Blog - Crediti


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L'aggiornamento è stato curato puntualmente in passato da diverse collaboratrici ed attualmente, con la stessa puntualità e competenza, se ne occupano Laura M. Sparacello ed Elisa Sori.

29 dicembre 2008

CAMERA EYE: L'ETEROGENESI DEL FINI







Tutto quello che vedrete riportato qui è stato accuratamente controllato su libri ed in internet. Cominciamo dall’inizio: la parola “eterogenesi” ha significati diversi e affini. In Biologia indica la capacità di certi animali di riprodursi in maniere differenti. Sempre in Biologia, con la stessa parola si indica la teoria evoluzionistica per cui gli organismi si trasformano secondo una legge di perfezionamento, in modo discontinuo. In Filosofia l’espressione “eterogenesi dei fini”, teorizzata per la prima volta da Gianbattista Vico, fu ripresa da Wilhelm Wundt, diventando una legge da lui enunciata. Vale a dire i fini realizzati dalle storia non sono un compimento delle volontà umane, ma la risultante del rapporto o contrasto fra le intenzioni degli uomini e le condizioni oggettive. Nel dizionario del Battaglia ho trovato a questo proposito una divertita enunciazione di Benedetto Croce che dice testualmente: “La Provvidenza vichiana…prese un nome più prosaico ma non mutò carattere, nell’astuzia della ragione, formulata dallo Hegel; e fu spiritosamente e cervelloticamente ritradotta nella popolare astuzia della specie dello Schopenahuer e, poco spiritosamente sebbene assai psicologicamente nella così detta legge wundtiana dell’eterogenesi dei fini”, voce dotta che viene dal greco “έτερος” (“altro”) e “γενεσις” (“principio, origine”).
Queste notazioni mi servono per introdurre un tema che è già enunciato nel titolino, e cioè l’eterogenesi non dei fini, ma del Fini, intendendo così Gianfranco Fini (Bologna, 3 Gennaio 1952). Uomo politico proveniente dal Movimento Sociale Italiano, di cui, dopo alterne vicende, fu per due volte, su iniziale designazione di Giorgio Almirante, segretario nazionale: sino al Gennaio 1990 e poi di nuovo dal Luglio 1991. Resterà in tale carica fino al Gennaio 1995, quando avvenne, con la sua determinante collaborazione, la cosiddetta “svolta di Fiuggi”, che sancì la nascita di Alleanza Nazionale di cui è rimasto il massimo esponente fino al Maggio 2008, lasciando la reggenza a Ignazio La Russa in attesa del congresso che porterà alla confluenza ufficiale del partito del Popolo della Libertà.
La militanza di Fini iniziò nell’adolescenza, a sedici anni, quando si imbatté in un picchetto di sinistra, che impediva agli spettatori bolognesi di assistere al film “Berretti verdi” con John Wayne, e per reazione si iscrisse alla “Giovane Italia” ed al “Fronte della Gioventù”, organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano. In questo partito egli, trasferitosi a Roma con la famiglia, trascorse tutta la sua successiva vita politica, diventandone il massimo esponente e propiziando poi, appunto, la svolta di Fiuggi che doveva iniziare la progressiva “defascitizzazione” (la parola è brutta ma l’indicazione è precisa) del movimento. Che è andata di pari passo con l’altrettanto progressivo allontanamento di Fini dal peso di un passato rivendicato molto esplicitamente sino ai primi anni ’90. Non è un caso che il Movimento Sociale, fondato nel Dicembre ’46 principalmente da reduci della Repubblica Sociale, abbia sempre invocato una chiara filiazione dal Fascismo. Ad esempio (prescindo da dichiarazioni anteriori) molto esplicite erano state le sue prese di posizione sull’argomento: “Credo ancora nel Fascismo, sì, ci credo” (19 Agosto 1989). “Nessuno può chiederci abiure della nostra matrice fascista” (5 Gennaio 1990). “Mussolini è stato il più grande statista del secolo. E se vivesse oggi, garantirebbe la libertà degli italiani” (30 Settembre 1992). “…Chi è vinto dalle armi ma non dalla storia è destinato a gustare il dolce sapore della rivincita…dopo quasi mezzo secolo il Fascismo è idealmente vivo”. E ancora nel Giugno ’94 ribadisce la sua fede in Mussolini e aggiunge: “Ci sono fasi in cui la libertà non è tra i valori preminenti”.
Nel giro di poco tempo egli, a giudicare dalle sue dichiarazioni ufficiali, subisce una mutazione totale, un netto cambiamento di rotta che lo porta ad affermazioni tanto radicali quanto inattese. Innanzitutto prende coscienza della realtà della legislazione antisemita varata in Italia verso la fine degli anni ’30, con una legge purtroppo controfirmata da Vittorio Emanuele III, dimentico del fatto che proprio sotto il regno del suo bisnonno, Carlo Alberto, era stata emanata lo statuto che garantiva diritti civili e politici alle minoranze religiose (ebrei e valdesi). In questo senso Fini ha effettuato un ripudio totale dell’atteggiamento fascista verso gli ebrei, soprattutto quello articolato nella legge prima ricordata (a tratti, sino all’8 Settembre 1943, in qualche modo elusa) e ancor più nell’atteggiamento furiosamente servile tipico della cosiddetta Repubblica Sociale Italiana. Varrà la pena di ricordare quello che Gianfranco Fini, in occasione di una sua visita ad Israele, ha scritto il 24 Novembre 2003, nel cosiddetto “Libro della Memoria”: “Di fronte all’orrore della Shoa, simbolo perenne dell’abisso d’infamia in cui può precipitare l’uomo che disprezza Dio, sale fortissimo il bisogno di tramandare la memoria e far sì che mai più in futuro sia riservato, anche ad un solo essere umano, ciò che il nazismo riservò all’intero popolo ebraico”. Non è un caso che egli abbia anche definito le leggi razziali come “male assoluto del ventesimo secolo”. Infine nel 2008 in occasione dell’annuale kermesse di Azione Giovani, “Atreju”, ha sostenuto che la destra deve riconoscersi nei valori dell’antifascismo, ribadendo il distacco dalle ideologie che caratterizzarono pesantemente il suo passato missino. Questo decisivo cambio d’opinione sugli ebrei e sulla nequizie delle Leggi Razziali è tanto più impressionante quanto fu decisiva nella carriera politica di Fini la protezione esplicita di cui godette ad opera di Giorgio Almirante. Questi – rimasto in clandestinità dall’Aprile 1945 fino al Settembre 1946 - fu uno dei fondatori del Movimento Sociale, e non solo era reduce di Salò, ma aveva occupato in essa la carica di Capo di Gabinetto del Ministero della Cultura Popolare. Il Ministro, Fernando Mezzasoma, fu un tipico esponente di quel furbesco fascismo “intellettuale” che nel corso degli anni ’30 si era espresso in una caratteristica istituzione, la “Scuola di Mistica Fascista (fondata nel 1930 da Niccolò Giani, il quale poi nel 1941 morì combattendo in Libia). Seguì Mussolini fino all’ultimo e venne ucciso il 26 Aprile 1945. La protezione di Almirante e della moglie fu decisiva per la carriera missina di Fini e va detto che il personaggio Almirante era più complesso di quanto lo fossero molti gerarchi fascisti: di origine nobiliare partenopea era professore di Filosofia in Liceo, ma la sua vita era stata profondamente influenzata dall’appartenenza ad una famiglia di teatranti. Il padre era stato il direttore di scena di Eleonora Duse e di Ruggero Ruggeri, gli zii Ernesto, Giacomo e Luigi attori assai noti (Luigi fu una piccola icona del cinema italiano immediatamente post-bellico). Il passato di Almirante è tanto più significativo nella carriera di Fini in quanto era stato segretario di redazione, dal 1938 al 1942, della più esplicita rivista antisemita italiana e cioè “La difesa della razza”, fondata e diretta da Telesio Interlandi, un siciliano che aveva deciso di difendere disperatamente l’uomo nordico (fu autore del libro “Contra judaeos”). Va detto che Almirante, sempre orgoglioso del suo passato fascista, sconfessò il suo rapporto con Interlandi, sostenendo di avere “superato” la sua adesione al movimento razzista per ragioni umane e concettuali. Tuttavia la sua determinante presenza nella carriera di Fini rende ancor più difficile capire la sua rapida conversione tipica di questi ultimi anni. Vorrei aggiungere che considero Fini non solo, com’è ovvio, un politico molto astuto, ma anche un politico abile, dotato di capacità oratorie e relazionali che mi sembrano rare nell’attuale classe politica italiana (ad esempio ho notato che spesso egli parla senza leggere su un foglietto, cosa che fanno ormai quasi tutti i parlamentari italiani, dimentichi del fatto che l’organismo in cui siedono – sia la Camera dei Deputati che il Senato – si chiama “Parlamento” e non “Leggimento”, tanto per ribadire quel gusto della libera improvvisazione verbale che è una delle grandi, nobili eredità della inglese Camera dei Comuni). Presumo che Fini, giunto ormai a ricoprire la terza carica dello stato, punti alla seconda (Presidenza del Consiglio), se non in prospettiva lontana alla prima (Presidenza della Repubblica). Probabilmente, rispetto ad altri suoi colleghi, ne ha almeno le capacità formali: scioltezza del dire, furbizia dell’agire, che mancano invece a tanti. Rimane tuttavia straordinario il suo recente cammino e la sua eccezionale capacità di ricostituirsi un passato, accumulando nell’arco di una vita adulta le immagini che le vedono effettuare il saluto romano in mezzo a camerati festanti, e qualche anno dopo ad essere effigiato a Gerusalemme, indossando la “kippah”.
Mi son chiesto spesso se questo suo clamoroso cambio di passo non risenta di quello altrettanto tipico che fu di Benito Mussolini: passato dal Socialismo rivoluzionario e clamorosamente anticlericale, che lo portò ad essere processato per offesa alla bandiera italiana, alla esaltazione del Tricolore ed alla stipula dei Patti Lateranensi.
Forse è un tipico destino italico che segna un esemplare di uomo nostrano estremamente significativo, in possesso di tutti gli strumenti necessari per dar vita ad una clamorosa carriera politica. Tutto sommato Fini non mi è antipatico e pertanto la minima cosa che io possa fare è augurarmi che la sua vita non tocchi i vertici di successo ma anche l’esplosiva violenza della parte finale che resta tipica della vita e della morte di quell’altro…

29 settembre 2008

Ermanno è un “unicum”

Il premio che la Mostra di Venezia, proprio nel corso dell’attuale edizione della manifestazione del Lido, attribuisce a Ermanno Olmi in certo senso colma un vuoto e pone riparo ad un’omissione quasi ridicola. La carriera di Ermanno è una riprova straordinaria di un talento ritroso, cauto e scaltramente proletario che ha stentato ad affermarsi nel cinema italiano. Fin dagli inizi gravò su di lui un sospetto “ideologico” che lo rendeva sgradito a molti. Vale a dire quello di essere un autore “cattolico”, il che lo rendeva sospetto a sinistra, in un ambiente, quello della critica cinematografica italiana, dove la militanza a sinistra è sempre stata importante se non decisiva. Dopo tanti anni (eravamo nel 1961) mi ricordo ancora oggi il momento finale della proiezione, alla Mostra di Venezia, del suo secondo lungometraggio, “Il posto”, e il risolino di compassione con cui due signori anziani e autorevoli guardavano la sala che applaudiva entusiasta: “Lasciamoli divertire”, diceva uno dei due all’altro con un sorriso di indulgente compatimento.
Io non incontro Ermanno da molti anni e negli ultimi decenni ci siamo visti poco, ma è anche vero che ci siamo conosciuti, e diventammo amici, tanti anni fa. C’era in lui un sorridente attivismo lombardo che ribadiva un rapporto con il cinema profondo e istintivo, frutto non tanto di letture ma di un operoso rapporto da filodrammatico con le scene, e con le immagini di cinema da auto-formatosi e talentuoso operatore. Tutti i numerosi documentari aziendali girati per la Montedison, una quarantina fino al 1961, testimoniano di un naturale istinto cinematografico che trova la sua consacrazione in un lungometraggio a soggetto, “Il tempo si è fermato” (1960). Un documentario simulato, il quale in realtà contiene delle tenere e godibili invenzioni di “fiction” a testimonianza del naturale tocco narrativo di Olmi, che non deve niente a nessuno.
Io ho conosciuto Ermanno ancor prima che girasse “Il posto”, quando era in certo senso un conosciuto sconosciuto, e diventammo amici (da qualche parte in casa devo ancora avere una fotografia che ci hanno fatto a S. Margherita Ligure in occasione del Festival del Cinema Latino-Americano: indossiamo entrambi un improbabile abito da sera e malgrado il sorriso festoso sembriamo due “extra” assunti all’ultimo momento da un’impresa di catering). Da allora ho seguito con grande affetto, da lontano, la carriera di Ermanno, il quale è riuscito ad avviare una sua vita professionale autonoma (prima a Milano, poi ad Asiago) senza l’inevitabile trasferimento a Roma, che è uno dei pochi cineasti italiani ad esser riuscito ad evitare (l’altro è Maurizio Nichetti, rimasto ostinatamente milanese). Si può dire che tutti i film di Olmi, in quasi mezzo secolo, testimoniano di un’ostinazione solitaria e narrativamente fruttuosa fuori delle convenzioni para-romanesche del cinema italiano post-bellico. Opere come “Un certo giorno” (1969), il primo film a mia memoria ambientato nel mondo dei pubblicitari milanesi, “Durante l’estate” (1971), curiosamente ambientato in un universo di ricerche araldiche, oppure il clamoroso “L’albero degli zoccoli”, che Olmi riuscì a girare in presa diretta in un arcaico dialetto bergamasco, dando vita ad un capolavoro di poetica ricostruzione del passato. Son passati quasi quarant’anni e Ermanno ci ha abituato a inaspettati colpi di reni. Ad esempio, per indicare un film recente, a un’opera come “Il mestiere delle armi”, straordinario recupero degli ultimi giorni della vita di Giovanni delle Bande Nere (2001); oppure a “Cantando dietro i paraventi” (2003), paradossale re-invenzione di una Cina del XVII° sec.; per non far cenno del più recente “Centochiodi” (2007), dove riusciva ad evocare una crisi personale ed una crisi religiosa a testimonianza di una perenne vitalità narrativa. Una filmografia ampia e straordinaria, per la quale il riconoscimento di Venezia è solo un omaggio tardivo.

