Blog - Crediti


L'audio e i video © del Blog sono realizzati, curati e perfezionati da Lorenzo Doretti, che ha anche progettato l'intera collocazione.
L'aggiornamento è stato curato puntualmente in passato da diverse collaboratrici ed attualmente, con la stessa puntualità e competenza, se ne occupano Laura M. Sparacello ed Elisa Sori.

29 settembre 2010

Le mammine mannare

Fra le risposte che ho ricevuto al mio blog su Emanuele Filiberto ve ne è stata anche una del dottor Marcheselli. E’ un signore dalla personalità spiccata che per tredici anni ha fatto il giudice nelle carceri, poi, dopo aver scritto un libro sull’argomento, ha abbandonato la Magistratura e adesso è divenuto professore universitario a Torino. Abita a Genova in un quartiere medio-alto borghese (si chiama Castelletto), e sulle giovani madri del quartiere ha scritto un elzeviro che mi ha mandato. Mi pare divertente e con la sua autorizzazione lo pubblico qui nel blog:

Caro Maestro,

leggerla è sempre una gioia e un conforto (ma anche una ragione di un relativa depressione, per tutto il resto intorno).
Su Emanuele Filiberto posso solo dire che, imbattutomi nel video e notandolo boccheggiare come un'aragosta lessa, in frac, di fianco alla Presentatrice mi sono, per qualche momento, pentito di aver provato pena, qualche volta, al ristorante, vedendo l'acquario dei crostacei da cucinare.

Alberto Marcheselli

P. S.
Non c'entra niente, ma mi viene da accluderLe una cosa che avevo scritto, in preda a una analoga irritazione, qualche tempo fa, quando ero solito accompagnare i bambini a scuola e imbattermi nelle terribili mammine di Castelletto.
Che poi è il mio ambiente amatissimo, per carità.

Le Mammine Mannare
Un mostro si aggira per le città italiane. Non con il favore delle tenebre, ma in pieno giorno, sotto i nostri occhi ancora incapaci di distinguere il pericolo.
Effetto collaterale della dovuta emancipazione femminile e fenomeno meno evidente del vituperato (e temutissimo) fenotipo della vigilessa, per le nostre strade circolano decine, centinaia, migliaia di mammine mannare. Come in quel film di Buster Keaton, dove la città era scorsa da un’orda di donne in abito da sposa, alle ore giuste e nei posti giusti i nostri quartieri sono battuti da legioni di puerpere feroci e mamme grintose.
Scarpe basse Ferragamo, maglioncino cachemire blu (o giallino crema) con collo a v, filo e/o orecchini di perle, nei quartieri in. Tuta, scarpe da ginnastica, tinta casalinga e tatuaggio d’ordinanza, nei quartieri out.
Ma la sostanza è la medesima. Circolano per le strade brandendo le carrozzine come sciabole di invisibili duelli ed esibendo cinturoni messicani di port-enfant, tra gli sguardi bassi dei pochi maschi all’orizzonte e quelli, severi, delle suocere da passeggio.
Ogni quartiere, poi, ha il suo Giardino delle Primipare. Chi abbia sufficiente sprezzo del pericolo può avvicinarsi e carpire qualche brandello di conversazione. Fitti conciliaboli per determinare quale sia il pediatra più autorevole per stabilire se “Luca possa già mangiare l’uovo” o “quale sia l’ora più giusta per Miriam per fare il bagnetto”. Non ci si stupirebbe di veder evocato un ingegnere per insegnare ad Alessio ad allacciarsi le scarpe o un astronomo per misurare l’altezza di Vanessa.
Poco più in là le panchine delle Mamme in Gamba, dove ci si scambiano esperienze sui corsi di Aikido, vela, flamenco, nuoto sincronizzato, arpa e robotica antropomorfa cui i pargoli più cresciuti vengono coartati, per realizzare tutti i sogni dismessi dai genitori.
Alle loro spalle, svolazzano, operose, le più disinvolte mamme in carriera, ansiose di propalare il loro perniciosissimo cattivo esempio. Al posto del collant velatissimo bianco delle prime si azzarda qualche mossa avventata. Un accenno di pitonatura, un tacco assassino sono il punto di appoggio - malfermo, ci mancherebbe - di uno sguardo ugualmente e disperatamente vacuo.
Dopo pochi minuti vieni individuato. I primi a muoversi, come sempre, sono i bambini. Stai giochicchiando con una nespola per terra. Si avvicina il primo innocente: “Cosa è ?” “Una nespola: quando è arancione è molto buona”. Ne accorre un secondo che pesta gioiosamente sul frutto, e chiede cosa succede se si sbucciano i noccioli. Una terza bambina, almeno 7 chili sopra il suo limite di peso, che sarebbe a occhio non più di 25, domanda se “mettere i piedi nell'erba è pericoloso”. Rassicuri sorridendo la bambina da appartamento: è pericoloso solo in caso di maremoto. Sembra sollevata: oggi non c'è maremoto, vero ?
Ma la Psicopolizia è in agguato, una mammina e una vedova ancora in gamba, inesorabili come un pattuglione della morte, ci piombano addosso: una grida, con la calma con cui annuncerebbe un incendio: "attento che ti sporchi". L'altra è disperata: "Le nespole sono velenose !"
Ti allontani, giusto in tempo perché un assembramento attiri di nuovo la tua attenzione. Dai cancelli sotterranei di un edificio giallo e alto, in cui l'occhio del cronista riconosce senza esitazione un luogo istituzionale (si direbbe la sede del Partito) sciamano a frotte bambini, in gruppi omogenei. Hanno qualche cosa di predefinito, una nota di sottofondo unica, come il bordone della musica tradizionale: i maschietti sono vestiti come piccoli ammiragli, come generali in pensione, come commercialisti al sabato, "quando non ci sono clienti da ricevere". Le bambine sembrano bambole meccaniche, ancora lucide, appena uscite dal cellophane. Una frotta di mammine, tutta intorno, li squadra con l'occhio consumato e professionale di un sarto e di uno stilista, considerando con apprensione l'entità di una gualcitura, la simmetria di una pince e, con stizza, la piega della vicina.
Prima di essere catturato, noti che molte di loro, recuperato il Piccolo Prodigio, lo caricano su un SUV Fuoristrada dalle Dimensioni Inverosimili e dalla Potenza Inarrivabile, nel quale annegano, annaspano, galleggiano, allungandosi disperatamente nel tentativo di raggiungere pedali e leve sempre troppo iperuranici e lontani.
Negligentemente, mi lascio sfuggire la terribile domanda: ma perché in fuoristrada, alla fine dell’estate o in primavera, in Italia, quando si potrebbe viaggiare su una biga di petali di rosa trainata da un cocchio di aironi ?
"Perché sono macchine molto robuste, soprattutto in caso di incidente"
Hai capito la mammina previdente? Vuole essere sicura di una cosa, piccolo fiore scrupoloso: che, in caso di scontro con un'altra deliziosa mammina munita di utilitaria, siano - semmai – quella e il suo tenero piccino a morire tra le lamiere.
I bambini - galeotti ai ferri sui seggiolini posteriori di centinaia di auto - roteano gli occhi, cercando un'occasione, un mezzo, un complice per una non facile evasione.

