissimo di avere fra le mani un esercito profondamente inadatto a qualsivoglia atteggiamento offensivo e probabilmente mediocre anche all’ interno di una struttura propriamente difensiva. Anche in piena dittatura egli ricevette, sia dalla parte di civili che di militari, infinite richieste di non lasciarsi trascinare ad una dichiarazione di guerra che avrebbe travolto sia l’Italia che la Monarchia, come puntualmente avvenne. Al tempo stesso è fuori di dubbio che questo uomo cauto e diffidente, profondamente ulcerato dalla sua pochezza fisica, era anche una persona di larghissima cultura nozionistica, in grado di parlare correntemente diverse lingue ed in possesso di una massa impressionante di informazioni storiche e geografiche. Basti pensare che per commentare il “Corpus numorum italicorum”, in cui egli raccolse una straordinaria collezione numismatica, scrisse di suo pugno, per ogni moneta si badi, la storia della moneta stessa e del periodo in cui era stata concepita e fabbricata. Nulla era più lontano da lui della retorica pseudo-romana di cui si ammantò quasi furiosamente il Fascismo. La sopportò per due decenni sino a quando, in modo imperdonabilmente tardivo, egli entrò in scena per abbattere Mussolini, valendosi, con esplicito scrupolo formalistico, di una pronuncia di un organismo pur raramente riunito e consultato come il Gran Consiglio.
Insomma, su di lui non sono mai riuscito a farmi un’opinione decisa e decisiva. Il problema è sorto ancora una volta quando pochi giorni fa, e del tutto per caso, ho riletto il “Diario 1944-1948” di Giuseppe Bottai (1895-1959), pubblicato da Rizzoli nel 1988, a cura di Giordano Bruno Guerri. Anche Bottai è, seppur in altro modo, un personaggio inquietante: nato e cresciuto in una famiglia proletaria romana, mazziniana e sostanzialmente atea (ma, con la maturità divenne credente e osservante) studiò, andò in guerra a vent’anni diventando un Tenente degli Arditi varie volte decorato, si iscrisse nel 1919 al Fascio di Roma, ne divenne uno dei leader più moderati ma tuttavia intransigenti, e partecipò ora, da protagonista, ora da autorevole testimone, a tutta l’avventura del fascismo. Fu ministro delle Corporazioni, persuaso di dare alla dittatura un’esplicita coloritura “sociale”, fu governatore di Roma e di Addis Abeba, fu per sette anni Ministro dell’educazione Nazionale operando riforme notevoli, fra cui l’istituzione della scuola media che regge tuttora. E fu anche creatore di alcune riviste, fra cui “Primato”. In previsione della decisiva riunione del Gran Consiglio del Fascismo, nell’avanzato Luglio 1943, fu insieme all’altra personalità rilevante del Regime, Dino Grandi, l’effettivo ideatore di quella esplicita presa di posizione nei confronti di Mussolini, che per la verità quest’ultimo era venuto a conoscere prima del dibattito e che il dibattito non impedì (come è noto alla “congiura” aderì anche Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, il quale pagò con la vita, insieme ad altre quattro persone fra cui il Quadrumviro De Bono, l’aver dato un voto favorevole ad una mozione ufficialmente messa ai voti). Bottai fu un uomo sensibile, colto, dotato di notevoli doti letterarie, che tuttavia ebbe diverse colpe precise: fra l’altro accettò senza discutere le leggi razziali e come ministro le fece applicare severamente. E’ difficile capire come un uomo della sua sensibilità e della sua cultura possa aver fatto una cosa simile, mentre bisogna riconoscere che nel 1944, ricercato dai fascisti e dagli anti-fascisti, ebbe il coraggio di arruolarsi nella Legione Straniera e con il “chepì” bianco combatte poi contro i tedeschi sia in Francia che in Germania (per una curiosa combinazione egli prestò servizio nel I° Reggimento di Cavalleria della Legione stessa, cioè il famoso “Premier Étranger de Cavalerie”, già allora divenuto un reggimento carrista, che è stato ora il primo reparto francese ad intervenire in Mali nel corrente gennaio 2013). Il suo fu un gesto unico fra i tanti esponenti fascisti fuggiaschi, compiuto evidentemente per mettersi al sicuro durante la sua difficile sopravvivenza in Italia, ma anche come coraggiosa scelta nell’affrontare pericoli e rischi per punirsi dell’adesione che aveva dato alla fase finale del Fascismo. Sulla sua esperienza egli ci ha lasciato sigificative testimonianze (si pensi a “Legione è il mio nome”, che prende il titolo da un famoso avvenimento dei Vangeli) e, appunto un suo minuzioso diario che va dal 1935 al 1948. Ho trovato un brano da lui scritto mentre era legionario, il 2 Giugno 1946, in cui ci sono riflessioni varie sull’Italia e in particolare un ritratto, al tempo stesso toccante e spietato, proprio di Vittorio Emanuele III. La commossa violenza mentale e verbale di un testo di rara eleganza stilistica, a momenti quasi feroce ed a momenti quasi patetico, mi ha talmente colpito che ho deciso di proporlo ai lettori del Blog.