Claudio G. FAVA
("EMME-Modena Mondo", a. 2, n. 78 del 3 Settembre 2008)

12 giurati alla russa

Un film di Nikita Mikhalkov è comunque un avvenimento date le esplosive caratteristiche dell’autore, sospinto da una biografia che lo pone al centro delle curiosità politico-culturali della Russia da molti decenni a questa parte. Mikhalkov, fratello minore del regista Andrei Mikhalkov Končalovskij (il quale ha lavorato per anni con successo a Hollywood), è nato in una famiglia di forti connotazioni politico-letterarie: nonni e bisnonni pittori, la madre Natal’ja Končalovskaja poetessa e traduttrice, il padre Sergej M. autore di libri per ragazzi ma anche delle parole dell’inno sovietico. Nikita è cresciuto flottando fra le scadenze di regime e le fascinazioni di una potenziale contestazione. È diventato il regista russo forse più conosciuto all’estero grazie ad opere come “Schiava d’amore” (1976), “Oblomov” (1980), “Oci Ciornie” (1987), “Urga” (1991), “Sole ingannatore” (1994), “Anna – 6-18” (1994) e “Il barbiere di Siberia” (1999), divise tra occhiate teneramente commosse al passato pre-rivoluzionario e terribilmente addolorate sugli anni dello Stalinismo. Il film che adesso circola sugli schermi italiani, “12”, è stato premiato alla Mostra di Venezia 2007 con il Leone d’oro speciale per il complesso dell’opera e ed è entrato nelle nominations per il Premio Oscar 2008 come miglior film in lingua straniera. Contiene molti elementi di curiosità, fra cui un esplicito rinvio nei titoli di testa alla sceneggiatura di Reginald Rose “The Twelve Angry Men”, per un famoso originale televisivo trasmesso nel 1954 da Studio One per la CBS. La sceneggiatura divenne poi l’architettura di un film che si chiamò in Italia “La parola ai giurati” del 1957, clamoroso esordio alla regia di Sidney Lumet, segnato anche dalla presenza di una serie straordinaria di attori, da Henry Fonda via via agli altri undici giurati, tutti di splendido talento: Martin Balsam, John Fiedler, Lee J. Cobb, E. G. Marshall, Jack Klugman, Ed Binns, Jack Warden, Joseph Sweeney, Ed Begley, George Voskovec, Robert Webber.
Il riferimento di Mikhalkov ad un film che è stato un autentico oggetto di culto per tutta la mia generazione, assume un complesso significato cinefilo. Infatti l’intrecciata compilazione del testo russo (un totale di 153’ rispetto ai 95’ del film di Lumet) consente a Mikhalkov una costruzione ambiguamente parallela delle vicende che si intersecano nell’unione-scontro dei dodici giurati russi chiamati a giudicare il destino di un giovane ceceno accusato di aver accoltellato un ufficiale russo che lo aveva adottato e protetto. Il meccanismo di fondo del testo è quello della sceneggiatura di Rose arricchito dalle infinite variazioni personali e dalla rievocazione della guerriglia cecena. Naturalmente anche fra i giurati si ritrovano le componenti familiari e maniacali che furono tipiche dei personaggi americani. Qui in più ci sono un chirurgo che rivendica la sua origine caucasica ed un ebreo costretto a fare i conti con l’antisemitismo viscerale di uno dei giurati che è anche quello che odia maggiormente i ceceni, rei di aver invaso Mosca con i loro soldi e la loro arroganza. Infine il personaggio incaricato di far scattare i buoni sentimenti della coscienza e dell’autocoscienza (fu quello di Henry Fonda) è interpretato dallo stesso Končalovskij, nei panni di un attore ex ufficiale, persuaso dell’innocenza del ragazzo ceceno ma anche convinto che ai giurati convenga proclamare la sua colpevolezza pur di tenerlo in carcere al riparo della vendetta di chi ha ucciso il padre del ragazzo e che attende soltanto di vederlo libero per poter abbattere anche lui.
Opera molto complessa per la varietà degli impulsi narrativi tipicamente russi iniettati nell’originale, concreto dispositivo “yankee” della sceneggiatura di Reginald Rose, il film rivela una gran voglia di far cenno della società moscovita dei nostri giorni e al tempo stesso di commentarne le intricate connessioni ad un passato imbarazzante, ad un presente convulso e ad un futuro aperto a mille possibili contraddizioni.

Claudio G. FAVA

("EMME-Modena Mondo", a. 2, n. 73 del 9 Luglio 2008)


Servillo tra il Bagaglino e la tragedia

L’impresa a cui si è accinto Paolo Sorrentino dirigendo “Il Divo” – suo sesto lungometraggio dopo “L’amore non ha confini”, “L’uomo in più”, “La lunga notte”, “Le conseguenze dell’amore” e “L’amico di famiglia” – è estremamente ricca di difficoltà. Com’è noto, “Il Divo” è un ritratto di Giulio Andreotti che oscilla fra le asperità e i riferimenti alla cronaca quotidiana propri di un “pamphlet”, e le intenzioni più accavallate e tortuose legate alla presenza stessa di un protagonista come Toni Servillo. Ovviamente bravissimo e pur tuttavia servo di due tirannici padroni, Servillo a momenti è una parodia da “super-Bagaglino” e al momento dopo diventa un simbolo complicato, il ritratto di un’Italia complessa e corrotta, dove il “Presidente” si inoltra, così come nelle deserte strade di Roma notturna, circondato da guardie del corpo armate sino ai denti. La straordinaria avventura personale di Andreotti diventa il pretesto per un disegno di una società politica dove da un lato campeggiano i Salvo Lima, Cirino Pomicino, gli Sbardella, i Ciarrapico, i Mino Pecorelli, gli Aldo Moro, i Franco Evangelisti, i Vincenzo Scotti, eccetera, mentre dall’altro, solo indirettamente, è evocato il meccanismo di fondo dell’attività di Andreotti politico per eccellenza. Per inerzia e comodità si è tutti portati a dimenticare che l’intera sua carriera è in qualche modo rapportabile all’ombra del Vaticano, che si staglia e si proietta sulle mere coincidenze romanesche, laziali e mediterranee di cui si nutre la quotidianità del politico. In realtà, quel che vien fuori dalla lettera del film è l’eccellenza di un cammino umano in qualche modo misteriosamente parallelo a quella vocazione biografica a muoversi entro i confini di un’esperienza solo geograficamente italiana, ma che si nutre dei succhi di un mondo d’oltre Tevere, in cui tutta la vita e l’attività politica di Andreotti trovano alimento, motivazione e giustificazione ideologica. A pensarci verrebbe fatto di immaginare quale straordinario Segretario di Stato – altro che i Merry Del Val, i Gasbarri, di cui solitamente ci vengono tessute le lodi – avrebbe potuto essere se avesse scelto, come tanti suoi amici, la veste talare invece di innamorarsi di una ragazza, conosciuta al Verano durante un funerale, di sposarla e di averne diversi figli (la moglie è impersonata da Anna Bonaiuto, che riesce a dare al personaggio una lavorata finezza ed una notevole complessità di testimonianza).
Credo che si avverta nelle mie parole la difficoltà di penetrare nel corpo segreto di un film. Che in parte oscilla fra rievocazioni di tempi, di luoghi e di persone con risvolti di aperta o indiretta polemica. Ma che in parte risente anche del desiderio di dare al personaggio centrale una sua complicata collocazione ideologica, quasi un simbolo dei servaggi e delle servitù che vanno immolati quotidianamente nell’esercizio della politica spicciola. Si capisce che il regista è consapevole del fatto che da un lato è strascinato sul terreno scottante della polemica politica di casa nostra (si veda il dialogo fra Giulio Bosetti con barba d’ordinanza che interpreta Eugenio Scalfari e che rimprovera ad Andreotti non so quante colpe e quante compromissioni), ma che d’altro lato si apre intorno al “Presidente” un enorme terreno di politica e di ideologia all’ombra del quale si è dipanata buona parte della vita pubblica italiana, dal dopoguerra ad oggi.
C’è nel film, nella finezza della struttura visuale sapientemente tessuta da Luca Bigazzi, la continua provocazione, la consapevolezza dolorosa di trovarsi sul confine di una grande scoperta – quella dell’urgenza di una pacificazione nazionale e di una missione internazionale dell’Italia - che il regista ha sfiorato mille volte, senza riuscire tuttavia a varcarlo completamente. Tanto è affascinante l’idea che muove il film, tanto è a momenti deludente il risvolto narrativo della realizzazione. Ma è certo che si tratta di un’opera di un insolito rilievo politologico, a cui il nostro cinema non ci ha abituato e che può ritrovare motivazioni e giustificazioni in alcune opere ormai lontane di Francesco Rosi.
Claudio G. FAVA
("EMME-Modena Mondo", a. 2, n. 72 del 2 Luglio 2008)

Vedi Napoli e poi (sicuramente) muori

Vedendo “Gomorra” di Matteo Garrone, si provano reazioni molto complesse e in parte contraddittorie. Ci si rende subito conto di essere in presenza di un grande film dove il regista e uno stuolo di sceneggiatori riescono a portare sullo schermo il magma ribollente che agita come una forza biologica parallela il tessuto della società napoletana. Fra gli sceneggiatori ci sono lo stesso Garrone e Roberto Saviano, l’autore del libro da cui il film è tratto e che, per intervento dell’allora Ministro Amato e per vergogna d’Italia, deve vivere con una scorta delle forze dell’ordine.
Molti film d’ambiente mafioso fanno baluginare i confini impercettibili ma ferrei di un mondo dove chi è estraneo alla malavita è per sua natura un diverso ed, in certo senso, un malato. Qui in particolare la descrizione è apparentemente distratta, ma in realtà minuziosa, ed evoca uno sfondo dove vecchi, adulti e ragazzi, uomini ma anche madri di famiglia, agiscono tutti all’interno della stessa dialettica e, verrebbe fatto di dire, della stessa rigida gradazione di valori. C’è un’altra Legge, apparentemente non scritta, che regola le azioni di tutti. Tutti rigorosamente camorristi senza che nessuno avverta la possibilità di vivere in un modo differente. La spaventosa periferia urbana e il dirupato mondo contadino sono le due scansioni fisiche entro cui la Camorra trova naturale riparo, anzi che servono a misurare tutte le cose senza dubbi e senza crisi di coscienza (fatte salve le secessioni e le scissioni che scuotono vite e destini degli affiliati).
Garrone, classe 1968, fino ad ora con questo sette lungometraggi, fra cui non si può non ricordare l’eccellente “L’imbalsamatore”, dimostra qui una toccante maturità ed una vaporosa scorrevolezza che gli consentono di evocare un brulichio di personaggi articolati in non meno di cinque frammenti narrativi: essi riguardano il piccolo Totò (Salvatore Abruzzese) che paga il suo scotto al feroce apprendistato; il ragionier Ciro (Gianfelice Imparato) che porta lo “stipendio” della Camorra alle famiglie dei carcerati; il sarto Pasquale (Salvatore Cantalupo) che produce grandi modelli per la “Haute Couture”, ma fa anche il maestro di un’ossequiosa classe di clandestini cinesi; il freddo e cinico Franco (Toni Servillo) abilissimo nel riciclare in Campania i rifiuti ambientali di una ineccepibile società del nord; e infine i due animaleschi adolescenti Marco e Ciro (Marco Macor e Ciro Petrone) che sognano solo una cosa: sparare. E verranno puntualmente uccisi.
Il livello medio dell’interpretazione (ed ho menzionato solo alcuni degli attori) attinge a quelle punte di genialità che sono tipiche di un certo cinema d’ambiente napoletano (si pensi al Nino Vingelli de “La sfida” di Francesco Rosi, del 1958… o a tanti figuranti di un altro film dello stesso Rosi, “Le mani sulla città” del 1963). Ma qui la coralità della recitazione raggiunge sapori toccanti per l’intensità e la profondità dei toni e dei passaggi al punto che il grande Toni Servillo è indubbiamente eccezionale, ma al suo stesso livello recitano i relativamente poco conosciuti Cantalupo e Imparato. In omaggio a quelle misteriose capacità di recitazione che fanno di tanti napoletani dei potenziali, impeccabili protagonisti in grado di dar vita ad una fisiologica popolazione di attori, eguagliati solo, per talento e graduazione di toni, dagli inglesi.
Più largamente, vedendo il film, si è via via permeati da una sorta di incredula stupefazione. Come ha potuto una città, che sotto tanti profili si trova al livello massimo della cultura nazionale, cadere in preda ad una metastasi maligna che sembra averne contagiato il corpo con la stessa lucidità delinquenziale con cui, ad un certo momento, è caduta vittima di una stravolta utilizzazione dei rifiuti urbani?
Francamente non ho una risposta.
Claudio G. FAVA
("EMME-Modena Mondo", a. 2, n. 68, 4 Giugno 2008)