Alberto Marcheselli

21 settembre 2010

Corrispondenza su Emanuele Filiberto

Il mio pezzo su Emanuele Filiberto ha provocato diverse missive inviate non al blog ma al mio e-mail privato (posso anche pubblicarlo qui: claudio.g.fava@village.it). Salvo un caso sono tutte persone che conosco da tempo: per uniformare la situazione ho aggiunto fra parentesi il cognome laddove (ed è la maggioranza delle volte) i mittenti avessero usato il solo nome proprio.
Nella maggioranza dei casi ho chiesto tempestivamente l’autorizzazione a pubblicare le e-mail nel blog. In ogni caso se gli autori non fossero d’accordo mi avvisino e provvederò a far togliere le lettere dal testo definitivo, conservato nel blog.
Per quello che riguarda i testi qui riportati, vorrei fare, nell’ordine, le seguenti osservazioni:



1)
Grande!
un saluto cordiale,
Angela Zamparelli

Ringrazio Angela Zamparelli, genovese che da molti anni lavora a Roma come regista a Radiodue, per il suo entusiasmo.


2)
Sulle propensioni omosessuali ho da qualche settimana una testimonianza diretta. Un signore conosciuto al bar mi ha raccontato di quando, lui cameriere al Savini, Umberto, sia pur accompagnato dalla favolosa Milly, indugiava a tastarlo mentre lo serviva e, infastidito dalla sua ritrosia, minacciò di farlo licenziare. Il suddetto preferì dare le dimissioni....
Lorenzo (Pellizzari)

Non so quanto sia attendibile, in una materia così delicata, la testimonianza di “un signore conosciuto al bar”. In ogni caso ci sono molti indizi in questo senso. Senza inoltrarmi nell’amplissima aneddotica riguardante la storia minore di casa Savoia, mi limiterò a ricordare che il marchese Falcone Lucifero, che fu ministro della Real Casa dal 1944 sino al referendum, racconta nelle sue memorie (fra l’altro di enorme interesse storico) che ad un certo punto ricevette, credo dalla Polizia o dal Ministero dell’Interno, un incartamento riservato frutto della sorveglianza esercitata da anni su Umberto. Senza neppure aprirlo Lucifero lo bruciò, non si sa se per estrema discrezione o per giustificata prudenza.



3)
Caro Claudio, grazie di allietarmi con i tuoi articoli in giornate in cui una cupa Rai, priva di teste come la tua , tendono a intristirmi.
Ma la tua grande capacità di raccontare mi fa tornare l'allegria e la voglia di combattere.
Un abbraccio
Rosellina (Mariani)

Rosellina è sempre troppo affettuosa e non so come ringraziarla.


4)
Caro Claudio, mi meraviglio che ti meravigli. Perché, a parte Gabriella, le altre due zie di Emanuele non mi pare che abbiano dato prova di comportamenti esemplari: Matrimoni con cugini, divorzi ecc. Ricordi la love-story di Titti con Maurizio Arena? I saluti alla folla da un balcone di Trastevere... Caro amico, io in questa Italia ho deciso di non stupirmi più di niente. La Televisione è ormai il moloch che ingoia tutto e, tragicamente, riesce a farcelo ingoiare. La dignità è un optional....
Un abbraccio forte
Lia (Volpatti)

Non mi meraviglio. Non è un caso che Maria Gabriella sia di altro parere. L’ho sentita io dichiarare in televisione che tutto risale alla madre di Emanuele Filiberto il quale, provenendo da una famiglia di industriali falliti, pensa solo al denaro. In quanto alla love story di “Titti”, mi ricordo ancora oggi il dolore e la stupefazione di una cassiera di un cinema di Genova che, quasi in preda alle lacrime, mi diceva: “Ma non può fare così! Lei che è la figlia del re”.