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Mussolini e il Re, che ora ha lasciato il trono, hanno avuto vent'anni di tempo per dare un nuovo assetto alla Monarchia, per creare monarchia del nuovo secolo, il quale, dicasi repubblicano o non, sarà, nel significato letterale del termine, "monarchico".
Unità di classe-unità di partito-unità di comando: ecco la triade unitaria del secolo. Una trinità ideologica e istituzionale, da incarna in un uomo. Incarnazione elettiva o incarnazione dinastica: alternativa, che un Paese senza tradizioni storiche monarchiche risolverà, senz'altro, a favore della prima istanza: ma che un Paese storicamente munito d'una dinastia, "può" risolvere a favore della seconda.
È di questa possibilità, di questa "chance", che il Re e Mussolini hanno saputo o voluto profittare. Il "voluto" riguarda il doppio-gioco che l'uno e l'altro s'illudevano di menare a proprio vantaggio; il "saputo" la loro comune impotenza a tirar conseguenze organiche da un'idea data. Empirismo personalistico, in Mussolini; scetticismo "costituzionale" in Vittorio Emanuele. Giocavano con un mazzo di carte nuove in cui fosse rimasta per caso una vecchia carta, lo statuto albertino, che falsava tutta la partita. Nessuno dei due poteva, con un trucco simile, rispettare le regole del nuovo gioco. Donde l'incapacità del ventennio a connettere in sistema gl'innumerevoli "motivi" felicemente intuiti, dal "fascio", quale nuovo organismo politico, al "sindacato" quale unitario strumento formativo d'un nuovo assetto sociale: per non ricordare che i due maggiori, intorno a cui tutto il sistema avrebbe po¬tuto "girare".
A Corte si rideva di tutto ciò. Il corporativismo, che, difeso da un Re antiveggente avrebbe, "costituzionalizzando" il Regime su una nuo¬va base di libertà, ridotto il potere esorbitante di Mussolini entro i li¬miti della sua stessa dottrina, il corporativismo, dico, era motivo di motti, di divertita curiosità. Nessuno dei consiglieri del Re gli mostrò che una concezione e una prassi di monarchia "corporativa" erano non meno perseguibili, che una concezione e una pratica di monarchia "so¬cialista", teorizzata in Italia da un Missiroli, e attuata nei Paesi del Nord-Europa.
Il torto del Re non fu d'accogliere il Fascismo. Egli intuiva la serie¬tà del fenomeno, che i cinque minuti di fuoco d'un Badoglio avrebbe¬ro, forse, deviato, nell'ottobre '22, da Roma, ma non estromesso dalla storia d'Italia. Il suo torto fu di subirlo senza amarlo, di sopportarlo senza comprenderlo, giovando più alle correnti torbide, ch'esso porta¬va in sè, che a una rettificazione costante, metodica, del suo corso. Si vide un Re "mussoliniano", pellegrinante a Predappio; non s'ebbe un Re "fascista", risalente al vero significato dell'intrapresa esperienza sto¬rica.
"Posso avere commesso degli errori", ha scritto nella lettera di con¬gedo al figlio. Ne ha commesso uno solo, costante: di non avere com¬preso la politica del suo lungo Regno. Nè socialismo, nè nazionalismo, nè democrazia cristiana, nè Fascismo hanno per un attimo interessato la sua intelligenza, pur grande e acuta, ma irretita in una vecchia trama di famiglia, nè il suo arido cuore.
Non ha nè capito, nè amato, fino a lordarsi le mani col sangue di Mussolini, ch'egli ha consegnato ai suoi assassini, dalla soglia stessa della sua casa. Errore umano, orribile; errore politico, imperdonabile, che era assumendo a viso aperto la responsabilità intiera del venten¬nio, ch'egli poteva presentarsi al tribunale della storia. Rispetto al giu¬dizio, che a questa spetta di pronunciare, non è un Re abdicatore, ma un Re contumace.
È con dolore che scrivo di lui queste righe. Venuto alla Monarchia da un vago mazzinianesimo giovanile (la prima volta che accompagnai Mussolini al Quirinale, nel 1921, portavo il cappello a larghe falde e la cravatta alla Lavallière, ch'erano, ancora in quei tempi, segni di di¬stinzione dei repubblicani), avevo imparato ad amare il piccolo Re.
L'uomo mi prendeva per quella sua desolata tristezza di nano, con quel suo acre sorriso sulla bocca, torta a dissimulare il lamento della fisica mortificazione, che il contatto con altri, sani e aitanti, sempre gli dava; con quel suo sguardo, che, di freddo e perspicace per natura, si faceva vago e spaurito ai nuovi approcci. Ogni comparsa sulla scena era per lui una scossa sgradevole. Aveva il "trac" dei commedianti, ma un trac lungo e penoso, che lo portava a recitar male la sua parte, con la voglia addosso di fuggir tra le quinte.
Nulla in lui di "sovrano", ma anzi, di sottomesso, d'umiliato; e, quindi, di rivoltoso. Legittimo rampollo della più antica dinastia d'Europa, occupava il suo seggio con l'aria d'un usurpatore, che ha da farsi perdonare. Sospettoso, e impotente a sostentare i suoi sospetti, v'era sempre nella sua cortesia un che di forzato, di stento. La sua celebrata "semplicità" era, chi l'intendeva, piena di sdegno: la sua "famigliarità" d'ombrosa gelosia formale. (Ricordo il furore da caporale, con cui, ai funerali di sua madre, redarguì un malcapitato ufficialetto che, inavvertitamente, gli era passato innanzi senza, così piccino, vederlo. Quella minima occasione faceva esplodere il suo orgoglio coni presso e misconosciuto.)
Più che il Re, s'amava in lui, a penetrar questo suo dramma interiore, la creatura umana, povera e nuda, con le sue gambine atrofiche di continuo dondolanti dagli alti scanni a lei riservati o arrancante per scalèe e festivi tappeti; col suo busto troppo lungo, duro come fosse ingessato; con le sue pallide mani dalle unghie rosicchiate: con il suo volto rugoso di tartaruga centenaria; con quella sua voce, soprattutto, in falsetto, roca e rompente in cigolìi di ruggine su vecchie molle, tremolante e pietosa, implorante. Bisognava entrare in questo suo gioco, per simpatizzare con un essere simile.
Era, allora, una delizia sentirlo dire: "mio padre", di Umberto I, "mio nonno", di Vittorio Emanuele II: "mia moglie", della Regina; "i miei nipoti": e via via. I borghesi se n'estasiavano: "parla come noi", commentando; non avvertivano quanto quella "famigliarità" stesse, a punto, a ribadire la supremazia della famiglia. E il valore della sua intelligenza, quella frase a intercalare, nelle sue conversazioni: "Già, perché io non capisco", o "non me n'intendo", o "lei capisce meglio di me" e il pregio della sua modestia, quel suo accogliervi alla buona per mostrarvi le sue monete con un fare d'antiquario.
Tutto questo stile dimesso e prezioso m'interessava, mi piaceva, suscitava in me un genuino affetto per l'uomo. Mi riposava di Mussolini che stava sempre sul leone.