Le vecchiette di Di Gregorio

Alla recente Mostra di Venezia, ha costituito un inatteso motivo di curiosità ed ha dato origine a un piccolo caso. Ha ricevuto anche diversi riconoscimenti, fra cui il “Premio De Laurentiis” per la migliore opera prima. Si tratta di “Pranzo di ferragosto” di Gianni Di Gregorio, uomo ormai di una certa età con un passato ormai ampio di sceneggiatore e di aiuto regista, ma che qui esordisce come attore e di fatto anche come protagonista. Selezionato e presentato alla “Settimana della critica”, “Pranzo di ferragosto” ottenne un riscontro inatteso ed ora è entrato nel circuito cinematografico, con un palese successo di pubblico. Ha indubbiamente molti meriti fra cui quello di durare soltanto un’ora e un quarto, caratteristica nobilissima in un momento in cui tutti i film tendono a durare oltre le due ore, smentendo così le tradizioni di concisione e di brevità che un tempo contraddistinsero l’opera di molti grandi registi. Un’altra caratteristica di fondo è il sofferto carattere autobiografico del film, che a quanto si capisce è girato nella stessa abitazione trasteverina del regista. Del resto tutto il film è molto capitolino, a cominciare dalla presenza di Di Gregorio, il quale riesce a spalmarvi sopra la sua sottile romanità, ribadita dall’accento, dal vocabolario e ancor più dal suo volto che in linea di massima è molto generico e senza severe collocazioni etniche, ma che è anche animato da una sorta di arresa arrendevolezza parastatale, grazie alla quale il personaggio diventa compiuto e coerente. Egli è qui Gianni, uomo ormai di una certa età, senza un mestiere preciso, che vive con l’anzianissima madre e si occupa dei lavori di casa, inciampando di continuo nei debiti (non paga la luce da anni, utilizza gratuitamente l’ascensore e di fatto desta la riprovazione dei condomini che vorrebbero farlo mandar via). Per non scontentare Luigi (Alfonso Santagata), l’amministratore che lo protegge e gli offre di scontare i debiti condominiali (dice che deve andare alle terme per motivi di salute ma poi parte con una ragazza giovane), accetta di tenere in casa durante il periodo di ferragosto la madre di quest’ultimo. Ed è poi costretto a far lo stesso con la zia dello stesso Luigi e con la madre di un amico medico, che lo cura gratis affettuosamente, e che non vuole lasciarla sola durante il turno di notte. Alla fine si trova quattro anziane donne in casa, fa delle acrobazie per sfamarle, è costretto ad andare in giro in una Roma deserta per trovare del pesce per un conveniente pranzo di ferragosto, per accorgersi poi di aver dato vita ad un quartetto femminile di straordinaria intensità da cui accetterà denaro per tenere in piedi una sorta di famiglia senile ma felice.
Si sente che il film è opera di uno sceneggiatore improvvisatosi regista, ma si sente anche il gusto della piccola opera esatta e rifinita, del piacere di un aneddoto breve ma civile, di un elzeviro inatteso in un momento in cui il cinema italiano è prevalentemente magniloquente e ammonitorio o soltanto furbesco. È un film pieno di trovate minime ma garbate: si veda il rapporto fra Gianni, ormai uomo di casa da molti anni, con la cucina e il vino bianco, di cui fa un consumo affettuoso e continuo secondo le tradizioni proletarie di una città ove il vino rosso è sempre stato considerato con sospetto. Naturalmente il film vive grazie alla rinsecchita ma festosa presenza di quattro anziane signore, e cioè: Marina Caciotti (85 anni, la madre di Luigi), Valeria De Franciscis (93 anni, la madre di Giovanni), Grazia Cesarini Sforza (90 anni, madre del medico impersonato da Marcello Ottolenghi) e Maria Calì (87 anni, la zia di Luigi). Sono loro la grande invenzione di un piccolo film grazioso ed al tempo stesso simbolo di una nazione ormai protesa senza remissione verso la vecchiaia.



Claudio G. FAVA




("EMME-Modena Mondo", a. 2, n. 81 del 24 Settembre 2008)

13 settembre 2008

GIOCHI DELLA MEMORIA (3)



In questi giorni si è molto parlato e scritto della copia restaurata (credo da Tatti Sanguineti) della parte allestita da Pasolini per il film "La rabbia", in cui questo frammento veniva proiettato a fianco di un brano omonimo scritto e inventato da Giovannino Guareschi. Com'è noto, il film di Pasolini è stato rimpolpato da brani recuperati e proiettato alla Mostra di Venezia "senza" il pezzo di Guareschi. Nei giorni scorsi mi è capitato, su invito del Prof. Dino Cofrancesco di dirigere una tavola rotonda (presenti i Professori Monti Bragadin e Cipolloni) a conclusione di un congresso sulla satira politica. La manifestazione era organizzata come appuntamento annuale di studi italiani ad uso di universitari stranieri, indetta nella bellissima Villa Durazzo di S. Margherita Ligure e curata dallo stesso Cofrancesco. A conclusione della serata è stato proiettato il brano allestito e commentato da Guareschi, cioè quello che Giuseppe Bertolucci, Presidente della Cineteca Comunale di Bologna, aveva tolto dalla copia presentata al Lido, causando le proteste di Alberto e Carlotta Guareschi (Bertolucci, che è una persona molto perbene, riconoscendone le motivazioni, ha addirittura abbandonato il compito che si era assunto per Venezia). Dopo quarantacinque anni ho pertanto rivisto a S. Margherita il frammento de "La rabbia", curato dal papà di Peppone e Don Camillo, presentato come tipico esempio di satira politica. Passato quasi mezzo secolo, lo confesso, non mi ricordavo assolutamente nulla ma mi è venuta voglia di rileggere quello che avevo scritto a suo tempo, quando ero il critico cinematografico de "Il Corriere Mercantile" di Genova. Ho trovato il ritaglio, Chiara ha avuto la gentilezza di batterlo al computer, è breve e lo trascrivo qui, augurandomi che possa interessare qualche lettore anche se il pezzo, riletto adesso, mi sembra resti nel vago.



CINEMA LUX

LA RABBIA – Italia – Bianco e nero- antologia di montaggio – 1 a. parte a cura di: Pier Paolo Pasolini – Voci: Giorgio Bassani, Renato Guttuso – 2 a. parte a cura di: Giovannino Guareschi con Giacinto Solito – Voci: Carlo Romano, Gigi Artuso – Montaggio: Nino Baragli – Produzione: Opus Film – Galatea - Distribuzione: Warner Bros.

Ecco una curiosa trovata, anche in un’epoca sempre più favorevole ai film di montaggio ed alle antologie filmate di costume e d’attualità. Affidare, cioè, a due personalità totalmente diverse, opposte, antitetiche, che più clamorosamente disarmoniche fra loro non si potrebbero immaginare come Pasolini e Guareschi un compito eguale: rispondere, attraverso un montaggio di immagini di avvenimenti di questo dopoguerra, ad una stessa, complessa, dolorosa domanda: “quali sono le ragioni della nostra stanchezza, della nostra angoscia, della nostra paura, della paura della guerra e della guerra stessa, di cui tutti soffriamo o abbiamo sofferto?”. Ognuno ovviamente, ha risposto a modo suo, Pasolini, da marxista militante, aggrappandosi alle immagini di povertà e di ricchezza, alla pompa fastosa della Chiesa e al messaggio di pace del Concilio Ecumenico (ma i brani che riguardano il Papa sono, solo all’apparenza beffardi. In realtà celano una ambivalenza affettuosa e tormentata, tipica dell’autore). Celebrando la Russia e i russi, e Fidel Castro e gli algerini, pur con dolorose e incomplete punte di critica e di autocritica. Guareschi, da anticomunista convinto, ricordando la scomunica del 1949, l’orrore delle fosse di Katyn o del muro di Berlino. Il commento di Pasolini (particolarmente uggiosa la cupa voce salmodiante di uno dei due “lettori”, il pittore Renato Guttuso) raggiunge qualche alto momento di tensione poetica; ma altrettanto spesso, invece, si impiglia in una tenera e complice oscurità di frasi e di concetti (tipico, a questo riguardo, è l’inizio, con il commento ai fatti di Budapest). Il commento di Guareschi, evidentemente più semplice di struttura e più discorsivo, suonerà famigliare ai suoi antichi lettori di “Candido”. Come si diceva, il film è una “trouvaille” che si esaurirà in se stessa. Troppo diversa è la personalità dei due autori (hanno in comune solo tre cose: sono entrambi cittadini italiani, entrambi sono settentrionali ed entrambi hanno frequentato il Liceo classico; per il resto due monadi, distinte e incomunicabili), [la recensione è stata pubblicata omettendo una parte del testo] rende impossibile una polemica, anche a distanza e senza contraddittorio.
La mancanza di uno sviluppo dialettico qualsiasi confina il film nei limiti sconsolanti d’una testimonianza, significativa anche se parziale, della barriere mentali che dividono gli uomini di oggi gli uni dagli altri, ognuno col suo bagaglio di fedi, pregiudizi, incomprensioni, odii nascosti.
c.g. f. (Claudio G. Fava ,"Corriere Mercantile",
16/04/1963)

5 agosto 2008

GIOCHI DELLA MEMORIA (2)



























Nei giorni scorsi, una Rete nazionale credo della Fininvest, ha avuto un’idea geniale. Ha preso i cinque film – riunendoli in un unico ciclo - interpretati fra il 1964 e il 1968 da Michèle Mercier, diretti da Bernard Borderie (fra gli altri interpreti: Robert Hossein, Jean-Louis Trintignant, Giuliano Gemma) e centrati sul personaggio di Angelica, protagonista dei romanzi di Anne e Serge Golon. Si tratta per l'esattezza di: "Angelica", "La meravigliosa Angelica", "Angelica alla corte del re", "L'indomabile Angelica" e "Angelica e il gran sultano". Essi furono salutati all’epoca da un grande successo popolare, nonostante la critica arricciasse il naso (o forse proprio per questo) e dettero una fuggevole celebrità alla nizzarda Mercier (classe 1939). L’attrice apparve come una sorta di erede e concorrente di Martine Carol (1920-1967), ghiottamente popolare presso un largo pubblico proletario per la bellezza del corpo e l’aria furbescamente invitante. La Mercier resse la sfida per qualche anno e poi scivolò in una filmografia sostanzialmente mediocre, con rari momenti di ripresa soprattutto in Italia (si pensi all’episodio “L’oppio dei popoli” contenuto ne “I mostri” di Dino Risi, ove essa tradisce con tranquilla fermezza il marito Ugo Tognazzi, completamente congelato davanti al televisore). In realtà i cinque film di Angelica sono meno brutti di quello che si è detto e cercano volenterosamente di recuperare il sapore di cappa e spada (e corna) dei romanzi originali ambientati nella Francia di Luigi XIV (XVII Secolo), che dai tempi di Dumas padre ad oggi siamo abituati a vedere come un luogo deputato dell’intrigo e dell’avventura. L’idea di riunirli in un ciclo e programmarli tutti e cinque, settimana per settimana, si direbbe un’idea intelligente, se non fosse che l’avevo già avuta io. Circa trent’anni fa (grosso modo nella seconda metà degli anni ’70). Ero il programmatore di cinema di RAIUNO e stavo portando alla perfezione l’idea stessa dei cicli cinematografici, che avevo ereditato da chi mi aveva preceduto alla RAI negli ’50 e ’60 (io presi servizio a Roma nel Febbraio del 1970). Mi capitò la possibilità di comprare i diritti delle cinque Angeliche, appena immessi sul mercato, non me lo lasciai scappare e quando potei disporre delle copie li misi in palinsesto. Il successo fu immediato e naturalmente stupì molte persone. Paolo di Valmarana, allora mio capo-struttura a RAIUNO, cinefilo disordinato e geniale che alla RAI fece molto per il cinema italiano (soprattutto per quello di sinistra, lui che era un democristiano ufficiale e critico cinematografico de “Il popolo”), rimase sbalordito. Nelle cene romane, ov’era richiestissimo, un fitto pubblico di intellettuali snob si gettò sull’argomento con la passione tutta capitolina per gli sfondi popolari e le interpretazioni sofisticate. Paolo, che non sapeva niente di Angelica, mi interrogava con gli occhi sbarrati, sapendo di dover rendere conto delle future avventure della “Marchesa degli angeli” ad un’accolta di signore esigentissime e di politici viziati. Riconosco che ancora una volta feci un figurone, ribadendo la fama che mi ero fatta sotto il monopolio, quando c’erano solo due Reti, e mentre una trasmetteva in prima serata un film di aperta connotazione popolare e divistica, l’altra metteva in onda – come sostenevo io “per diminuire gli entusiasmi” – un’appassionante serata con Gustav Mahler. È chiaro che io vincevo a mani basse. La cosa divertente è che la mia stessa tecnica venga ripresa circa trent’anni dopo, presumibilmente con un successo decoroso anche se non paragonabile (il panorama del cinema in televisione in trent’anni è cambiato come se ne fossero trascorsi trecento).
Ma è questo un argomento che vorrei in qualche modo riprendere nelle prossime puntate.