5)
Caro Claudio,
partecipo profondamente della tua delusione di fronte ai colpi di coda di questo paese ingrigito e imbarbarito anche nelle istituzioni e nelle persone che hanno rappresentato (o avrebbero dovuto farlo) una continuità storica, civile, sociale. Fosse solo colpa degli sgambettanti rampolli di casa reale. Ognuno ha i figli che si merita, ma dei nipoti proprio di rado si è responsabili...altre cose del nostro vivere sociale, della nostra tv (la tua tv), della nostra politica ma ancor più del nostro vivere quotidiano ci fanno e farebbero arrossire altrettanto se non più. Il fatto è che essere cittadini di un paese significa credere nel senso stesso dello stato, delle istituzioni a cui si è data fedeltà (talora giurando, talora solo credendoci) ed essere cittadini, io credo, significa ancor prima fare un atto di fede nell'intelligenza del prossimo. Che molto spesso si adopera in ogni modo per smentirci (hai notato quanti umani assomigliano ai pesci e che sfoggiano la stessa attonita espressione?), ma che esiste e vanta per fortuna infinite, luminose eccezioni. Come diceva San Paolo, la chiesa fin troppo spesso smentisce Gesù Cristo, ma nonostante sia fatta di uomini è più forte e più nobile dei singoli uomini. A cui è comunque concessa la redenzione. Chissà che una pur limitata folgorazione sulla via di Teulada tocchi un giorno anche a Emanuele Filiberto. Lo vedrei bene a ripristinare "Il fatto del giorno". Non sarà meglio di Bisiach, ma insomma...Un abbraccio serale,
Giorgio (Gosetti)

Ho conosciuto Giorgio Gosetti quando era ancora un giovane universitario che mi fece un’intervista alla Rai. Adesso, provenendo dal Mystfest di Cattolica, è da molti anni direttore, insieme a Marina Fabbri, di “Noir in Festival”, che è la più nota manifestazione italiana sul cinema e sul romanzo polizieschi. Giorgio è anche il Delegato Generale di “Venice Days”, cioè Giornate Degli Autori, una delle sezioni della mostra di Venezia.



6)
Gentile Claudio G. Fava (mi piacerebbe poi che mi svelasse la "G" per quale nome sta), sono appena rientrata da una assurda e più che sconcertante missione di "pace" in Afganisthan. L'inutilità di tante morti, l'assurdità della presenza dei contingenti, sarebbe argomento per una lunghissima discussione...Le interesserebbe aggiungere alla tristezza dell' inutile personaggio Emanuele Filiberto anche la triste consapevolezza di tante vite spezzate? Quando nel suo articolo parla di "rango" associato al nome di Milly Carlucci è una provocazione? Mi dispiace non essere d'accordo al suo ricordo di Umberto...io ricordo le Leggi razziali , ricordo mio nonno costretto a nascondere la sua identità e a celare la sua saggezza e cultura dietro un oscuro silenzio e anonimato! Umberto imbarazzato accanto a Hitler? Solo imbarazzato mi sembra poco e non assolutamente giustificabile!!! Filiberto è rientrato in Italia non dalla porta della cultura (ammesso che ne abbia), ma dalla parte meno nobile, cercando consensi da quegli italiani che guardano quei programmi spazzatura! La RAI è solo alla ricerca di ascolti. La RAI la ringrazio solo per avermi fatto conoscere Lei ed avermi regalato quel meraviglioso mondo che è il cinema d'autore!!!!
Affettuosamente
Rossella (Filippetti)