22 gennaio 2013

L'OSSERVATORE GENOVESE

VISTO CON IL MONOCOLO

Come al solito propongo qui il testo della mia rubrica sul Corriere Mercantile, e per l'esattezza quello uscito domenica 20 Gennaio 2013.

I CAPOLAVORI DI URANIA E LA FANTASCIENZA
Ponendo ordine nel guazzabuglio dei miei libri ho messo le mani su alcuni esemplari della rivista Urania degli anni settanta. Nel periodo in cui essa era diretta da Fruttero e Lucentini: insieme ad Age e Scarpelli, hanno dato vita alle due coppie più geniali nell’invenzione della “fiction” di tutto il dopoguerra italiano. Mi è venuta di colpo una profonda nostalgia di ciò che, molti anni prima, era stata Urania negli anni Cinquanta quando, diretta da Giorgio Monicelli (fratellastro di Mario e inventore della parola “Fantascienza”) aveva fatto esplodere fra tanti giovani italiani come me un improvviso amore per la science-fiction anglosassone e per uno stuolo straordinario di romanzieri dell’impossibile. Per fare qualche nome si pensi che nei primi 20 romanzi di Urania si ritrovano scrittori come Arthur C. Clarke, Robert Heinlein, Alfred Elton van Vogt, Theodore Sturgeon, Sprague de Camp, Clifford D.Simak e Isaac Asimov. Si proprio quell’Asimov che fu per noi una rivelazione durata molti anni e che ci introdusse in quel mondo dei robot che fu una sua straordinaria specialità e di cui aveva inventato le Tre Leggi Fondamentali. Fra i libri che ho ritrovato c’è anche un suo romanzo del 1966: “Viaggio allucinante”, ispirato ad un film di Richard Fleischer che fu per molti una rivelazione: era basato su una grande trovata, quella di rimpicciolire quasi all’infinito un sommergibile con un’equipe di scienziati in grado di eseguire una difficilissima operazione nel cervello di un uomo, irraggiungibile per vie ordinarie. Curiosamente il film non è tratto dal libro ma al contrario (ed è strano con uno scrittore già così noto come  Asimov) il libro è la “novellizzazione” del film, dove il romanziere, credo abbia cercato di correggere alcune imprecisioni della sceneggiatura. Il viaggio del piccolissimo sommergibile all’interno del corpo umano è una serie straordinaria di scontri e di superamenti, fra globuli bianchi, globuli rossi, polmoni, arterie, vene che diventano frammenti ostili di un oceano immenso immaginario e reale. C’è nel libro tutto l’immenso respiro fantastico di un momento decisivo dell’immaginario collettivo del ventesimo secolo.
Mi compro il DVD del film.

CineCritica

Periodico di cultura cinematografica a cura del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani- anno: XVII, n.68- Ottobre-Dicembre 2012.

Mi è giunto il numero di ottobre – dicembre 2012 (Euro 6) della rivista, espressione del Sindacato Critici alla cui fondazione, avvenuta a Perugia, partecipai all’inizio degli anni’70. Ampie informazioni sull’attività del Sindacato stesso possono essere rintracciate nel sito www.sncci.it .
Ripropongo qui il sommario del numero in corso, con la sensazione di far qualcosa di utile e per i lettori e per il Sindacato. Vorrei ricordare che la sezione ligure del S.N.C.C.I. (ne faccio parte da sempre) anima, ormai da 14 anni, una iniziativa che ho fondato io su richiesta del compianto amico Arnaldo Bagnasco, e cioè la cosiddetta “Stanza del cinema”. In cui ogni primo lunedì del mese, da ottobre a giugno, due critici – in genere con la mia mediazione – analizzano e illustrano i film andati in onda a Genova nel mese appena trascorso. Iniziativa che non mi risulta abbia eguali in Italia nelle altre sezioni del Sindacato Critici. Il tutto avviene in pieno centro di Genova, al pian terreno di Palazzo Ducale, nella sala (g.c.) della Società Ligure di Storia Patria. Nello stesso mese in genere un secondo lunedì è occupato dal Sindacato Critici con una conferenza su specifici temi cinematografici (ritratti di attori, di registi, di scuole e periodi, eccetera).
Ecco ora il sommario del nuovo numero di CineCritica:

EDITORIALE 
I mostri e la realtà italiana di Franco Montini

PRIMO PIANO: LUIGI DI GIANNI
Faccia a faccia con l’estremo (intervista a cura di Domenico Monetti)
Il tempo dell’inizio. Il cinema (dis)sepolto di Luigi Di Gianni (di Domenico Monetti)
Franz Kafka secondo Di Gianni (di Fabio Francione)
Un uomo d’ordine (un soggetto di Luigi di Gianni)

IL CINEMA DEGLI ALTRI
Il cinema argentino fra mercato e autorialità (di Davide Mazzocco)

FORUM
“La Ronde” e la censura italiana (di Roberto Curti)
Il mito eroico del cinema israeliano (di Claudio Gaetani)
Sokurov, Majewski e Von Trier: tre capolavori (di Paolo Landi)
Angelo Francesco Lavagnino: la musica come sfida (di Baldo Vian)

INCONTRI
Kelsey Grammer: il Boss di Chicago (di Marco Spagnoli)

STORIE
Cuore: alle origini del cinema risorgimentale (di Giuseppe Ghigi)

CRITICA & Critici
A proposito di “Vertigo” primo in classifica” (di Vittorio Boarini)
Letture critiche (di Aldo Viganò)

(seguono varie voci per il notiziario SNCCI)


15 gennaio 2013

L'OSSERVATORE GENOVESE


VISTO CON IL MONOCOLO

Come ormai è d'abitudine ricopio qui l'ultima puntata della mia rubrica "Visto con il monocolo" pubblicata domenica 13 Gennaio 2013 nel "Corriere Mercantile". 
Buona lettura a tutti.


Terza ed ultima puntata della rubrica sugli allenatori italiani di calcio visti come eredi della commedia all’italiana. Avevo pensato di ricostruire il giuoco dei licenziamenti e delle assunzioni limitate al presente campionato di serie A, ma ho visto che un elenco minuzioso mi porterebbe via troppo spazio. Mi limito ad allineare i nomi che hanno partecipato al girotondo a partire dal settembre 2012: Sannino e Gasperini, Di Carlo e Corini, Ficcadenti e Pulga, De Canio e Delneri, Stroppa e Bergodi, Cosmi e Iachini, Ferrara e Delio Rossi, senza contare Carrera e Alessio che hanno via via sostituito Antonio Conte tornato sulla panchina della Juventus a partire dal 9 dicembre 2012.
Fra tutti uno dei più interessanti come capacità attoriali risulta Delio Rossi. In condizioni normali sembra un riminese dal volto introverso. Ma spesso a partita iniziata si trasforma e comincia a maciullare un “chewing gum”(non so se lo fa anche alla “Samp”) tuttavia non con la compita devozione celtica dello scozzese Sir Alex Ferguson, da quasi 27 anni trionfale manager del Manchester United. Bensì con una sorta di rabbia orale che gli deforma completamente il volto. Per lunghi minuti si tramuta in una sorta di semi – vecchietto automasticante, in preda ad una furia tribale di cui non si colgono esattamente i confini religiosi e rituali (lo confesso, a me fa impressione). Un elenco ben più grande sarebbe quello degli allenatori “fired” non solo nell’ultima stagione ma da qualche anno a questa parte, ma anche qui lo spazio non me lo consente. Mi limiterò a citare quella sorta di perenne esame visuale e sonoro rappresentato dalle conferenze stampa a cui gli allenatori debbono sottoporsi (per la Rai, per Sky ma anche per molte televisioni locali) a partita terminata. Da un lato vien fatto di rilevare con interesse i modelli linguistici a cui essi, consciamente o inconsciamente, si attengono. Scomparsa la generazione degli allenatori “nature”, in vigore sino agli anni’80, ci troviamo qui in presenza di un idioma unificato, che rimbalza nelle loro bocche da quello dei giornali sportivi e viceversa. Dall’altro avvertiamo il tormento di un rito che spesso è imbarazzante e a volte feroce.
Gli italiani guardano e si divertono.

A DOMANDA RISPONDE


Rispondo qui a post di varia natura pervenuti il 26 dicembre 2012, il 28 dicembre 2012, il 31 dicembre 2012, il 3 gennaio 2013 e l’8 gennaio 2013.
Sono costretto a mescolare corrispondenti che hanno scritto a vario titolo e per diversi motivi.