4 agosto 2008

GIOCHI DELLA MEMORIA (1)







A rileggerlo nei giorni scorsi (luglio 2008) il mio blog mi è parso insieme autoritario e impositivo, sfuggente ma autocelebrativo e, per dirla tutta insieme, noiosetto. Ho pertanto deciso – la vertigine della solitudine è anche il brivido della dittatura – di renderlo più vario e soprattutto più autobiografico. Cominciando da subito. Ecco il perché del titolo che rimarrà lo stesso per ogni puntata, con l’aggiunta del numero progressivo. Come prima notazione vorrei parlare di Agostino Saccà, del quale i giornali si sono occupati molto nei giorni scorsi. Com’è noto, in seguito ad una complessa manovra politica all’interno del Consiglio di Amministrazione della RAI – con astensioni di qualcuno, fuoriuscite di altri, eccetera - Saccà è stato allontanato dall’incarico importantissimo che ha ricoperto in questi anni, e cioè di responsabile della produzione di Fiction. Da diversi anni, e cioè da quando la RAI produce molto (contrariamente a quello che accadeva ai miei tempi), allestire sceneggiati a puntate ed eventualmente singoli “made for tv” è diventato uno strumento di potere notevole, che consente mille sfumature aziendali ed extra-aziendali. In seguito allo scandalo scoppiato a causa delle sue telefonate con Berlusconi – intercettate e poi rese pubbliche grazie a un meccanismo che a tutti i livelli si manifesta sistematicamente solo in Italia – la posizione di Saccà è diventata delicata e oggetto di complesse trattative giudiziali ed extra-giudiziali. Per farla breve, grazie ad una neo-formata maggioranza di consiglieri è stato allontanato dal suo incarico (gli hanno affidato la sezione commerciale, molto meno importante) e la responsabilità della Fiction è stata data a Fabrizio Del Noce, che ha conservato la Direzione di RAIUNO, accumulando un potere che non credo abbia precedenti alla RAI. Senza volere entrare in una polemica che non mi compete, confesso che la sorte di Saccà mi incuriosisce, stimolando un sapore di affetto da parte mia. Infatti io l’ho conosciuto molto bene lavorando a fianco a fianco con lui per diversi anni. Le cose andarono così: quando il craxiano Pio De Berti Gambini fu allontanato da RAIDUE, dopo anni di direzione, venne a prendere il suo posto un altro socialista, Gigi Locatelli, che fin lì aveva diretto (bene, dicevano molti giornalisti) il TGDUE. Nella rete, invece, non si mostrò mai a suo agio e soprattutto non sembrava in grado di fornire quella operosità continua e ininterrotta che per un simile incarico televisivo è indispensabile. Al suo fianco era stato nominato vice-direttore appunto Agostino Saccà, un socialista calabrese con un passato di giornalista di partito, che era da tempo alla RAI parcheggiato in qualche ufficio della direzione generale, come usava allora (e forse anche adesso), con le persone che avevano come caratteristica principale una specifica provenienza politica. Non credo che Agostino avesse mai avuto responsabilità di programmazione e/o di produzione, ma aveva una caratteristica positiva: era intelligente, furbo, operoso, e imparava in fretta, possedendo tutte le qualità ed i difetti di un socialista calabrese, costretto quindi a farsi strada con tenacia e con astuzia. A fianco di una direttore, che la programmazione normale annoiava (ebbe varie fortune, fra cui l’imprevista esplosione di “Quelli della notte”), Saccà fu costretto dagli avvenimenti a cimentarsi ogni giorno con le infinite scadenze di un palinsesto nazionale. Qui non ho il tempo di spiegare che cosa significhi esattamente programmare una Rete: bisogna ricordare che nulla è casuale e che qualsiasi spostamento, cambiamento, annullamento di uno o più programmi, implica una ferrea necessità di sostituzione con materiale presumibilmente affine e soprattutto della stessa “pezzatura”. Per fare un esempio banale, se si tolgono dodici puntate di una rubrica settimanale di quarantacinque minuti, bisognerà contestualmente trovare altre dodici puntate della stessa durata in grado di sostituirle senza traumi eccessivi. E tutto il palinsesto è di fatto un gioco di domino che si prolunga per mesi e per anni. Di colpo, Agostino si trovò a dover risolvere mille problemi. Ed io fui costretto ad avere continui rapporti con lui, perché la mia Struttura fra film, telefilm, sceneggiati d’acquisto, soap operas, eccetera, forniva di fatto il 60% del palinsesto totale. Tempo dopo, Saccà mi disse che non avrebbe mai dimenticato l’esperienza che avevamo vissuto insieme e che per lui quel periodo era stato come un “master”, che lo aveva preparato alle responsabilità più ampie che avrebbe poi incontrato nel corso della carriera. Devo dire che egli fu sempre estremamente ricettivo, accogliendo volentieri ogni suggerimento ed utilizzando senza falsi pudori una mia esperienza aziendale che ammontava ormai ad almeno quindi anni. Non vorrei sembrare eccessivamente vanitoso, ma mi ricordo che una volta mi testimoniò la sua ammirazione. Chiamato all’ultimo momento a tappare dei buchi nel palinsesto che si aprivano intorno alle 14:00 del pomeriggio, non avendo, per colmare il vuoto improvviso, nessuna serie abbastanza lunga e abbastanza adatta all’ora di programmazione, mi inventai un ciclo di film adatti al pomeriggio palesemente raffazzonato. Frugai cinicamente nei magazzini e allestii una serie di film che non avevano nulla in comune, ma che tolleravano un'intestazione (ed una sigla che io feci comporre) che suonava: “Le donne, i cavalier, l’arme e gli amori”. E poiché l’esperienza mi insegnava che un titolo di ciclo serve molto bene a contrabbandare film disparati, non mi stupii di avere avuto successo anche quella volta ed accolsi come normale l’ammirazione di Agostino.

30 luglio 2008

NOTIZIE SULLO STATO DEI LAVORI (1): I SEI SEGNI DI VENERE



Nell’aprile 2007 le Edizioni Lindau misero sul mercato un libro, a cura di Valerio Caprara, dedicato al film “Il segno di Venere” (1955) di Dino Risi. Il film rientrava nel progetto di restauro de “L’Associazione Philip Morris Progetto Cinema”, che proprio con questo film si concludeva, dopo sedici anni di lavoro di recupero (17 film e 12 corti) di pellicole del passato. Nel libro molto ampio e ricco di materiale – oltre a Valerio vi hanno collaborato molti noti colleghi: Italo Moscati, Claudio Carabba, Natalino Bruzzone, Orio Caldiron, Enrico Lancia, eccetera – la fiducia di Valerio fece sì che mi venissero affidati ben sei capitoletti su altrettanti attori impegnati nel film. Tre lunghi (De Sica, Sordi e Peppino De Filippo) e tre brevi (Raf Vallone, Tina Pica e Virgilio Riento). Dopo più di un anno dalla pubblicazione e con il permesso della Lindau, ho deciso di riportare qui i sei brani che forse potranno essere di qualche utilità per gli appassionati di cinema. Buona (mi auguro) lettura a tutti.