La dottoressa Filippetti è l’unica degli interlocutori che non conosco di persona. Deve essere (lo si desume dal testo della sua missiva) un personaggio particolarmente avventuroso, che ha passato 25 anni a Parigi come medico di laboratorio e che ora scopro essere di ritorno dall’Afghanistan. Per quello che riguarda le sue osservazioni su Umberto, le faccio osservare che lui con le leggi razziali non c’entra nulla. Se mai la colpa risale all’incomprensibile comportamento di suo padre, Vittorio Emanuele III, che accettò di controfirmare le leggi razziali, dimentico del fatto che era stato suo bisnonno Carlo Alberto ad avere concesso per primo la completa libertà ai valdesi ed agli ebrei (ci furono anche molti ebrei piemontesi nobilitati da casa Savoia, il che creò fra quelle comunità israelitiche e la famiglia regnante un legame particolare che rese ancor più dolorosa, se possibile, la spaventosa rottura del 1938). In questo senso il difetto di Umberto fu l’eccessivo ossequio agli ordini del padre, che dal canto suo (“I Savoia regnano uno alla volta”) non ebbe mai la minima intenzione di introdurlo al gravame del suo compito futuro. Pensi alle difficoltà che frappose alla sua abdicazione a favore del figlio, ormai nominato da due anni (grazie all’astuzia giuridico-partenopea di Enrico De Nicola) Luogotenente Generale del Regno, e quindi già in possesso di tutti i poteri reali, sostenendo che avrebbe accettato di farlo solo dopo essere tornato al Quirinale (in effetti avvenne ben due anni dopo, nel 1946, tanto è vero che Umberto fu soprannominato “Il re di maggio”). In ogni caso, ripeto, il problema non è lui, ma se mai suo padre, che resta un mistero. Per 22 anni, dall’assassinio di Umberto, (luglio 1900) alla marcia su Roma (ottobre 1922), egli fu un impeccabile sovrano costituzionale, estremamente sollecito nel rispettare le competenze del Parlamento. Una volta nominato Mussolini Presidente del Consiglio egli lasciò rosicchiare giorno per giorno lo Statuto concesso da Carlo Alberto e si avvalse tardivamente di una formalità procedurale, solo invocando il carattere decisivo del voto del Gran Consiglio del Fascismo il 25 luglio 1943. Basta sfogliare in diario di Ciano per trovare tante testimonianze sulla lucidità con cui il re seguiva il fluire degli avvenimenti politici, la manifestazione del suo odio per i tedeschi (che lui chiamava “quei brutti tedeschi”) e al tempo stesso sulla opaca rassegnazione con cui finiva per accettare il comportamento e le decisioni di Mussolini (l’opposizione più forte, in un certo periodo, fu quella contro l’istituzione, nelle forze armate, del grado di “Maresciallo dell’Impero”, grado che prevedeva due greche sulla manica e la formale eguaglianza fra il re e il duce). In senso stretto, aldilà di qualche battuta dialettale, egli non fu mai antisemita. E sull’argomento esiste una serie di testimonianze curiose. Laddove il Regio Esercito non doveva fare i conti con le strutture istituzionali del regime fascista le forze militari si astennero scrupolosamente dall’intervenire sul tema. Almeno nel caso delle regioni della Francia del sud occupate dall’Italia dopo l’armistizio del 1940. Io ho ascoltato una testimonianza di uno scrittore francese, ebreo polacco di origine, che quando lo conobbi era il segretario nazionale del P.E.N. club. Come molti israeliti francesi, appunto nel periodo fra il ‘40 e il’ 43, si era trasferito nel meridione appunto per approfittare della maggiore sicurezza garantita dalla presenza delle truppe italiane. Egli mi raccontò un episodio straordinario. Non so in quale anno di quel periodo la polizia francese, pur sempre legata a Vichy, operò una retata di ebrei conducendo gli arrestati nella sede della Polizia stessa a Nizza. Finché non arrivarono le truppe italiane che, con baionetta inastata, circondarono il palazzo e liberarono gli ebrei prigionieri. Il che significa che una nazione ove gli israeliti erano discriminati, poi li proteggeva all’estero. La qual cosa sembra difficile possa essere accaduta senza una pur tacita complicità del re, abituato da sempre ad un intenso rapporto con l’esercito. La cui impreparazione alla guerra gli era ben nota e ne rilevava acutamente i difetti rivelatori. Senza tuttavia, e qui sta la sua colpa, mai tradurli in atti decisivi.
Approfitto per precisare che la "G" è l'iniziale di "Giorgio". Suggestionato dall'esempio di tanti scrittori e giornalisti americani, forniti di "Middle Name"-penso, ad esempio, a "John P.Marquand"-ero rimasto affascinato da quell'iniziale a metà nome, l'ho usata nel primo articolo che ho pubblicato a vent'anni e non l'ho più abbandonata. Sono consapevole del fatto che, in un paese dove l'uso è meno diffuso di quanto non lo sia negli Stati Uniti, desti curiosità e quasi riprovazione. Una volta sono stato fermato per strada da un signore che senza neppure salutarmi mi disse con tono imperativo:"Cosa vuol dire la G?". "Giorgio" risposi io intimidito. "Bene, grazie" mi disse a sua volta. E se ne andò di scatto.


7)
Claudio, è sempre un piacere leggerti. Sai che da sempre ti stimo e condivido i tuoi punti di vista. E anche questa volta, da monarchico, non posso non essere d'accordo con te, repubblicano, soprattutto sul giudizio, positivo, che dai di Umberto II, grande uomo e nobile italiano. Che ha insegnato a tutti noi come preferire la pace alla guerra.
Un saluto affettuosissimo da
Luciano Garibaldi

Luciano è un vecchio amico e collega del Corriere Mercantile. Autore di molti libri di successo riguardanti in genere i risvolti in Italia della seconda guerra mondiale. Fra i tanti titoli vorrei ricordare “L’altro italiano” dedicato a quel personaggio straordinario che fu Edgardo Sogno fondatore della “Franchi”. “La guerra (non è) perduta”, centrato su un argomento dimenticato da tutti, e cioè il destino di quegli italiani, generalmente di famiglia nobile e che parlavano correntemente l’inglese, i quali dopo l’8 settembre accettarono di fungere da ufficiali di collegamento presso reparti britannici dell’Ottava Armata. . O, ancora, “La pista inglese sulla morte di Mussolini e la Petacci” oltreché “Maurizio e Ferrante Gonzaga”, sul caso non unico ma abbastanza inconsueto dei due marchesi del Vodice, padre e figlio, entrambi medaglie d’oro , anche se in due guerre diverse.