Confondendo un po’ i temi e le date innanzitutto ringrazio l’onnipresente Rosellina per quel che mi scrive a proposito di Simenon e Morandini. Mi fa presente che, pur estranea al tema, ha gradito le mie divagazioni calcistiche.
Cambiando argomento ho trovato toccante la confessione di PuroNanoVergine, che ribadisce la sua totale fedeltà al Mereghetti. Mi auguro che Paolo legga queste righe.
Per affrontare le prima citate “divagazioni calcistiche” ho trovato divertenti le osservazioni del Principe Myskin circa Delneri, visto come pescatore sulla Diga Foranea o come “calafatatore” di un gozzetto sotto la passeggiata di Nervi (ma perché questa ossessione nautica per un friulano di Aquileia che vedrei piuttosto intento a scavare reperti archeologici nella sua cittadina natale?). Ho puntualmente citato Delio Rossi, assolutamente indimenticabile come maschera regionale romagnola. Ancora per quel che riguarda gli allenatori ritengo che “Petisso” sia una parola tipicamente argentina “Rio platense” per dire “piccolo” (in realtà, parlando di Pesaola, mi ricordo che Enzo Tortora, quando conduceva la domenica sportiva, mi aveva detto che nell’ambiente era sopranominato “Nicotina”; forse era una malignità). Proprio per quel che riguarda i soprannomi vorrei ricordare che Manlio Scopigno, allenatore del Cagliari Campione d’Italia nel 1970, era misteriosamente definito dai giornali sportivi “Il filosofo”. Forse perché era stato visto con un libro in mano. O anche con un bicchiere di whisky, allora bevanda assai nota ma meno diffusa, probabilmente considerata come un liquore aristocratico e letterario.
Per quel che riguarda la citazione misteriosamente errata in “Maigret voyage”ho preso nota delle varie precisazioni che ho ricevuto ma vedo che purtroppo non c’è nulla di sicuro. In particolare per quel che riguarda l’osservazione di Gianni Dello Iacovo, Simenon nel 1933 andò in Russia e scrisse poi il romanzo chiamato in italiano “Le finestre di fronte”e nell’originale “Les gens d’en face”.  Inizialmente, sempre nel 1933, apparve in sette puntate nell’ebdomadario “Les annales” e poi nel mese di settembre presso l’editore Fayard. Confesso di non averlo letto ma mi sembra centrato su un tema molto curioso: nella città che circonda il porto di Batun, sul Mar Nero, in piena URSS, verso la fine degli anni ‘20 giunge un nuovo console turco, Adil Bey. Egli avverte intorno a lui la presenza di una burocrazia vagamente minacciosa, accende una relazione con la segretaria e interprete Sonia, la quale gli è stata assegnata e vive con un suo cognato membro della “Ghepeu”, la polizia politica sovietica, che cambiò molti nomi, iniziò come “Ceka” e terminò, dopo mutazioni varie come KGB. Adil Bey scoprirà, che come è capitata al suo predecessore, Sonia non solo lo sorveglia ma gli ha fatto accettare anche un potente veleno. Tuttavia lui non l’accusa né la respinge ma anzi, le propone di fuggire clandestinamente al più presto possibile. La ragazza sparisce, il diplomatico fa vistare il suo passaporto dalle autorità, si imbarca da solo su un cargo belga e apprende poi che probabilmente Sonia è stata denunciata e fucilata. Mi pare di capire che si tratti di un Simenon “politico” abbastanza inusuale pure all’interno di una produzione romanzesca estremamente ampia e variata (i 75 romanzi ed i 28 racconti con Maigret sono, come è noto, una piccola parte di quel che lui ha scritto durante una vita frenetica).
Vengo infine alla lunga missiva di Giulio Fedeli, che non vedo da moltissimi anni, da quando, non ricordo esattamente il periodo, venni da lui invitato a presentare dei film in Lombardia (mi pare che una volta la cosa avvenisse all’”Alliance Française” di Milano, ma non sono sicurissimo dei miei ricordi). Grazie per tutte le notazioni su “Salvate la Tigre”, la rubrica del Mercantile e per le informazioni sulla sua visita nell’Agosto del 2002 ad una festa della Raf a Weymouth munito del tesserino di sottufficiale dei “Lancieri di Milano”. E’ un reggimento che non avevo mai sentito menzionare. Ho controllato: è stato fondato il 16 Settembre 1859 come “Cavalleggeri di Milano”. L’anno dopo fu classificato fra i “Lancieri”. Partecipò alla Prima Guerra Mondiale ed alla Seconda in Albania, e in Croazia. Dissolto dopo l’8 Settembre si riformò nel 1964 e venne definitivamente sciolto nel 1989.
Circa le altre osservazioni di Fedeli concordo sull’indubbio livello del “Dictionnaire du Cinéma” di Jacques Lourcelles (io posseggo l’edizione 1992 di Robert Laffont). Ma è vero che si tratta di un opera programmaticamente e polemicamente “d’autore”, di non facile consultazione per i tipici lettori dei dizionari cinematografici di oggi, che molto spesso debbono urgentemente soddisfare improvvise curiosità di esplicita origine televisiva. Per leggere Lourcelles innanzitutto bisogna accettare Lourcelles. E quindi le sue programmatiche scelte di campo. Per fare un esempio, e per restare in Francia, egli concede il minimo indispensabile (quasi niente) a Eric Rohmer ma in compenso si abbandona ad una lunga analisi (oltre che, come è suo costume, ad un puntuale riassunto della trama) di “Maddalena zero in condotta” film, come si ricorderà girato nel 1941 da Vittorio De Sica e interpretato da Carla Del Poggio, Vera Bergman, dallo stesso Vittorio De Sica, da Eva (o Irasema) Dilian, oltre a grandi caratteristi d’epoca come Amelia Chellini e Pina Renzi. L’analisi di Lourcelles è piena di finezza (parla di “…parfait spéciment du genre des films de collèges féminins né en Italie durant l’époque fasciste.”- cf. Leçon de chimie à neuf heures- genre où ce manifeste les plus souvent l’ascendant social des élèves sur les professeurs). E via variando con grande eleganza di minute osservazioni. Per un film, come appunto questo di De Sica, che in Francia era addirittura inedito e che infatti viene citato con il titolo in italiano.
Ringrazio Fedeli anche per i complimenti che mi fa a proposito di Jean-Pierre Melville e di Pierre Schoendoerffer. In entrambi i casi si trattò di una sorta di debito morale che avevo con i due registi: quello di Melville l’ho riscattato a suo tempo in televisione e quello di Schoendoerffer diversi anni fa  quando riuscì a fargli fare un omaggio, con la proiezione de “L’uomo del fiume” alla Cineteca di Bologna. Venne lui con la moglie (che era stata per lunghi anni giornalista a “France Soir”, quotidiano di grande successo frutto dell’opera di un giornalista popolarissimo in Francia, Pierre Lazareff) e venne anche suo figlio Ludovic, che è attore di cinema anche se non di grandissimo successo (suo fratello Frédéric è un regista di thrillers di livello medio alto: si veda il suo secondo film, “Agents Secrets”, che in italiano ha conservato il titolo francese ed è una elegante riflessione sul mondo stesso delle spie). Mi sono sempre ripromesso di comporre nel Blog (ho i DVD francesi di “317°Battaglione d’assalto” e de “L’uomo del fiume”) un articolato omaggio a Schoendoerffer. Un giorno o l’altro ci riuscirò.
Prendo atto della richiesta di continuare a pubblicare nel Blog mie rubriche e collaborazioni varie. Ed anche del fatto che alcuni desiderano un mio scritto su Maigret. Mi chiedo come affrontare un tema ed un personaggio che sono già stati enormemente ed acutamente analizzati da fior di studiosi. Mi piacerebbe sviluppare un ipotesi “politica”, possibile tecnicamente visto che le date sull’età e sulla collocazione temporale del Commissario, sono molto variate. E cioè: se fosse vissuto dal 1939 al 1935 come se la sarebbe cavata Maigret con gli avvenimenti pubblici a privati che in quel periodo di guerra hanno sconvolto la Francia? E, per andare nei decenni successivi, Maigret sarebbe stato favorevole o contrario a Degaulle? Bisognerebbe riuscire a scrivere un analisi del personaggio che tenga conto dei dati complessivi di cui disponiamo. Mi sembra evidente la collocazione di Maigret come uomo d’ordine, istintivamente seguace del “giusto mezzo”, allevato all’interno d’ un rigoroso ordine sociale. Si pensi alla straordinaria descrizione della sua infanzia di paese, fra il parroco e il padre orgoglioso di essere “l’amministratore del signor Conte”, contenuta in un libro scritto all’ inizio degli anni ’30 (e quindi nella parte iniziale della “carriera” letteraria del personaggio) e cioè “L’affaire Saint-Fiacre”. Se il tema vi sembra interessante gradirei ricevere osservazioni e suggerimenti.
Mi sembra di aver risposto a tutti. Se mi sono sbagliato fatemelo sapere.