Vittorio De Sica……..”Alessio Spano” p. 133

E’ quasi impossibile per un italiano di una certa generazione vedere sullo schermo Vittorio De Sica (1901/1974) senza in qualche modo commuoversi. Non solo per la grande serie di momenti, ora magici ora meno magici ma tuttavia spesso decisivi, legati alla sua figura nella storia del cinema sonoro italiano dagli anni ’30 agli anni ’70 (per non parlare del teatro: attore generico, poi, tanto per ricalcare il gergo del mestiere, subito “brillante” ed “attor giovane” negli anni ’20, infine “primo attore “ e poi “capocomico” negli anni ‘30 e 40’, sino al progressivo distacco dalle scene). Ma anche per la singolarità e quasi l’eccezionalità della sua personale traiettoria (mi attengo qui per ogni riferimento filmografico e teatrografico all’appendice di Orio Caldiron nel testo collettivo “De Sica” a cura di Lino Micciché, edito nel 1992 da Marsilio. E ricordo che val la pena di dare più di un’occhiata, proprio sul tema della recitazione di De Sica, al saggio di Caldiron “Il gioco del doppio”, contenuto nello stesso volume.)
Va ricordato che sia in Italia che all’estero vi sono molti esempi di attori divenuti poi (o contemporaneamente) registi. Scegliendo a caso, da Dick Powell a John Turturro, da Giuliano Montaldo a Ron Howard e Robert Montgomery passando provocatoriamente attraverso Sofia Coppola e, per contrasto, Ida Lupino, per giungere sino ai grandi Erich von Stroheim e Ernst Lubitsch, e via svariando all’infinito ed in ogni possibile direzione, si possono rintracciare senza soverchia fatica molti attendibili esempi: seguendo variazioni di carriere, situazioni, etnie, collocazioni sociali e politiche. Ognuno degli attori-registi ha la sua storia (e la sua geografia, verrebbe fatto di dire). Ma il cammino di De Sica appare così splendidamente e paradossalmente intrecciato con la storia del costume italiano ed anche, addirittura, con la storia d’Italia, da fare eccezione perfino a livello internazionale.
Oggi forse solo un nome - in un cinema però profondamente cambiato quale è il cinema contemporaneo rispetto a quello di De Sica - mi pare possa, con qualche aggiustamento, reggere il confronto di notorietà e di spessore, ed è quello di Clint Eastwood, attore dapprima periferico e poi di consolidato successo e via via, inaspettatamente, accettato come regista di buona fama sino a rivelarsi grande autore coi fiocchi. Ma anche Clint ha un cammino ben più rettilineo e meno fantasioso di quello di De Sica, ricco di una geniale intemperanza di fondo in certo senso tipicamente italiana, sicché l’esperienza dell’americano non trova che parzialmente paragoni e equivalenze.
Infatti De Sica, superato il battesimo cinematografico de “L’affare Clemenceau” (1917) avrà altre due esperienze col muto, nel 1927 e nel 1928, e poi da attore entrerà trionfalmente nel sonoro a partire dal 1932, anno, fra l‘altro, del fondamentale “Gli uomini che mascalzoni….” di Mario Camerini. In un settennio, appunto dal 1932 al 1939, ecco ben 26 film (uno, “Castelli in aria” di Augusto Genina inaspettatamente girato addirittura in due versioni, una italiana e l’altra, “Ins Blauen Leben”, tedesca ma sempre con De Sica e Lilian Harvey oriunda inglese famosa in Germania). In quei sette anni vennero realizzati in Italia, spesso con il contributo decisivo di De Sica, alcuni tipici esempi di un cinema generalmente “leggero”, garbato, recitato e confezionato con una eleganza poi a lungo trascurata e solo da qualche tempo rivalutata.. Nei film d’epoca De Sica, magro e sorridente, al bisogno canterino e ballerino, (“…parlami d’amore Mariù, tutta la mia vita sei tu…gli occhi tuoi belli brillano, fiamme di sogno scintillano…dimmi che illusione non è, dimmi che sei tutta per me. Qui sul tuo cuor non soffro più, parlami d’amore Mariù…”) si rivela come una sorta di divo a garbato uso interno, di autarchico Cary Grant di Sora. Il 1940, che è per l’Italia l’anno della sciagurata dichiarazione di guerra, è per lui anche quello dell’esordio nella regia, con “Rose scarlatte” e “Maddalena….zero in condotta”. De Sica, a 39 anni, per la prima volta si amministra ormai sia davanti che dietro alla macchina da presa e con quieta fortuna inizia un nuovo mestiere, che lo renderà famoso nel mondo nella sua nuova veste, quanto era già noto in Italia nella versione attoriale. Da questo momento infatti le due attività principali nel mondo del cinema conoscono per lui una divaricazione, a tratti assai netta. Come regista (prescindo dai film ad episodi, anche se uno di essi contiene un particolare curioso: nel 1967 dirige “Una sera come le altre”, uno dei cinque frammenti de “Le Streghe”. A fianco della Mangano vi recita proprio Clint Eastwood che ho citato prima..) firmerà nel corso della vita complessivamente 28 lungometraggi. Dal prima citato “Rose scarlatte” all’ultimo film, “Il viaggio”, del 1974, anno della morte. In essi concedendosi, salvo mio errore, poche apparizioni sullo schermo: da protagonista in “Teresa Venerdì” del 1941, da fugace (e poco ligure) Nino Bixio in “Un garibaldino al convento” (1942), da spettacoloso caratterista nei panni di un nobiluomo malato di gioco d’azzardo (vizio che De Sica conosceva bene in prima persona) il quale, ne “L’oro di Napoli” (1954), perde continuamente a carte con il piccolo Gennarino. E infine da avvocato difensore in un suo film gremito d’attori, “Il giudizio universale” (1961).
Parallelamente egli continua invece a condurre una intensa ma diseguale carriera da interprete, se così si può dire, indipendente, in film altrui (non di rado gli vengono richieste varie prestazioni di regia e di direzione d’attori) a volte di grande ma spesso di discutibile valore. Sicché un uomo che all’estero, quasi sempre ignorando il suo passato di divismo prebellico, diverse generazioni di critici si ostinavano a considerare soltanto il coraggioso, scabro, geniale, sorprendente regista -rivelazione neorealista dei tardi anni ’40 e dei primi anni ’50, soprattutto dopo l’esplosione de “Il processo di Frine” di cui farò cenno più in là, fu anche, in patria, sino agli ultimi giorni, seppure con diseguale fortuna, un meraviglioso e geniale tappabuchi di produzioni di diseguali livelli. Paradossalmente proprio in questa ottica egli ci ha consegnato alcune straordinarie eredità del suo splendido talento di grande attore e al bisogno, di grandissimo attore gigione.
Ho fatto ancora un po’di conti. Dal 1940 in poi sino al 1951 - l’avevo abbandonato prima mentre era appena diventato regista – De Sica appare in 21 film, nei quali son riassunte buona parte delle vicissitudini e delle incertezze belliche e postbelliche attraversate non solo dal cinema italiano ma dall’Italia tout–court: da una “Manon Lescaut” di Carmine Gallone a film drammatici o commedie, di Carlo Ludovico Bragaglia, Amleto Palermi, Raffaello Matarazzo, Vittorio Cottafavi, Alessandro Blasetti (“Nessuno torna indietro”: sfilata di almeno sette dive d’epoca dal romanzo di grande successo di Alba de Céspedes), Giorgio Bianchi, Marcello Pagliero (“Roma città libera “, tentativo di tradurre in proprio in regia il grande successo altrui di “Roma città aperta”), Gennaro Righelli, Camillo Mastrocinque, Pietro Francisci, Duilio Coletti, Léonide Moguy (per “Domani è troppo tardi” sembra che abbia dato una mano in regia), Giorgio Pàstina, Gianni Franciolini, Luigi Zampa. C’è un po’ di tutto. Qualche esordio, o quasi; presenze tenaci di registi sino ad allora importanti ma destinati ad essere via via travolti; frammenti di un cinema inamidato e rapidamente invecchiatosi; brividi di futuro……e un recentissimo passato avvolto da un clima gentilmente attonito che lui stesso aveva contribuito nel 1943 ad incrinare dirigendo “I bambini ci guardano”. De Sica sopravvive come attore partecipando a tutto, dall’omaggio collettivo ad Elsa Merlini in “Cameriera bella presenza offresi” di Giorgio Pàstina alla celebrazione del mito populista-romanesco della Magnani in “Abbasso la ricchezza !” allo zavattinismo animalistico di “Buongiorno, elefante!” e via elencando. Ma non di rado dà l’impressione di girare a vuoto, applicando, tanto per usare un linguaggio calcistico, la sua impeccabile tecnica individuale ad un gioco di squadra di cui sembrano sfuggirgli gli schemi. Poi arriva il 1952 e giunge sul mercato uno di quei film che ripropongono l’insuperabile mestieraccio di Blasetti, il regista con gli stivali che aveva il cinema, a suo modo, nel sangue. E cioè “Altri tempi” ideato da Blasetti e da Suso Cecchi d’Amico e scritto da almeno dodici sceneggiatori che articolavano una introduzione affidata ad un venditore di libri usati ed otto capitoli ispirati da stimoli narrativi o da racconti ottocenteschi di casa nostra.. Uno di questi racconti era contenuto ne “Il processo di Frine” pubblicato nel 1883 da Edoardo Scarfoglio, già marito di Matilde Serao, giornalista napoletano famoso all’epoca e dimenticato da tempo. Come è noto la tradizione vuole che “Phryne” ovvero “Bruna”, fosse l’etéra bellissima ritratta da Prassitele e che egli mostrò nuda ai giudici, i quali stavano per condannarla per empietà e che toccati dalla sua straordinaria bellezza finirono col mandarla assolta. Nell’episodio del film ispirato dal racconto, la contadina Maria Antonia Desiderio (Gina Lollobrigida, allora venticinquenne), silenziosa, prosperosissima e desiderabilissima, viene processata per aver tentato di uccidere il marito e la suocera. L’avvocato d’ufficio (appunto De Sica, ròrido e untuoso di goffa autosoddisfazione e di provinciale vanità) che l’ha fatta restar silenziosa ma agghindata nel modo più invogliante possibile, si abbandona ad un’arringa esaltata e paradossale, e come Prassitele riesce a commuovere giudici e pubblico e strappa l’assoluzione per Maria Antonia. Nel corso dell’intervento l’avvocato pronuncia urlando una frase destinata a diventar famosa (in sostanza chiede che se si nutre indulgenza per i minorati mentali la stessa indulgenza debba esistere anche per le maggiorate fisiche). Per parecchio tempo l’espressione “maggiorata fisica” divenne, tramite il film e De Sica, un espressione corrente nel linguaggio e nel lessico dei giornalisti d’epoca, incapaci di risalire a Scarfoglio ma capacissimi di orecchiare una definizione che diventerà proverbiale e quasi obbligatoria per anni ed anni.
Come si è detto, da quel momento De Sica incomincia, in certo senso, una nuova carriera. Se spesso come regista, pur internazionalmente famoso, stenta a concludere trattative e realizzazione dei suoi film, come attore di carattere, invece, sembra non stentare mai ad ottenere lavoro. Peraltro, subito dopo il fortunato episodio di Blasetti da Scarfoglio nel 1953, egli, a fianco di Danielle Darrieux e di Charles Boyer, è uno dei protagonisti de “I gioielli di Madame de….”. Firmato dal raffinatissimo Max Ophuls, da una novella della snobbissima Louise de Vilmorin, ove ovviamente gli si chiede una prestazione di gran classe, come ai suoi due compagni egualmente famosi. Ma non tutto, naturalmente, è dello stesso livello (curiosamente solo un’altra volta, salvo mio errore, gli capiterà di essere diretto da Dino Risi, in “Un amore a Roma”, del 1960, tratto da Ercole Patti).
Sospinto da quello che ottocentescamente viene voglia di definire “Il demone del gioco “- le catastrofiche sessioni alla roulette di De Sica in alcuni celebri Casinò sono rimaste famose – dal 1953 in poi alterna il meglio e il peggio con un misto di allegra indifferenza e, forse, di triste ostinazione. Finendo poi col dar vita ad una stupefacente galleria di caratterizzazioni. Spesso di gran classe come quelle prime citate: ricordiamo anche la sua raffinata apparizione nell’episodio “Scena all’aperto” a fianco di Elisa Cegani, nel seguito ideale di “ Altri tempi” e cioè “Tempi nostri.”sempre di Blasetti. Oppure la sua grande prestazione da mattatore in uno splendido film di Rossellini del 1959, tratto da un racconto di Indro Montanelli e poco amato da certa critica nostrana che non perdona al truffatore Bertone di mutarsi veramente nel Generale Braccio Fortebraccio Della Rovere……A fianco della divisa del falso-vero generale ve ne sono evidentemente molte altre, da quelle straniere da “pochade” a quelle molto nostrane dei Carabinieri di una volta, ove il maresciallo Carotenuto (quando i marescialli non uscivano quasi giovinetti da una scuola d’Arma, come adesso accade, ma si guadagnavano le spalline in età matura tirando la carretta per tutta una vita ..) è libero di ritrovare, ancora, la Lollobrigida un anno dopo “Altri tempi”, questa volta nei panni della Bersagliera…….
Ed ancor più vi sono gli articolatissimi abiti borghesi degli infiniti personaggi che via via De Sica porta sullo schermo; spesso i più toccanti, perché proiettati su uno sfondo dirupato ove quasi tutto riposa sullo strenuo divismo di un attore di classe mutatosi per bisogno in un grandissimo caratterista. Dal 1953 al 1974, anno della morte, si allineano ben 86 titoli, compresa la partecipazione-omaggio in “C’eravamo tanto amati” di Scola, che è anche il congedo di De Sica dal cinema e dalla vita. Fra i quali titoli si annidano alcune godibilissime chicche, come il ladro pseudopaterno, pomposo, gnomico ed elegantemente scalcinato di “Peccato che sia una canaglia” di Blasetti (1954).
Inventato giusto l’anno prima di regalarci (finalmente ci siamo, dopo tanto cammino !!) Alessio Spano, pseudo poeta e mascalzoncello invecchiato, che ne “Il segno di Venere” ronza con distratta furbizia intorno alla fiduciosa e sognante Cesira, sino a quando, nello stesso stabile, non riesce a collocarsi in casa di una tollerante e ancor piacente fattucchiera emiliana. I dialoghi fra Franca Valeri (un genio di casa nostra, forse non abbastanza lodato e studiato) e De Sica – ha 54 anni, ormai lavora a più non posso da decenni, una certa stanchezza quasi senile si è infiltrata nel viso dell’ex-fresco giovanotto che s’aggirava in bici nella Fiera di Milano eppure ha sempre classe da vendere- sono ancor oggi, ovviamente grazie anche a Risi, un piacere dell’occhio e dell’orecchio. Alessio, che si aggira altezzosamente furtivo nelle stanze della ”Casa del passeggero”, che detta lettere che non può pagare e si impadronisce scioltamente e senza rossori dei soldi destinati ad una colletta benefica, Alessio che cita sempre il suo ignoto poema “Il canto dell’allodola” e finge di parlare al telefono con un direttore della Rai, appare dominato da una furtiva e amichevole ossessione che solo può essere evocata da un grande, grandissimo attore, un piccolo genio votato insieme alla mirabile costruzione di sé ed ad una sorta di bonaria e spietata autodistruzione.