17 settembre 2010

La triste apparizione di Emanuele Filiberto

Vorrei precisare che non ho legami con i movimenti monarchici italiani. Anzi. Attingendo ai miei ricordi del passato, vorrei ricordare qualcosa che attinge ad un’Italia completamente scomparsa.
Nel 1946 durante la campagna per le elezioni del 2 giugno, dove erano in ballottaggio anche la monarchia o la repubblica, frequentavo la seconda liceo presso l’ istituto “Vittorino da Feltre”, che allora aveva sede a Genova in una traversa di Via XX Settembre (Via Maragliano) ed era tenuto dai padri Barnabiti. Ovvero l’equivalente medio borghese dell’ Arecco, tenuto dai Gesuiti, che era allora la scuola di elezione di tutta la classe dirigente dell’epoca (un ambiente fortemente controllato dai democristiani che si riconosceva in un prelato onnipossente, il Cardinal Giuseppe Siri). L’una e l’altra scuola sono ormai scomparse, a testimonianza della rivoluzione ormai compiuta nel mondo un tempo molto potente degli Ordini e delle Congregazioni cattoliche in Italia.
Ebbene nella mia classe al Vittorino ero l’unico apertamente repubblicano. Tutti i compagni di classe erano più o meno attivamente monarchici a testimonianza di uno schieramento di classe che allora divideva, spesso in modo rigido, la società italiana appena uscita dalla guerra. Per ribadire una notazione d’epoca vorrei citare qui una frase di mio padre, reduce il 2 giugno 1946 dalla sua visita al seggio elettorale dopo la faticosissima votazione per la Costituente e per la forma dello Stato. In un momento di subitanea sincerità mi disse:”Sai, al momento di votare per la monarchia o la repubblica mi ricordai di aver giurato fedeltà al re nel 1915 e di non poter tradire quel giuramento”. Dopo sessantaquattro anni arrossisco ancora al pensiero dello sguardo di commiserazione che gli rivolsi.
Mi pare doverosa questa precisazione viste le mie attuali reazioni di fronte all’incongrua presenza di Emanuele Filiberto di Savoia in alcune trasmissioni Rai. Penso al Festival di Sanremo, ed a quelle, recentissime, sulla elezione di Miss Italia. Io ne ho visto un pezzettino e mi è parsa insopportabile, ma credo che abbia avuto alti indici di ascolto. Non so perché Emanuele Filiberto abbia deciso di diventare un personaggio televisivo e perché la Rai glielo abbia concesso, anche se le ragioni dell’ “Auditel” sono in genere persuasive. Ma la gioia del principe nel trovarsi a fianco di Milly Carlucci era addirittura stupefacente, soprattutto per un personaggio che sin dalla nascita dovrebbe avere dimestichezza con persone di un certo rango. Debbo confessare che vedendolo (il meno possibile) sono stato colto da una grande tristezza e da un profondo senso di compassione nel ricordo del nonno. Riconosco che Umberto II ha avuto molte colpe personali, compresa l’eccessiva acquiescenza ai voleri del padre Vittorio Emanuele III (il quale, per fugare qualsiasi desiderio di indipendenza del figlio, disse in un’occasione: “ I Savoia regnano uno alla volta”). Fin troppo disciplinato durante il periodo fascista, (ricordo una sua imbarazzata apparizione mentre in tight faceva il saluto romano a fianco di Hitler durante le Olimpiadi di Berlino). Costretto dal padre a fuggire con lui al sud a bordo della corvetta “Baionetta”. Poi durante il periodo della cosiddetta Luogotenenza e in quello brevissimo, in cui fu re, fu obbligato a tenere il timone fra i mille impacci e le infinite contestazioni tipiche del periodo tra il 1944 e il 1946. Poi, ancora, visibile nelle numerose immagini di repertorio quando, nella sua antica divisa del Regio Esercito, passava in rivista i superstiti soldati del C.I.L., comandati dal generale Utili, i quali si avviavano al fronte a combattere i tedeschi nell’estate del 1944. E nelle sue apparizioni, con la moglie Maria Josè, le bambine e il piccolo Vittorio Emanuele, alla testa di quella che sembrava una famiglia felice e non lo era: immagini largamente sfruttate dalla propaganda dell’epoca. Poi ci fu la sconfitta del 2 giugno e Umberto che, pur contestando i risultati del referendum, abbandonò in aereo l’Italia in una sequenza tante volte riproposta dalla televisione: lui in abito borghese che sale sull’apparecchio con un largo sorriso spennellato sul volto, ed un gruppo di anziani signori i quali da lontano agitano le braccia per salutare l’apparecchio che sta decollando (un particolare che non è mai citato: era pilotato dal colonnello Lizzani, fratello di Carlo, che non mi sembra entusiasta nel ricordarlo). Vennero poi quasi quarant’anni di esilio, con la frattura insanabile della famiglia (Umberto in Portogallo, moglie e figli in Svizzera) e con un matrimonio minato da quella che viene generalmente evocata come la sua potenziale omosessualità ma che non fu mai né pubblicamente discussa né ammessa. Anni durante i quali va riconosciuto ad Umberto un grande stile, un’eleganza di comportamento che non lo abbandonò mai e che gli consentì di sovraintendere, senza esagerare, ai suoi legami con i monarchici italiani, un tempo abbastanza numerosi (mi ricordo lo stupore di Enzo Tortora, di vecchi istinti repubblicani il quale, avendo assistito ai suoi funerali a Hautecombe, rimase sbalordito di fronte al profondo, autentico, lacerante cordoglio di migliaia di italiani, quasi tutti di modeste condizioni).
Insomma, tutto ciò considerato, lo spettacolo offerto dallo scipito Vittorio Emanuele e dallo sgambettante figlio Emanuele Filiberto (fornito anche di una moglie “striptiseuse”, che si esibisce a Parigi in un teatro specializzato) è semplicemente terrorizzante. Anche Aldo Grasso, in una sua cronaca televisiva, si chiede perché la Rai ci imponga in onda il principe. Il quale si badi, in preda ad una felicità compiaciuta ed inopinata, è apparso anche a Porta a Porta interrogato dal troppo sorridente Bruno Vespa. Mi chiedo che cosa ne avrebbe pensato il nonno, che fino all’ultimo conservò un impeccabile aplomb. Non sembra molto intelligente ma non riesco a capire perché si comporta così. A Ginevra si era preparato per lavorare in banca poi è venuto in Italia ed è rimasto folgorato dalla nostra televisione e da quel che essa alimenta di peggio nei cuori e nelle coscienze degli italiani. I secoli di storia che il suo nome evoca, i castelli della Val d’Aosta, le piazze di Torino, gli splendidi palazzi e i grandi giardini, tutto cancellato in nome di Milly Carlucci. Non solo a vederlo ma anche semplicemente a parlarne mi coglie lo stesso imbarazzo e la stessa cupa predisposizione dell’animo che provo a vedere Irene Pivetti, travestita da pseudo-conduttrice di” talk show”. Lei che ostentava l’antica croce degli “Chouans” vandeani…
Ho sempre meno voglia di vivere in questo paese.