8 gennaio 2013

L'OSSERVATORE GENOVESE

VISTO CON IL MONOCOLO

Pubblico qui di seguito la II puntata (ne seguirà una III) delle mie divagazioni sugli allenatori italiani di calcio. Approfitto dell'occasione per fare due precisazioni:
1) a causa di un intervento tecnico che deve subire il mio computer i contributi al blog cesseranno per un periodo che spero non superi da oggi martedì 8/01/13 i 7 giorni.
2) ho preso nota di tutti gli interventi determinati dagli ultimi brani pubblicati nel Blog e prometto, quando riprenderò il controllo del computer, di rispondere puntualmente.


ALLENATORI DI CALCIO COMMEDIANTI DI RAZZA

Seconda puntata della rubrica sugli allenatori italiani di calcio, eredi della commedia (e della tragedia) "all’italiana". Dopo Mazzarri, Conte e Zeman tocca ora ai minori. Fra i comprimari, Vincenzo Montella si è esplicitamente imposto alla Fiorentina: ha un viso che ricorda un furbesco attendente meridionale in una farsa militare degli anni cinquanta, il che lo aiuta molto in un calcio sempre incerto fra il tragico e il parodistico. Altro personaggio di rilievo è Andrea Stramaccioni, fulmineamente proiettato alla guida dell’Inter provenendo dalle squadre giovanili. E’ romano e laureato in legge, il che gli conferisce una duplice giustificazione per la sua crepuscolare oratoria aziendale di sapore compitamente burocratico.  Pertanto destinata ad avere successo in una nazione  di forte vocazione romocentrica, sia linguistica che burocratica. L’elenco degli allenatori pittoreschi, a forte connotazione paradialettale (una specie che fa pensare ad una proiezione calcistica fra Lino Banfi e Franco Franchi) comincia ovviamente con Serse Cosmi. Perennemente ricoperto da un berrettino a visiera e incaricato di schiumare furiosamente nei confronti degli arbitri e dei giocatori, riassume simpaticamente il carattere sanitario che la passione calcistica riveste in Italia, ove chi ne è vittima è definito un “malato di tifo” e cioè un tifoso. Il 17 dicembre 2012 è stato sostituito da Iachini (tempo prima lasciato cadere dalla Sampdoria) alla guida del Siena. Uno dei numerosissimi allenatori italiani assunti e licenziati nel corso di un campionato (se penso al manipolo di “Mister” via via lanciati e abbandonati dal Genoa nel corso di una stagione mi viene male). Fra gli attori di genere vanno ricordati quelli di sapore malinconico, come Ciro Ferrara, puntualmente allontanato dalla Sampdoria, Roberto Donadoni (sembra un ex sacerdote) e Giampiero Ventura: solo un genovese può riuscire, nel successo come nella sconfitta, ad assumere sempre la stessa espressione irta di tristezza deprecatoria.
A conclusione ricordo l’allenatore del Cagliari Ivo Pulga. In spagnolo significa “pulce”. Un obbiettivo e un simbolo all’ interno di una professione dove si è costretti continuamente a saltare …