Peppino De Filippo ............"Mario" p. 139

Non è facile scrivere compiutamente di Peppino, proprio perché si tratta di un personaggio tanto celebrato quanto, ovviamente, famigliare a tutti. E’ stato notissimo per decenni, addirittura famoso per diversi anni, in qualche modo insieme a Titina (la migliore di tutti ?) ed Eduardo alla base di un trio teatrale - ed in minor parte cinematografico - che diede vita, con i suoi litigi fra fratelli, forse alla più nota famiglia d’attori italiani (non clamorosamente avventurosa e sparsa lungo tutti i declivi della dissipazione come i Barrymore, tanto per fare un esempio, ma certo vividamente e dialettalmente passionale). Come è noto i De Filippo erano i figli illegittimi di Eduardo Scarpetta – la loro storia famigliare è complicatissima e mi guarderò bene dal sollevarla qui- e fin dall’infanzia calcarono la strada ed i palcoscenici del loro padre naturale (che i tre dovevano chiamare “zio”).
Se si riflette alla sua figura ed alla sua carriera si deve convenire che Peppino ha avuto una (meritatissima) fortuna, tuttavia risultando quasi sempre una sorta di nobilissima “spalla” malgrado vantasse molte caratteristiche tipiche di un primattore. Il paradosso è che, di fatto, lui possedeva (quasi) tutto quel che è necessario per essere un protagonista vero e proprio: la freddezza e la totale sicurezza in scena, la padronanza articolata della mimica e del linguaggio, l’innata capacità di attirare su di sé, senza sforzo alcuno, l’attenzione degli spettatori, il “tempo”, vale a dire la scelta esatta del momento in cui interloquire, tacere, atteggiare il volto, ascoltare, interrompere, eccetera, ovvero una delle risorse che completano e distinguono l’attore vero, e soprattutto il mattatore. Tutto, insomma. Salvo una cosa. Il fisico. Qualsiasi italiano che, al Sud come al Nord, si fosse imbattuto in lui senza riconoscerlo (ipotesi di scuola peraltro poco attendibile, considerata la sua notorietà “tous azimuts”) si sarebbe chiesto: ”Ecco il prototipo dell’impiegato pubblico meridionale. Dove l’ho visto l’ultima volta ? Ad uno sportello delle poste? Oppure al Catasto, per quella fastidiosa pratica del cavedio conteso?”.
In effetti l’aspetto fisico condizionò in modo determinante la carriera cinematografica di Peppino. Appunto non credibile sullo schermo come mattatore, nei film divenne fatalmente un complice, un coprotagonista, un assecondatore, non so quale altra parola inventare per non scrivere di nuovo “spalla” come ho fatto prima, poiché in questo nostrano termine gergale si riassume e si racchiude una subalternità fondamentale, tipica di tanto teatro comico e farsesco (si pensi a Campanini con Chiari, se non addirittura a Rizzo con Macario) ma palesemente troppo ridotta per racchiudere la clamorosa furbizia creativa di Peppino. Il quale però potè spesso dividersi in teatro fra parti, impegni e onori da capocomico mentre invece al cinema oscillò in parti a volte defilate a volte essenziali ma non di rado, pur nella condivisione degli oneri e degli onori, apparentemente secondarie, purtuttavia ribadite da una sorta di significativa diarchia divistica. Ribadita persino nei titoli, secondo una rivelatrice moda divistica d’epoca che accoppiato a Totò - anche sotto questo profilo trionfatore nell’elenco dei titoli - lo vede quasi sempre in seconda posizione e a volte addirittura assente. Ad esempio: “Totò e le donne” (Steno 1952) o il divertente “La banda degli onesti” ridistribuito poi come “Totò falsario”(Camillo Mastrocinque, 1956, con i due campioni affiancati da un eccellente Giacomo Furia, tutti al massimo livello). E poi ancora “Totò, Peppino e i fuorilegge” (Camillo Mastrocinque, 1956), il fondamentale “Totò, Peppino e…la malafemmina” (identici anno e regista; contiene la celebratissima redazione in coppia della lettera alla presunta malafemmina), “Totò, Peppino e le fanatiche” (Mario Mattòli, 1958), il genialmente intitolato “Totò e Peppino divisi a Berlino” (Giorgio Bianchi, 1962). Con almeno per De Filippo una partecipazione ”solitaria” nel titolo (“Peppino, le modelle e “chella llà”, Mario Mattòli, 1957). Utile quest’ultimo film se non altro per valutare la popolarità di Peppino, che, appunto nel titolo, serve da alibi per traghettare un omaggio alla voce ed alle canzoni di Teddy Reno, cantante triestino, ed anche talent-scout di valore, allora popolarissimo ma ormai in buona parte ricordato soprattutto per essere il marito di Rita Pavone. A cavallo fra i ’50 ed i ’60 fu appunto il momento di maggior successo cinematografico di Peppino grazie appunto alla coppia esplosiva che era venuta formandosi con Totò. Come scrive giustamente Guglielmo Siniscalchi “ (…) sempre attento a mantenere alto il confronto dialettico con la straripante fisicità della “marionetta ” Totò,….è stato il grande interprete di una comicità sorniona e “di riflesso”interamente costruita su una sapiente arte dell’improvvisazione, su equivoci, giochi linguistici (…) e su una sottile vena di malinconia”
Vediamo con ordine questi due determinanti frammenti della sua vita d’attore. Visto che abbiamo cominciato col cinema, col cinema continuiamo, anche se fu la parte della sua vita professionale che, mi pare d’aver capito, egli, in fondo, amò meno e che purtuttavia divenne, insieme alla televisione, in certo modo determinante nel modellargli intorno un successo palese e, inaspettatamente, duraturo. Esordì al cinema nel 1933 in “Tre uomini in frack” di Mario Bonnard, e sino al 1943 partecipò a un po’ meno di una ventina di film, spesso insieme a Titina ed Eduardo con cui costituì sin dagli inizi una “Ditta” teatrale rapidamente affermatasi infranta poi nel 1944 in seguito ad una lite fra lui e il fratello maggiore. E’ anche protagonista nel 1941 in “Notte di fortuna” di Raffaello Matarazzo e appunto nel 1943 partecipa all’ultimo film del trio, “Ti conosco, mascherina !”di Eduardo da una commedia di quest’ultimo, grande successo d’epoca. Ne decenni successivi, Peppino farà ancora molto cinema (complessivamente in carriera quasi cento film) ma solo di rado avrà modo di far risaltare il suo freddo talento di (potenziale) protagonista. Val la pena di citare ancora quattro film a fianco di Totò, anche se il duo non è richiamato del titolo. E cioè nel 1959 “Arrangiatevi !” di Mauro Bolognini – esperta sceneggiatura di Benvenuti e De Bernardi - dove il vero protagonista una volta tanto è Peppino che porta la famiglia a vivere in un comodo appartamento, imbarazzante e ovviamente malfamato poiché è un ex casa chiusa, resa sfitta dalla Legge Merlin. Poi sempre nel 1959 “La cambiale” di Camillo Mastrocinque” dove Totò e Peppino rialzano il livello del filmetto creando i due cugini Posalaquaglia e Posalaquaglia, specializzati in “consulenze testimoniali” vale a dire in false testimonianze in Tribunale. Nel 1960 c’è “Chi si ferma è perduto” (Sergio Corbucci,) con i due che sono vecchi amici e colleghi ma che diventano nemici quando muore il capoufficio e il suo posto resta vacante. Infine, sempre nel 1960, “Signori si nasce” di Mario Mattòli con Totò nobile libertino e scialacquatore ed il fratello, Pio di nome e di fatto, compunto titolare di una avviata sartoria ecclesiastica.
Tutti film in cui il talento di Peppino - di “spalla” o di deuteragonista di lusso- rifulge splendidamente. E naturalmente prima di tutti, nel 1950, ricordiamo Lattuada e Fellini (due all’occhio lungo !) che seppero abilmente, fra la furbesca Del Poggio e la rassegnata Masina, collocare Peppino protagonista in “Luci del varietà”, su uno sfondo popolaresco di teatro minimo che Fellini celebrerà anche in seguito, e che aveva realmente frequentato quando scriveva dialoghi per Aldo Fabrizi. Non è un caso che sia proprio Fellini, nel 1962, a ripresentare Peppino nell’episodio “Le tentazioni del dottor Antonio” contenuto in “Boccaccio 70”. Come si vede molti momenti di fulgore, che un analisi minuziosa consentirebbe forse di meglio allargare. In ogni caso tutti gli esempi da me fatti ruotano entro quel ventennio ‘50/’70 in cui “Il segno di Venere” si colloca con significativo tempismo
Veniamo ora a Peppino uomo di palcoscenico. Come si è detto fu il teatro la parte determinante, e per lunghi periodi totalizzante, della vita di Peppino. Vediamo di ripercorrerne rapidamente le tappe. Peppino, nato a Napoli il 4 -secondo altre fonti il 24 -agosto del 1903, morirà a Roma il 27 gennaio 1980 Nel 1955, anno del film di Risi di cui ci occupiamo, è in un momento che si rivelerà cruciale: ha dunque 52 anni e si avvia alla parte più ricca di successo della sua lunghissima carriera. Per la verità il successo teatrale è in buona parte già consolidato, ma proprio negli anni ’50 si concreta e si espande, come si è visto, quello cinematografico. La qual cosa, curiosamente, sembra non abbia mai interessato moltissimo un uomo che era teatrante nell’animo e che altro non voleva essere. In effetti Peppino al pari del fratello maggiore e della sorella, visse, per così dire, in teatro da sempre. Come prima ricordato era figlio illegittimo, come Eduardo e Titina, di Eduardo Scarpetta, grande attore napoletano il quale ebbe una discendenza tutta legata al palcoscenico ed alla recitazione. Cito a mo’ d’esempio un fratellastro dei De Filippo, Eduardo Passarelli, a lungo caratterista nel cinema, una quarantina di film, e sulle scene. Molti – il fisico e la recitazione evocavano esplicitamente Eduardo – lo ricorderanno nei panni del bonario poliziotto metropolitano, il brigadiere amico del fidanzato di Anna Magnani, in ”Roma città aperta”. Del resto la prima delle tre mogli di De Filippo, Adele, madre di Luigi, unico figlio di Peppino, era sorella di Pietro Carloni, marito di Titina. Il quale - appartenendo ad una famiglia che fu silenziosamente, per decenni, sulle scene e fuori, fedele ai De Filippo - recitò sempre a fianco della grande attrice.
L’esperienza teatrale di Peppino si può dividere in due ampi tronconi, a loro volta articolati in frammenti minori, e cioè innanzitutto nel periodo in cui lavorò a fianco di Eduardo e in quello, iniziato nel dicembre 1944 dopo una lite furenti, in cui egli si separò da Eduardo, e che andò sino alla morte. Peppino, nato per cosi dire, nelle quinte, esordisce a 6 anni, nel 1909, in “Nu’ministro miezz’e guaiee”, oltre che nella parte di Peppiniello, figlio di Felice Sciosciammocca. Sino al 1919 lavora come generico nella compagnia del figlio legittimo di Scarpetta, Vincenzo, con cui però non va d’accordo. Nel 1920 conosce Totò nella compagnia Molinari. Poi cambia diverse compagnie e diverse collocazioni. Nel 1929 sposa Adele Carloni e torna ancora una volta da Vincenzo Scarpetta (il padre è morto nel 1925), poi di nuovo alla Molinari, poi i tre fratelli danni vita al gruppo “Ribalta gaia”. Nel 1931 al Kursaal di Napoli “Natale in casa Cupiello”: primo grande successo di critica e di pubblico.Nel 1932 nasce la “Compagnia Umoristica i De Filippo, di cui fa parte anche Tina Pica,”che recita un testo di Eduardo ed uno di Peppino. Si va avanti insieme ma con dissapori crescenti fra i due fratelli, appunto sino al 1944. Poi il divorzio. Dal 1945 debutta con una sua Compagnia, e così andrà avanti sino agli ultimi anni negli spazi o che il cinema (e la TV) gli lasceranno. Liberi. E’ stato rilevato che mentre Eduardo in genere metteva in scena testi suoi, Peppino, pur avendone scritti almeno una trentina, fu generoso di testi altrui. Nel corso dei decenni si andò dai classici (Plauto e Molière) a molto Pirandello e Bracco, via via sino ad un stuolo di commediografi italiani contemporanei –De Stefani, Guglielmo Giannini, Morucchio, Terron, Pugliese, Dino Falconi, eccetera – ma sempre secondo gli specialisti, piegati e condizionati da una sorta di creativa intromissione personale.
Infine, a conclusione, ricopio da internet (sito:
www.italiamemoria.info/peppinodefilpo/appa.htm) quella parte della scrupolosa voce su Peppino curata da Silvia Ortolani che riguarda il personaggio di Pappagone. il quale grazie alla TV godette per anni di una clamorosa notorietà. Lo faccio non certo per voglia di plagio ma perché non saprei e potrei far di meglio, mentre per definire il personaggio Peppino - la sua apparizione ne “Il segno di Venere” è impeccabilmente omologata alla sua carriera e speculare rispetto a quella di Sordi - un ricordo di Pappagone è fondamentale. Ecco, con i miei saluti, una parte del testo della Ortolani:
"Il personaggio di Pappagone nasce nel 1966 all'interno del programma musicale-televisivo Scala Reale……..E’ un uomo ignorante, un campagnolo che ha un impatto violento e choccante con l'ambiente cittadino, dove si parla una lingua che non è la sua (…) Anche la sua fisicità è impacciata, al punto da creare situazioni inverosimili in cui la fantasia dell'attore permette di far avvicinare il ridicolo al dadaismo. (…) Il successo del personaggio fu tale che la critica ne trasse lunghe disquisizioni ed evocò, per spiegare l'origine del nome, Pappus e Arpagone! Peppino spiegò in televisione che Pappagone è… una qualità di prugna che si vende a Napoli.
Con il ciuffo di capelli dritto sulla testa Pappagone ha una lingua tutta sua. Pappagone risponde al telefono: "Pronto… chi chiacchiera?"Pappagone chiede perché: "E piriché?"Pappagone non vuole immischiarsi: "Non metto lingua". Pappagone dice ecco qua: "Equequa!""Pappagone fa gli scongiuri: "Aglio fravaglio… fattura ca nun quaglia… corna e bicorna…caparice e capodaglio…"Pappagone ha perso i genitori: "Sono scorfano di padre e di madre"Pappagone deve fare una scelta: "Mamma mia che corresponsabilità” Pappagone chiede di non preoccuparsi: "Non vi percorate"Pappagone non ha capito: "Che signifisica?"

Automobile:automorbida

Imbrogliata:arrovogliata

Astronave:astrodinave

Colorato: Corolato

Alla fine: Alla fidinfine

Frigorifero: freddorifero

Spenta: stutataI

nfanzia: infanticida

Whisky: fischio

Signorsì e signorno: gnoresì, gnoreno

Le coronarie: Le incoronate

Proprio:propeto

Misacrifico: misacrifisico

Vi tiro su: vi carriculo

Manigoldomanicorto

Amleto: Omletto

Le orecchie turate: le orecchie appilate

Finisce: fernisce

Filibustiere: figlio di pustiere

Sconfitto:soffritto

Italiano: taliano

Perciò: piriciò

Solletico: Solleticolo

Aperitivo: primitivo
Insegnato: inzagnato."
Di fronte all’esplosiva meridionalità di Pappagone l’Italia rise (misteriosamente, ma non troppo ) per anni.