16 settembre 2010

Il dottor Napolano, di cui avevo pubblicato il carteggio riguardante i problemi del sud Italia, ha avuto la gentilezza di inviarmi un brano scritto da Carlo Alianello, brano che non conoscevo pur avendo letto dello scrittore romano d'origine meridionale "L'Alfiere" e "Soldati del re".
Il testo riguarda il problema degli zolfi siciliani, di cui avevo scritto che no sapevo nulla, ed è ricco di dati curiosi. Ecco il brano del dottor Napolano:


Dott. Stanislao Napolano
Cardiologo
Via Tiglio 6 – 80145 Napoli
Tel. 081/5853411 – Cell. 3356780203
e-mail: stan.napolano@libero.it

Napoli 15/09/2010 Egr. Dott.
Claudio G. Fava


Egregio Dottore,
ho letto la nota dove evidenziava la sua poca conoscenza sulla questione degli zolfi siciliani, mi permetta di inviarle uno dei documenti che si possono trovare anche su internet, ma questo che le invio è tratto da uno scritto di Carlo Alianiello, l’autore della “Conquista del Sud”.

“L’odio inglese per le Due Sicilie aveva una radice molto antica, era cominciato nel 1836 con la questione degli zolfi, una questione di altissimi interessi che aprí una crisi profondissima, duratura e insanabile tra Napoli e Londra, nonostante anche i successivi accomodamenti diplomatici, e rischiò di portare allo scontro bellico i due Stati. La vicenda è raccontata egregiamente da Alianiello nel suo libro «La conquista del Sud». Riproponiamo quella pagina perché emblematica dell’amore di Ferdinando II per la Patria Due Sicilie:
«La questione degli zolfi, per chi non la conoscesse, è presto detta. Fin dal 1816 vigeva tra Londra e Napoli un trattato di commercio, dove l’una nazione accordava all’altra la formula della «nazione piú favorita». Subito ne approfittarono i mercanti inglesi per accaparrarsi l’intera, o quasi, produzione degli zolfi, allora fiorente in Sicilia. Compravano per poco e rivendevano a prezzi altissimi. Di questo traffico poco o nulla si avvantaggiava il Reame e meno ancora i minatori e i lavoranti dello zolfo. Ferdinando II volle reagire a questo sfruttamento, tanto piú che, avendo sollevato la popolazione dalla tassa sul macinato, aveva bisogno di ristorare le casse dello Stato in altro modo. Fece perciò un passo forse audace: diede in concessione il commercio degli zolfi a una società francese che lo avrebbe pagato almeno il doppio di quanto sborsavano gli inglesi. Inde irae. Palmerston nel 1836 mandò la flotta nel golfo di Napoli, minacciando bombardamenti, sbarchi e peggio. Ferdinando II non si smarrí, e ordinò a sua volta lo stato d’allarme nei forti della costa e tenne pronto l’esercito nei luoghi di sbarco. Pareva dovesse scoppiare la scintilla da un momento all’altro. Ci si mise fortunatamente di mezzo Luigi Filippo e la Francia prese su di sé la mediazione. Il risultato fu che lo Stato Napolitano dovette annullare il contratto con la società francese e pagare gli inglesi per quel che dicevano d’aver perduto e i francesi per il guadagno mancato. È il destino delle pentole di terracotta costrette a viaggiare tra vasi di ferro. Chi ci rimise fu il povero Regno Napoletano; ma l’Inghilterra se la legò al dito come oltraggio supremo.»

Questo che segue è quanto affermò S.M. il Re Ferdinando II al suo gabinetto ministeriale
«Oggi trattasi di decidere la questione se si deve o no cedere alle pretenzioni e alle minacce che ci dirigono; si tratta di una questione d’onore e di dignità. Io per me sono pronto a respingere le une come le altre. Vi fu un tempo in cui Napoli fece tremare l’Europa. Non dico che possa farla tremare oggi; ma non per questo dobbiamo noi tremare ... Vi sono taluni che ci consiglierebbero di cedere; ma sanno che cosa guadagneremmo noi con ciò, oltre la perdita della dignità e la macchia dell’onore? Bisognerebbe assoggettarsi alle instancabili richieste dell’Inghilterra; e cedendo oggi, dovremmo cedere nel futuro ad altri ... State tranquilli e non temete nulla. La fermezza è il partito che ci conviene contro ingiuste pretenzioni.»”.