3 gennaio 2013

RIFLESSIONI MARGINALI SUL COMMISSARIO MAIGRET


In occasione di un lungo brano su Simenon che ho scritto non molto tempo fa per la Cineteca di Bologna (Dvd di “La verità su Bebè Donge” e tre testi di commento, appunto uno dei quali è il mio)  mi sono riletto alcuni Maigret. Pescati a caso e in casa, senza nessun intenzione di valutazione e paragone. Si tratta di romanzi almeno in tre casi risalenti alla parte “di fondazione” del personaggio, e cioè gli anni’30. In ordine di data per quel che riguarda la prima pubblicazione in Francia. Ne do il titolo originale e quelli italiani, spesso numerosi per le vicissitudini editoriali che l’opera di Simenon ha attraversato in Italia. 
Ecco l’elenco dei libri che ho riletto posti nell’ordine prima ricordato. 

-Febbraio 1931: “Le pendu de Saint – Pholien” (titoli italiani: “Il viaggiatore di terza classe”, “Maigret e il viaggiatore di terza classe”, “L’impiccato di Saint – Pholien”). Simenon lo scrisse nell’autunno del 1930 nella villa M. Gloaguen a Concarneau. E’ il quarto romanzo della saga. 

-Novembre 1931: “La danceuse du Gai – Moulin” ( titoli italiani: “La danzatrice del Gai – Moulin”, “Maigret e la ballerina”, “Maigret e la ballerina del Gai – Moulin”, “La ballerina del Gai – Moulin”). Simenon lo scrisse nel settembre 1931 a bordo dell’ ”Ostrogoth” presso Morsang - sur – Seine. E’ il decimo romanzo della saga.

-Marzo 1934: “Maigret” (titoli italiani: “Maigret”,”Maigret e il nipote ingenuo”, “Il nipote ingenuo”). Simenon lo scrisse nel gennaio 1934 alla villa “Les Roberts” nell’isola francese di Porquerolles. E’ il diciannovesimo romanzo della saga. 

-Luglio 1947: “Maigret à New York” ( titoli italiani: “Maigret a Nuova York”, “Maigret a New York”). Simenon lo scrisse dal 27 febbraio al 7 marzo 1946 a Sainte – Marguerite, Québec, Canada. E’ il ventisettesimo romanzo della saga. 


-Dicembre 1957: “Maigret voyage” ( titoli italiani: “Maigret viaggia”, “Maigret si mette in viaggio”). Simenon lo scrisse dal 10 al 17 agosto 1957 a Noland, Svizzera ( Noland, in inglese “No terra”, è il nome inventato di una cittadina elvetica che Simenon, probabilmente per motivi fiscali, indicò come sua residenza elvetica e che, in particolare, per quel che riguarda il personaggio Maigret  usò dal dicembre 1957 al luglio 1964 per 12 romanzi della saga). In particolare “Maigret voyage” occupa, nella lista complessiva il 50° posto. Dopo aver tanto viaggiato in Francia e negli Stati Uniti, come è noto Simenon si trasferì in Svizzera e, pur cambiando casa, visse sempre nella confederazione e in Romandia. 