Alberto Sordi…. “Romolo Proietti” p. 145

Un po’ di doverosa contabilità: quando partecipa al “Segno di Venere”, Alberto Sordi (nato a Roma il 15 giugno 1920, ivi morto il 25 febbraio 2003) ha 35 anni ed è appena nella parte iniziale di un camino prodigiosamente intenso che lo porterà ad apparire, nel giro di 60 anni in non meno di 145 film, dirigendo 16 lungometraggi , più due episodi di film a più mani, e co-sceneggiandone un numero ben maggiore. In particolare sono proprio gli anni Cinquanta quelli in cui in cui egli sta foggiando il personaggio complessivo, che proporrà poi per decenni agli italiani, con la stessa tenacia e con un successo dapprima e per molti decenni, clamoroso, pur se illanguidito negli ultimi tempi. Giusto in quel periodo, appunto negli anni ’50, Sordi lavora furiosamente. Da “Mamma mia, che impressione!”(1951) a “Brevi amori a Palma di Majorca” (1959) trascorrono soltanto 8 anni: periodo relativamente breve in cui lui, stakhanovista nato, riesce ad allineare complessivamente 56 film, alla folle media di 7 titoli all’anno. Anzi, nel 1955 la media addirittura la supera. Oltre al “Segno” appare infatti anche in altri 7 film: “L’arte di arrangiarsi”, ”Buonanotte …avvocato!”, “Un eroe dei nostri tempi”, “La bella di Roma”, “Accadde al penitenziario”, “Bravissimo”, “Piccola posta”. Giusto per riassumere i temi di fondo - vedremo dopo il personaggio de “Il segno di Venere - in questo modo egli è, via via nel giro di un anno e nell’ordine, Rosario Scimoni detto “Sasà”, carrierista protervo e pronto a tutto salvo che all’onestà, l‘avvocato Alberto Santi, che vorrebbe tanto tradire la moglie e non gli riesce, l’impiegatuccio Alberto Menichetti il quale per non compromettersi fa qualsiasi cosa e si mette sempre di più nei pasticci, Gracco voglioso di donne ma frenato dagli scrupoli religiosi, Giulio Parmitoni, ubriacone sistematico e detenuto occasionale, poi l’enfatico maestro Ubaldo Impallato (amante di canzoni alpine ma anche, per il suo magro vitto, di verdura di campo da far cercare in campagna ai bambini che gli sono affidati) il quale ha la fortuna di scoprire un ragazzino prodigio, prima splendido baritono poi virtuoso del pianoforte. E infine è anche Rodolfo Vanzino, falso conte ma truffatore vero e spietato, che dirige una casa - trappola per vecchiette indifese.
Del resto va ricordato che al momento di impegnarsi nel film di Risi Sordi, se non è ancora popolarissimo come lo sarà fra qualche anno, non è uno sconosciuto: ha già sulle spalle, bene o male, 41 film, ha fatto anche, e con esito soddisfacente, a tutti i livelli, parecchio doppiaggio. Ricordiamo, fra le diverse voci, oltre a quella tipica di Oliver Hardy, ovvero “Ollio” a fianco di Mauro Zambuto, cioè ”Stanlio”, anche, giusto per fare un esempio, quella di Marcello Mastroianni in “Domenica d’agosto”di Luciano Emmer. Si è cautamente cimentato, a livelli diversi, dal 1936 al 1953, col teatro di varietà, anche da protagonista a fianco della Osiris. E infine in un’epoca senza televisione ha acquistato notorietà grazie a ossessive macchiette radiofoniche dall’insistita modulazione romanesca (I compagnucci della parrocchietta, Mario Pio). Al cinema allinea appunto un cascata di titoli diversi e di interpretazioni diverse, che comprendono il periodo, per così dire, del praticantato. Il quale comincia dall’esordio ne “La Principessa Tarakanowa (1938), giungendo sino, grosso modo, a “E’ arrivato l’accordatore” (1952). Partecipazioni d’importanza via via crescente con alcune esplosive anticipazioni di sapore divistico tuttavia poi spietatamente riassorbite dal lavoro di manovalanza. Ad esempio a pochi anni dall’inizio, nel 1942, grazie a Mario Mattoli, Sordi si ritrova, a fianco di Leonardo Cortese, all’epoca famoso, e di Carlo Minello, a far parte del trio protagonista dei “Tre aquilotti” ed ha l’emozione, in un periodo in cui questo contava, di indossare la divisa di allievo ufficiale a Caserta (la splendida costruzione del Vanvitelli fu, dal 1926 al 1943, sede dell’Accademia della Regia Aeronautica) e poi di sottotenente pilota. Notorietà fugace, che crudelmente tramonta subito. Ma Sordi non si abbatte: con la tenacia che ha sempre avuto nei suoi mezzi si rifugia di nuovo nel semi anonimato dei “caratteri” di talento. Debbono trascorrere ben 9 anni – e 12 film – prima che Sordi ritorni bizzarramente a far capolino da protagonista con “Mamma mia, che impressione !” (1951) ove impersona un boy-scout romano, petulante, ossessivo, benintenzionato, persecutorio e distruttivo in ogni sua azione. Prosecuzione di una potenziale macchietta radiofonica è un personaggio marginale ma già molto sordiano; tuttavia il pubblico, soprattutto al Nord, non abituato non solo all’accento ed agli isterici modismi capitolini del personaggio ma anche alla stessa scalcinata mitologia “cattolica” che lo guida, di fatto lo rifiuta. Con allegra e divertita malignità Sordi mi raccontò che proprio dopo aver girato il film si trovò a colloquio con un alto prelato, allora molto influente nel cinema e particolarmente nel Centro Cattolico Cinematografico (forse era Monsignor Galletto, ma vado a memoria, e in modo tristemente ovvio mi trovo senza possibilità di riscontri). Il presule protestò con Sordi, perchè proprio un bravo giovanotto come lui, nel fondo rispettoso di Santa Romana Chiesa, in ”Mamma mia, che impressione!” aveva disegnato una figuretta goffa di boy-scout, segnato da tutte le caratteristiche negative che i luoghi comuni anticlericali imprestavano alla categoria. Proprio in quel momento entrò nella stanza, recando una pratica d’ ufficio, un giovinetto pallido, foruncoloso, impacciato, goffamente untuoso che sembrava una proiezione animata del personaggio creato da Sordi. E il Monsignore si tacque…….
La svolta, come è noto, giunse all’inizio degli anni ’50. Dapprima con Fellini. Nel 1952 “Lo sceicco bianco”, nel 1953 “I vitelloni”, ricchi di splendide conseguenze per la carriera ma in un primo tempo certo più graditi alla critica che al pubblico. E poi, agli inizi del 1954, “Un giorno in Pretura” di Steno. Fra i sei episodi che compongono il film quello animato da Sordi è fuori di dubbio il più clamorosamente originale, in certo senso il più avanti sui tempi, il più stralunato, il più inatteso. Sordi ci teneva a ricordare che l’episodio - in effetti egli figura fra gli sceneggiatori a fianco di Continenza, Fulci, Viganotti e dello stesso regista - era totalmente una sua invenzione. Lo aveva offerto a Steno, che gli aveva chiesto se avesse un’idea e Sordi, ricordandosi “di certe esperienze da ragazzo con un giovanottaccio fra il bullo e il fallito che si esibiva in un marrana” buttò già il soggetto e glielo portò. Inizialmente Steno lo rifiutò, probabilmente perché era troppo strampalato. Poi, avendo bisogno, come si dice in gergo, di “metraggio”, alle fine accettò di inserirlo nel film, probabilmente senza sospettare che”Un giorno in Pretura” sarà ricordato per sempre proprio grazie a Moriconi Ferdinando, detto “L’americano”. Infatti quell’infantile e maniacale giovanotto romano, che oscilla fra l’idiozia frenetica e l’imitazione sognata e sognante di un’America vista al cinema e reinventata con strabica fantasia, entrò trionfalmente nella storia del cinema italiano. E, vorrei dire, nella storia minuta d’Italia. Battendo nel 1954 ogni possibile record, Sordi in quell’anno apparve in ben 13 film e in particolare proprio in quell’anno riprese per esteso il personaggio di Moriconi in un intero e disarmonico lungometraggio, “Un americano a Roma” sempre di Steno - anche qui figura fra gli sceneggiatori - dove si spaccia anche per ballerino col nome di Santi Byron. Comunque trovò successivamente il modo di riproporre le fondamenta del personaggio, all’inizio segnato da un frenetico inglese d’imitazione e da istintive intonazioni grottescamente plebee. Si veda appunto il malinconico ritorno del giovanotto (invecchiato) nei panni di un “gorilla nell’episodio “Fuoco” in “Di che segno sei ?” (1975). Del resto un debole per una sorta di ragionata follia romanesca Sordi l’ha sempre avuto. Basta ricordare il “giovanotto bislacco, pomposo, arrogante e sconclusionato” che aveva creato con grande successo (appunto a Roma, meno a Milano) a partire dal maggio 1947 nella rivista “E lui dice. Il quale andava in giro con una gonna scozzese solo per attirare l’attenzione e vendere piccoli ordigni per creare bolle di sapone. E che venne in certo modo trasferito di peso, per sbalordire il buon Commissario Nino Taranto, nel film “Accadde al Commissariato” (1954) di Giorgio C. Simonelli.
In questi film, ma anche in quelli che verranno successivamente, gettando via via le fondamenta di un organizzatissimo ed ineguagliabile divismo, ora protagonista ora comprimario, Sordi in qualche caso si accolla l’intero film sulle spalle, in altri si concede apparizioni minori, non di rado baluginanti di esplosiva, poetica follia. Non tutto, ovviamente, è allo stesso livello, ma tutto contribuisce a costruire quella figura multipla, possente, irridente ed a volte perfino imbarazzante che finirà con l’occupare un posto senza eguali nel cinema italiano post-bellico. All’epoca ci si affannava a dire che gli diventava, in certo modo, una sorta di riassunto e di simbolo dell’italiano medio. Io stesso all’inizio del decennio successivo, scrissi un profilo d’attore intitolato “Un italiano formato tessera”. Adesso, dopo quasi mezzo secolo, avendo vissuto 25 anni nella capitale ed avendo scritto un libro su Sordi, cambierei il titolo, senza nessuna intenzione polemica ma per amor di verità, in “Un romano formato tessera”. Non è un caso che spesso egli si sia presentato come una sorta di antologia vivente delle verità-falsità, dei luoghi comuni e degli ammiccamenti ingegnosi centrati sull’essere capitolino. Certo Sordi era programmaticamente, un romano formato tessera. Ma come uomo era anche qualcosa di più e di diverso. Da un lato nutriva per la sua città il distratto ma intenso e automatico patriottismo di tanti suoi concittadini (“A città più bella der monno..”), dall’altro non si risparmiava battute ironiche su un popolo che sembrava a lui, lavoratore forsennato e quasi maniacale nella concentrazione dell’opra, pigro, incostante e approssimativo (“Non c’hanno voja de fà niente, pur ner parlà se risparmieno, dicono “ tera” e “guera” pur de non dì “terra” e “guerra”…). Per capire Sordi e quindi il suo modo di recitare e di vivere - le due cose furono in lui strettamente connesse, molto più di quanto solitamente accada con gli attori, spesso usi a scindere vita e lavoro, articolando automaticamente le due cose quasi fossero due variabili indipendenti - è indispensabile ricordare fra alcuni dati di base l’ovvia romanità di Sordi, che risultava tuttavia profonda e complessa. E non solo folcloristica come pareva a molti. A modo suo egli era un discendente di Pasquino ma anche di Belli, il suo rapporto con la Cattolicità era proprio quello dei contemporanei del poeta, la Chiesa era al tempo stesso la Via per l’Infinito da un lato (da guardare con devoto rispetto e da obbedire nei dogmi senza riserve) e dall’altro la Regione Lazio e il Comune di Roma fusi insieme (provocando saltuariamente in lui una radicata e inevitabile diffidenza capitolina).. Poteva dunque concedersi tante astuzie e magari tante infrazioni. Una volta, con un trasalimento tipicamente indigeno nei confronti di un Pontefice straniero – ricordatevi le reazioni della piazza dopo 7 papi francesi: “romano lo volemo, o almanco italiano…”.- mi disse, imitando al bisogno una sorta di cadenza slava: “Caro Fava, ma questo Papa polacco, quando dice LA MATONNA !, ma che fa, bestemmia ??”. Era il gusto della battuta di uno che nel fondo, poiché sentiva e ribadiva una fedeltà assoluta all’istituzione, tanto più poteva permettersi, lui che andava regolarmente a messa, meditate evasioni. Ogni tanto si concedeva il lusso di disegnare figurine clericali ora goffe, ora pompose, per non parlare del disinvolto Monsignore che (si veda “Quelle strane occasioni” di Luigi Comencini del 1976) per colpa del complice più fidato di Sordi , e cioè Rodolfo Sonego, seduce e possiede la Sandrelli in un ascensore fermo per un guasto, e poi le spiega che non v’è stato peccato di sorta visto che entrambi non potevano disporre del loro libero arbitrio. Una fedeltà bizzosa e magari peccatrice che però non si smentiva nel fondo. Quella, nella sostanza, del marchese del Grillo. Al punto che una volta mi confidò ed era (quasi) sincero: “Creda a me. L’ultimo vero Papa è stato Pio XII e l’ultimo Cardinale, Ottaviani….”.
Questo atteggiamento si riflette, con significativa verità, in tante sue apparizioni d’attore. In cui attingeva fisiologicamente, in un modo che agli inizi suonò paradossale, ad una sorta di trafelata epica minore a sfondo rigorosamente capitolino, di cui era il creatore ma anche, in certo modo, l’ostaggio. Si veda il personaggetto divertito ma piccolo rispetto a tante sue creazioni successive che egli sbozza nel “Segno di Venere”. Si direbbe che a momenti, consapevole di una certa debolezza di fondo, ne esageri apertamente le caratteristiche. Ne costruisce la parte, come dire, esterna, ossessionando il povero Peppino De Filippo, disperatamente impiegatizio nel suo considerarsi un fotografo ricco di senso artistico, con il problema della vendita di un automobile che quegli né cerca né vuole. E quella interna con una sorta di vernacolare follia alla Moriconi: tratta male la povera Valeri, balla e poi s’annoia subito, combina pasticci e poi si rifugia sotto la protezione della mamma consapevole, severa e pure indulgente…..
Una delle tante prove d’attore che gli hanno concesso di dar vita ad una ossessiva, geniale figura di fondo che, tutto sommato, non ha eguali nella storia del cinema italiano……