Cordiali saluti
Stanislao Napolano

13 settembre 2010

AGGIUNTA A “LE RAGIONI DEL SUD E LE RAGIONI DEL NORD”

Ho dimenticato, a proposito dei rapporti fra il Nord e il Sud Italia, un particolare importante che riguarda le due ex capitali. Vorrei infatti ricordare che non solo Napoli è stata una vittima dell’unità d’Italia, perdendo, con i Borboni, anche le molte ragioni di fascinazione che le venivano dal suo status burocratico. Ma che l’altra vittima è stata Torino. Ancora più vittima, se posso dire così, perché mentre Napoli era sconfitta Torino era vittoriosa. Aveva partecipato in modo decisivo alla realizzazione dell’unità d’Italia, offrendo il denaro e molte vittime dei conflitti risorgimentali. E si vedeva rimeritata non con l’ampliamento delle sue competenze ma con l’aperto ripudio del suo antico passato savoiardo. In effetti, dal 1865 al 1870 la capitale venne strappata a Torino e temporaneamente trasferita a Firenze (dove gli abitanti rimasero terrorizzati dall’arrivo massiccio degli impiegati ministeriali i quali parlavano una lingua impermeabile ai Toscani che era il dialetto piemontese). Come è noto nel 1870 (20 settembre, breccia di Porta Pia) la tappa successiva fu Roma, a testimonianza dell’ossessione capitolina tipica di quel periodo storico, che ha contribuito in modo decisivo a modellare, con un immenso cambiamento urbanistico e antropologico, l’attuale immensa e potente città che condiziona in modo decisivo la vita italiana. Il trasferimento della capitale a Firenze fu all’origine di violente manifestazioni di piazza contro il governo che vennero represse quasi con ferocia (si veda quel che ho scritto prima a proposito degli interventi dell’esercito nella vita della azione): alla fine i moti costarono una trentina di morti e oltre centosessanta feriti. Varrà la pena di ricordare che il sindaco rifiutò la somma che era stata stanziata, a titolo di indennizzo, per il trasferimento della capitale. Mi pare che questo fatto vada ricordato: non solo Napoli, ma anche Torino ricevette un danno netto dalla “sparizione” della capitale, perdendo molte migliaia di abitanti. E qui bisogna avere il coraggio di guardare in faccia alla realtà. La città seppe coltivare la sua vocazione industriale che, a riprova della laboriosità dei Piemontesi, si era via via affinata. E verso la fine del secolo ebbe il colpo di coda dell’automobile. A coronamento di un largo interesse di borghesi e di alto-borghesi nel 1898 venne fondata la FIAT (dove significativamente la T finale è l’iniziale di Torino) che nel bene e nel male condizionò poi in modo decisivo la vita non solo della città ma dell’Italia tutta. E non è un caso che l’apertura, forzata dai politici, di filiali della fabbrica in giro per l’Italia (si pensi a Pomigliano d’Arco, Melfi e Termini Imerese) abbia intaccato il carattere originariamente torinese, nella sua mescolanza di efficienza e di durezza, della Società.
Mi sembrava doveroso formulare questa aggiunta al testo, senza la quale l’allusione al Risorgimento resterebbe forzatamente monca.