Come è noto il primo romanzo “ufficiale” con Maigret è “Pietr - le - Letton” del maggio del 1931 e l’ultimo, che si situa pertanto al settantacinquesimo posto, è “Maigret e monsieur Charles”, cioè “Maigret e il signore Charles”, del luglio 1972. La saga è affiancata anche da 28 novelle che hanno Maigret come protagonista.
Non mi ricordo chi scrisse che un lettore appassionato di Maigret si accorge subito dalle prime pagine se si tratta di “un buon Maigret”, di “un Maigret mediocre” o di “un Maigret andante”. Debbo dire che è una sensazione che ho sempre avuto anch’io. Ad esempio per quel che riguarda questi cinque libri scelti casualmente quello che mi è apparso nettamente il migliore è “Maigret voyage”, che appartiene già, come ho scritto prima, al periodo svizzero dello scrittore, ormai guarito dal lungo vagabondaggio americano. L’esperienza di Maigret alle prese con la morte di un importantissimo “Tycoon” inglese in un albergo parigino di gran lusso, ribadita in un rapido viaggio esplorativo in un grande albergo di Losanna e all’ “ Hotel de Paris” di Montecarlo (ci sono stato e la descrizione mi sembra impeccabile), credo possa considerarsi un piccolo classico. La scoperta di un mondo extra lusso, dove un esercito di contabili, impiegati, barmen, cameriere, camerieri, raffinati dirigenti d’albergo si occupa a tempo pieno di clienti molto ricchi che vengono accuditi come bambini cresciuti (dal biglietto aereo a quello del teatro, dalla prenotazione – consiglio al ristorante di pregio alla sosta al bar) e che dal canto loro hanno la tendenza a incontrarsi sempre negli stessi luoghi ed a servirsi negli stessi negozi raffinatissimi e costosissimi. Il forte senso delle realtà sociali, che è una delle caratteristiche più articolate di Simenon scrittore (con o senza Maigret) gli consente, ad esempio, la straordinaria occhiata che gli riesce a proiettare all’interno di un albergo di lusso. Da un lato i corridoi fastosi, i bar e i ristoranti al massimo dello chic, i grandi saloni dove un numerosissimo popolo adorante di addetti  di ogni titolo  si occupa soltanto del benessere degli ospiti. Dall’ altro lato un mondo contrario, parallelo e coesistente: basta varcare una porticina di servizio per trovarsi in un piccolo universo di corridoi stinti, dove un popolo malvestito o in canottiera si aggira quasi cupamente in attesa di finire il proprio lavoro per rientrare nella parte “nobile” del palazzo (è una sensazione che, per quanto possa sembrare paradossale, provai una volta anch’io: in un grande albergo di Parigi ero caduto ed avevo battuto la faccia. Guidato dall’infermiera dell’hotel, in attesa di essere condotto in uno studio medico, provai esattamente lo stesso straniamento che Maigret avvertì mentre passeggiava all’interno dell’albergo. E mi ricordo che, nonostante il dolore al volto, fulmineamente pensai anch’io all’esperienza del Commissario ed all’intuizione di Simenon). 
Un’ altra osservazione che mi è venuta istintiva, rileggendo questi cinque romanzi, è che l’automatico rinvio mentale al mondo di Maigret come un universo strettamente composto da lui e da i suoi collaboratori abituali (penso ai più fedeli: Lucas, Torrence, Janvier e il “piccolo” Lapointe) non è sempre valido. Ad esempio “La ballerina del Gai – Moulin” si svolge nella città natale di Simenon, Liegi, dove Maigret è in trasferta, “Maigret a New York” si svolge appunto nella grande città americana dove, anche qui, il commissario si trova paradossalmente in trasferta, eccetera. La sensazione che ho sempre avuto fortissima, e cioè che quelli del ciclo Maigret siano sempre tipici “romanzi gialli da Commissariato” (è un sotto genere specifico e affascinante: si pensi alla saga dell’87° Distretto di Ed McBain) si rivela inesatta e in parte infondata anche in un vecchio lettore come me.
Tutti gli altri romanzi di Simenon che ho prima citato sono in edizione italiana (tre di Adephi ed una di Mondadori) mentre “Maigret viaggia” è in una edizione francese de le “Presses de la Cité”, casa editrice che Simenon adottò di colpo in un particolare snodo della sua carriera. La copia che ho io - ricordo, come ho detto prima, che il romanzo è del 1958, è stata stampata nel giugno del 1982 dalla “Imprimerie Bussière” di Saint – Amand (Cher) – è pertanto relativamente recente ed apparve in un momento in cui la fama di Simenon era ormai universalmente riconosciuta. Per cui è difficilissimo capire perché uno dei personaggi, la contessa Palmieri (francese di nascita ma nostra connazionale perché ha sposato uno scioperato conte italiano) si chiami appunto Palmieri sino ad un certo punto del romanzo (ad esempio a pagina 17, 29, 31, 55, 57) per diventare poi, senza una parola di spiegazione, la contessa Palverini (ad esempio a pagina 99, ma a pagina 100 è già di nuovo Palmieri) e forse tornando successivamente alla prima versione. Il testo originale francese consente un’ulteriore riprova dell’incomprensibile alternanza di cognomi. Ad un certo punto in una telefonata di servizio alla ricerca della contessa si specifica, come può capitare a voce, che il nome è come quello degli alberi della Promenade des Anglais (cioè le palme, in francese palmier, con una “i” in fondo). Quindi l’intenzione di indicare il nome Palmieri è evidentemente esplicita e determinata. 
Mi chiedo che cosa possa essere successo e come mai, se si tratta di un refuso (ma che cosa potrebbe essere, altrimenti?), non sia stato mai stato corretto, nel libro di uno degli scrittori che era il vanto della casa editrice. Forse si tratta di uno di quegli errori di stampa, che i collezionisti adorano (magari la copia che posseggo riveste un grande valore!). Oppure nasconde qualcosa che mi sfugge. Faccio un esempio: nella immensa quantità di fonti e di voci su Simenon che si ritrovano in internet, ve n’è una in inglese (all’indirizzo www.trussel.com) intitolata “Maigret Encyclopedia”, ove sono schedati centinaia di nomi di personaggi dei romanzi. E quindi anche la contessa Palmieri, di cui si dice letteralmente: 
Palmieri: [In original, Countess Louise Palmieri. In translation, Palverini] M said Palmieri, like the trees on the Promenade des Anglais, palmier with an i. [1957-VOY]
Come si vede la frase che ha un senso in francese (palmier, Palmieri) è tradotta letteralmente ma si accetta in modo misterioso il cambio d’identità …. : “in translation, Palverini”. Ma quale “translation”, quale traduzione? E’ un piccolo mistero che Maigret non aveva previsto e, soprattutto, che non aveva risolto …
Per ora mi fermo qui. Mi farebbe piacere se a qualche lettore interesserebbe conoscere qualche altra eventuale “digressione” maigrettiana.

Intanto auguri a tutti.