Raf Vallone..............."Ignazio" p. 151

Ne “Il segno di Venere”, basta vederlo entrare in scena al momento dell’incidente di macchina, per concepire qualche dubbio sulla sua reale duttilità d’attore. Dubbio che, per la verità, rimane anche vedendo il resto del film. Soprattutto se si confronta il suo sorriso un po’ vacuo e la disponibile recitazione con la quasi automatica e cinica scaltrezza di cui dan prova i marpioni con cui si confronta (ovviamente De Sica, Pica, Riento, Peppino, Sordi, ma anche la geniale Valeri e la stessa Sophia, in parte ancora impacciata ma di nascita già sinuosa caratterista, in attesa di definitiva promozione a protagonista in Servizio Permanente Effettivo). E sino alla fine del film questa sensazione resta viva: si guardi all’eccesso impacciato di sorridente buonismo con cui irrora padre e zia di Agnese quando ormai viene accettato come genero futuro ma imminente. Probabilmente Vallone non era completamente adatto al clima, caciarone e pur scaltrissimo, della commedia italica d’epoca, chiamata poi come è noto, con un sottofondo di spregio, “all’italiana” (quale si addiceva, ad esempio, ad un talento aristocratico, aguzzo e irridente come quello del grande Dino).
Va detto che qui si rischia apparentemente di scivolare nell’ ingiustizia. In realtà Vallone, al di là di questo e di altri caratteri ricoperti nella sua lunga carriera, era un personaggio complicato. Come è noto arrivò alla recitazione quasi per caso. Nato in Calabria il 17 febbraio 1916- sua nonna era una nobildonna di Tropea, Eleonora Potenzoni Mottola, mamma del marchese Saverio Mottola - crebbe a Torino dove un padre avvocato lo volle laureato (in legge ma anche in lettere) e dove per suo conto, dotato di un fisico atletico, giocò al calcio. Lo fece si badi –seguo qui il traliccio di una confessione raccolta nel 1997 da Aldo Cazzullo - ad un livello professionale, in serie A, diventando nel Torino mezzala destra, nello stesso ruolo in cui poi giocò Loik. Nella sua intervista Vallone ricordò una volta con orgoglio che in campionato dovette affrontare l’Ambrosiana Inter (era il nome imposto dal Governo fascista all’Internazionale, così come il Genoa dovette chiamarsi Genova e il Milan Milano) che contava allora con le due mezze ali più forti d’Italia, Meazza e Ferrari. Vallone dice: “non avevo grandi piedi ma molto fiato” e seguendo gli ordini di Egri Erbstein (morì a Superga) riuscì a giocare in mezzo ai due impedendone i passaggi, e il Toro vinse 1 a 0. Abbandonato il calcio, si laureò in legge ed in lettere, fece qualche esperienza teatrale al “Gobetti”. le sue frequentazioni “azioniste” gli aprirono – nonostante. dice, non avesse la tessera del PCI - le porte dell’ “Unità”, ove, su invito di Davide Lajolo, curò per qualche anno la terza pagina. Fu per questo che De Santis, il quale si accingeva a girare “Riso amaro” e voleva documentarsi perché Vallone aveva redatto una inchiesta sulle mondine, andò con lui, Gianni Puccini e Lizzani, a pranzo alle Tre Galline, ristorante torinese già tradizionale all’epoca. A tavola Vallone gli recita il testamento del soldato Woyzech di Georg Büchner e De Santis lo “arruola” su due piedi per la parte del sergente nel film. La settimana dopo Vallone era a Roma alla Lux film a firmare un contratto per cinque anni (rinnovando in modo stabile un legame col cinema misteriosamente iniziato nel 1942, quando apparve come comparsa, nel camisaccio di un marinaio, in “Noi vivi” di Goffredo Alessandrini).
Di fatto fu, in certo modo, un impegno a vita. Vallone morì a Roma il 31 ottobre del 2002. E praticamente non smise mai di lavorare. In effetti ha fatto cinema, e negli ultimi anni solo televisione, sino al 2000, allineando quasi un centinaio di titoli. E alternandoli ad una attività teatrale in certi periodi assai intensa. Fra l’altro, oltre che in italiano a Milano e Roma, recitò a Parigi in francese “Uno sguardo dal ponte” di Arthur Miller , regia di Peter Brook (piacque a Sidney Lumet che ne diresse una versione cinematografica con Vallone protagonista) ed in inglese, con la Royal Shakespeare Company, “The Duchess of Malfi” di John Webster. Firmò anche molte regie d’opera Ma al cinema la sua presenza fu prevalentemente “drammatica, Sia nei tipici film nostrani anni’50 – fu nel “Cammino della speranza”di Germi che conobbe Elena Varzi, per sempre sua moglie e madre di tre figli - ma anche in molti film stranieri: si va da Carnè, a Delannoy a Bardem sino a Huston, Preminger, Coppola, Dmytryk, Hathaway, Lamont Johnson….. Eppure si direbbe che, sino all’ultimo, nonostante lo scrupolo nel lavoro e le buona cultura s’avvertisse in lui, ben al di sopra della resa umana di tanti attori, una sorta di indeterminatezza, di vaga mancanza di autoconvincimento, nascosta , fra le righe e nelle pieghe dei suoi personaggi.
Quasi che. ancora dopo tanti anni, il duplice dottor Vallone rimpiangesse di aver abbandonato per la fruttuosa ribalta la creativa anonimità della progettazione e dell’impaginazione della terza pagina…….


Tina Pica …………….. “La zia” p. 153

Monumento ammonitorio della più cavernosa e imperiosa femminilità partenopea, Tina (Concetta Annunziata) Pica nacque a Napoli il 31 marzo 1884 e vi morì il 16 agosto 1968 colpita da trombosi. Fu figlia d’arte, come spesso usava fra i teatranti d’allora: suo padre aveva ripreso e consolidato il personaggio di don Anselmo Tartaglia, il padrone di Pulcinella, celebre per gli involontari e pasticciati giochi di parole, ad esempio “Arrivediece” invece di “Arrivederci”,”Io fui il conte di galline” invece di “Io fui il conte Ugolino”, eccetera, in palese omaggio ad un deformante gusto verbalistico, ingenuamente arcaico e vernacolare.
Don Anselmo viene infatti dal passato, popolare presso il pubblico napoletano già a metà del Seicento. Secondo le necessità di scena è ora notaio, ora farmacista, avvocato, consigliere di corte oppure soltanto padre di qualche giovane maschera tipica della tradizione dialettale; affetto da balbuzie, si impappina, si arrabbia, non riesce a farsi capire, è molto miope, inforca enormi occhiali, è anche un po’ sordo e fa la corte a tutte le donne che incontra. Tina seguì di fatto suo padre sul palcoscenico, quasi bambina, a volte in abiti maschili. Poi lavorò con successo insieme ai tre De Filippo, E, accanto a loro, dopo una lontana esperienza ai tempi del muto esordì nel sonoro grazie al “Cappello a tre punte”di Mario Camerini (1934). Da quel momento inizia per più di vent’anni una carriera fortunata, anche se forzatamente ripetitiva, in cui ripropone il suo personaggio base - una burbera napoletana senza età dalla cupissima voce e dalla marmorea morale - che in qualche modo risente delle esperienze paterne. Da quel momento per oltre vent’anni viene utilizzata a catena, in più di sessanta film e spesso con grande successo, sino a quando nel 1963 à abbandonata dal cinema, crudelmente passata di moda, dopo l’episodio “Mara “ in “Ieri, oggi, domani” diretto da De Sica. A quanto sembra è poi morta sola e malata.
La consacrazione del successo, e del ripetitivo personaggio-base, le venne con la figura di “Caramella” nel 1953 in “Pane, amore e fantasia” di Comencini e nei “seguiti”: “Pane amore e gelosia” (1954) sempre di Comencini e “Pane, amore e…..” (1955) di Risi che ritroverà nello stesso anno proprio per “Il segno di Venere”, con lei e De Sica unici superstiti dei cast precedenti. Come ha scritto Enzo Siciliano nella voce dedicata all’attrice nell’Enciclopedia del Cinema della Treccani: “…eccola quindi sugli schermi riprendere con vari connotati la figura della capera del vicolo napoletano, portiera, serva pettegola, zitella e nonna prepotente, sempre unendo ad un’idea di femmina intrigante un che di balordamente maschile, da cui scoccano scintille di irresistibile comicità”. Va precisato che “‘ a capera era, nella Napoli di un tempo,…. “la pettinatrice, personaggio femminile che all’inizio del XX Secolo girava di casa in casa per “acconciare” a pagamento, ma in economia, i capelli delle donne del quartiere. Nel suo girovagare veniva a conoscenza di fatti veri e dicerie che puntualmente diffondeva. In definitiva diventava il “giornale” più letto della zona….” I personaggi affidati a Tina erano tuttavia qualcosa di più: ammonivano intervenivano, spesso influivano in modo determinante sugli avvenimenti. Il tutto sempre attingendo ad una sorta di misteriosità parareligiosa e, se così si può dire, parafemminile. Fu per molti anni assai popolare . allineando una serie di bizzarre prestazioni ossessivamente simili, e in genere di buon livello: si pensi all’immortale duetto fra lei e Totò in “Destinazione Piovarolo” di Domenico Paolella, sempre del 1955 (il massimo dell’esaltazione del personaggio venne attinta, nel 1959, con un film, purtroppo mediocre, di Roberto Bianchi Montero, intitolato divisticamente “La Pica sul Pacifico). Nel “Segno” è esattamente come ci si aspetta che sia: furibonda nel rimbeccare il fratello, severissima nell’ammonire le nipoti a stare attente e a non commettere la “cosa” ma infantilmente felice nell’accogliere il pompiere di Agnese…….
Tutto prevedibile e tutto perfetto. Peccato che Napoli teatrale e cinematografica figurette di tulle e di acciaio come Tina Pica non ne produca più….


Virgilio Riento……”Il padre di Agnese”

Risorsa quasi automatica di tanto cinema italiano postbellico, Virgilio Riento appartiene a quella felice etnia di caratteristi, spesso ma non sempre meridionali, che per decenni hanno contribuito a tenere in piedi numerosi film di casa nostra. Soprattutto quello corrente e famigliare in cui gli spettatori di un tempo –con fidanzati, fidanzate, mariti, figli, figlie mogli e parenti vari – amavano ritrovarsi nella settimanale festosità del cinematografo sotto casa. Tutte le industrie cinematografiche avanzate (in USA, ma anche in Francia, in Italia, in Germania, in Spagna) coltivavano, soprattutto in passato, un certo numero di personaggi fissi, una sorta di minuzioso divismo parallelo dei quali gli spettatori avvertiti riconoscevano a prima vista le caratteristiche professionali. Attrici ed attori, in Italia e all’estero, specializzati in parti precise e ripetitive: uomini di una indefinibile mezz’età, furbescamente avvolti nei paramenti protettivi di un dialetto o di un gergo spesso grottescamente accentato, oppure segretari, cameriere, insegnanti tanto più severe quanto più zitelle, poliziottoni americani di provincia, milionari grassi e pasticcioni, vescovi anglicani severamente magri, cow-boys anziani dalle vocette blese, popolani romani sempre in canottiera per meglio sgridare i famigliari, popolane romane pingui e assediate da bambini urlanti, maggiordomi impeccabili e vagamente annoiati….. Entro questi confini, strettissimi e larghissimi allo stesso tempo, si mosse da sempre Virgilio Riento: nome completo Virgilio Riento Dì Ariento, nato a Roma il 28 novembre 1889, morto in un incidente automobilistico fra Santa Marinella e Civitavecchia il 7 settembre 1959. Figlio di un impresario teatrale, in teatro lavorò bambino per tornarvi da adulto, specializzandosi, nonostante la nascita romana, in caratterizzazioni dialettali abruzzesi, “macchiette” come usava dire allora (tipica quella del cafone Donato Collacchione). Esordì nel cinema nell’anteguerra (“Sette giorni all’altro mondo” di Mario Mattoli è del 1936) e da allora praticamente mai smise, inanellando in 23 anni più di cento film, e smettendo solo nel momento più acuto, della guerra, che a Roma fu il 1944. Lavorò con quasi tutti, grandi e meno grandi d’epoca, Palermi, Matarazzo, Camerini, Alessandrini, C.L.Bragaglia, Righelli, Blasetti, Campogalliani, Soldati, Fabrizi, De Sica, Comencini, Steno, Dino Risi (due volte), ed a fianco di mezzo cinema italiano, da De Sica a Alida Valli. da Armando Falconi alla Mercader da Gandusio ai De Filippo, e poi ecco la Magnani, Taranto, Walter Chiari, la Pampanini, Rascel, Nazzari, Aldo Fabrizi, la Bosè , Tognazzi, la Loren, eccetera eccetera. Se richiesto faceva qualcosa di più, perché era bravo e del mestiere, se no forniva puntualmente le sue prestazioni abituali, i suoi irati e complici falsetti abruzzesi, i suoi garbugli verbali (per anni il suo pezzo di bravura consistette nel parlare della sua carta d’ identità che non so perché chiamava “d’indindidintà” ottenendo uno spropositato successo di pubblico). Qui non lo dice ma fa esattamente quello che ci si aspetta. Litiga con la sorella Tina Pica su chi regge la casa, grida che il padrone è lui e che al mattino nessuno deve toccargli il giornale, protesta perché la figlia prosperosa, con le curve assodate e rassodate di una Loren ventunenne, vuol lavorare invece di stare a casa ad aspettare un marito da collaudare. Ed alla fine, come la sorella, accoglie con gioia palese il futuro genero Vallone.
Tutto impeccabile, tutto come da partitura. Una delizia per i nostalgici di un cinema che fu.