8 settembre 2010

LE RAGIONI DEL SUD E LE RAGIONI DEL NORD
Non molto tempo fa ho pubblicato in questo Blog la lettera di un cardiologo napoletano, il Dottor Stanislao Napolano, molto pacata e ragionevole, che, pur senza nascondersi i grandi difetti civili della Napoli odierna, prendeva le difese del Sud d’Italia e del Regno delle due Sicilie.
A parte alcune argomentazioni curiose, che confesso di non aver mai udito sino ad ora (si pensi alla “vendetta” dell’Inghilterra a causa del problema dello zolfo siciliano), il resto della lettera mi sembra abbastanza lucido laddove si rende conto del disordinato atteggiamento napoletano nei confronti della vita di ogni giorno: […] perché Napoli è sporca, perché non vi sono vigili urbani per strada, perché nessuno rispetta le regole più elementari per un convivere civile, perché non vi è lavoro ne’ una possibile speranza di rilancio effettivo dell’economia, ecc. La presa di coscienza dello scrivente nei confronti della sua città è lucidamente spietata (si veda il pezzo dove egli scrive vedo i nostri concittadini fare i furbetti per le cose più banali, passare con il semaforo rosso, andare nei sensi vietati, parcheggiare dove uno vuole, ricordo che il famoso sindaco di New York, Giuliani, recuperò Harlem imponendo il rispetto delle regole più elementari, appunto quelle stradali.
Ho citato largamente il testo della lettera per dimostrare il grado di civiltà dello scrivente, il quale giustamente ricorda che sotto i Borboni Napoli era stata una grande capitale europea, in questa città si erano svolti conclavi, incontri fra imperatori, prese decisioni sui destini di vari e importanti paesi europei, Napoli era visitata dai più illustri uomini di cultura d’Europa.
Il raffronto fra il passato e il presente induce il Dottor Napolano a rendere in qualche modo responsabile l’invasione “piemontese” e l’avventuriero Garibaldi di un evidente decadimento. Tuttavia egli non sembra tener conto delle colpe degli uomini nell’evoluzione delle nazioni. Ad esempio si prenda il caso della forsennata immigrazione delle classi proletarie nella seconda metà dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento verso le Americhe, del sud come del nord. Molti meridionali sono portati a vedervi il segno della oppressione “piemontese” che costringeva i più poveri a fuggire. In realtà il fenomeno ebbe luogo in tutta Italia. Milioni di settentrionali approdarono così in Argentina: si veda il caso dei genovesi che hanno fondato il “Boca Junior”, per non parlare dei piemontesi in Uruguay che avrebbero dato vita al “Peñarol” ispirandosi al dialettale Pinareul per Pinerolo. In quanto all’America del Nord se è vero che la maggioranza degli immigrati viene dal sud Italia ma è anche vero che gli oriundi settentrionali sono moltissimi (una volta un mio amico su un aereo in America conobbe un tizio che si presentò come “Segretario dell’associazione degli Italiani del Nord”!). E’ vero che di molte repressioni feroci effettuate nel sud dall’esercito italiano non si parla mai o se ne parla mal volentieri ma bisogna tener conto che l’intrusione violenta e sanguinosa contro i moti popolari era una tradizione militare nazionale rispettata anche nel nord Italia. Si pensi al massacro dei Genovesi portato a termine dai bersaglieri… Vorrei anche far osservare che l’adozione dell’unità da parte delle masse popolari meridionali fu esplicita: si veda l’uso del tricolore nelle feste religiose degli immigrati mentre non mi pare che qualcuno abbia issato la bandiera borbonica.
Evidentemente si tratta di un tema immenso, che deve tener conto delle risultanze storiche, spesso nascoste o rimosse, ma non può prescindere da un’ osservazione sul territorio motivata e articolata. E’ chiaro che la pubblicistica in materia è enorme. Mi limiterò a segnalare un ampio articolo pubblicato sul Corriere della sera del 4 settembre 2010 ad opera di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, gli autori de “La casta”. L’articolo riguarda il terremoto in Friuli nel 1976 e la testarda ricostruzione eseguita dagli abitanti che rifiutarono i paesi distrutti e resistettero al sisma come avevano resistito all’Austria. L’atteggiamento dei Friulani fu decisivo. Rizzo e Stella riportano le dichiarazioni dell’allora presidente regionale il democristiano Antonio Comelli, che fra l’altro dichiarò: “molti rinunciarono ai contributi statali. Chi aveva un danno non troppo grave si vergognava un po’ a chiedere soldi che magari servivano da altre parti”. Il contrario, continuano i due giornalisti, di quanto sarebbe accaduto pochi anni dopo in Irpinia con l’allargamento dei comuni colpiti: alla prima conta 36, all’ultima 687.
Potrei fare altre citazioni ma rimando alla lettura completa dell’articolo del Corriere della sera. Quel che voglio dire è che è sempre necessario tener conto dei comportamenti della gente e del contesto storico. Vi sono riflessi antichi che non vanno ne’ ignorati ne’ sottovalutati. Mi rendo conto che l’evocazione dei Friulani può avere carattere paradossale. Rizzo e Stella citano le parole scritte mezzo secolo fa dal toscano Gianfranco Piazzesi. Che riguardavano “un popolo di emigranti plasmati con sapienza dal parroco: fatti apposta dal buon Dio per rifornire le comunità nazionali di muratori, di carabinieri e di domestiche. Un popolo che risolveva molti problemi e non ne creava nessuno.”
I problemi qui evocati sono molteplici e non pretendo minimamente di esaurire l’argomento. Vorrei limitarmi a osservare che se da un lato l’esercito nazionale italiano, salvo che per quello che riguarda la scuola militare della Nunziatella, ha completamente ignorato le tradizioni dell’esercito delle due Sicilie, e quindi di quei fanti calabresi, che si erano battuti coraggiosamente contro i garibaldini, è anche vero che a modo loro le popolazioni del Sud hanno provveduto a correggere in parte l’errore. Si guardi il luogo di nascita degli ormai numerosi caduti nelle recenti missioni all’estero e si vedrà che si tratta in genere di meridionali. I quali, a modo loro, hanno corretto uno storico errore. Del resto và ricordato che sin dall’inizio l’esercito nazionale italiano si basò, per quello che riguardava gli ufficiali, su due grandi componenti regionali: quella piemontese e quella napoletana, proveniente appunto dall’esercito di Francesco II.

Claudio G. Fava

(Battute 6.237)

2 settembre 2010

Un commento che mi è giunto a proposito del mio ultimo post, riguardante Ford e Spencer Tracy (si veda la mia risposta) mi ha consentito di ricordare che Divi e Vegeti non fu una rivista ma addirittura un festival. Inventato da me (sono molto orgoglioso del gioco di parole che lo anima e che riassumeva un fatto: ogni puntata implicava l’omaggio ad un attore o attrice del passato ed a uno od una del presente) fu organizzato da Castelnuovo Magra e da Sarzana e durò solo due anni. In uno dei cataloghi avevo scritto, appunto come omaggio ad un attore del passato, un pezzo su Spencer Tracy. Me ne ero completamente dimenticato (alla mia età capita di continuo) e me lo ha fatto ricordare il commento del lettore. Sono andato a rileggermelo ed ho impudicamente deciso di riportarlo alla luce e di pubblicarlo qui nel Blog. Il fatto che sia frutto di una pur piccola ricerca, di cui mi ero totalmente dimenticato, lo rende curioso. Perché è evidentemente frutto di un antico affetto che, vedendo un frammento de “L’ultimo urrà” , mi ha stimolato a scrivere un articolo. Evidentemente discutibile ma significativo.
Ho, dunque, pensato di ripubblicare qui il pezzo scritto su Spencer Tracy, visto che avevo dimenticato il fatto di essermi già occupato dell’attore. Il che evidentemente non è un omaggio alla lucidità del mio pensiero e della mia memoria ma è comunque testimonianza di un antico affetto.

(Testo scritto per il primo catalogo di Divi e Vegeti)
In certo senso è molto facile scrivere un abbozzo di prefazione e un inizio di introduzione che riguardi Spencer Tracy. Se c’è un “divo” tipico nella storia del cinema sonoro, non v’è dubbio che lui lo sia e lo sia stato per lungo tempo e per buona parte della carriera. Guardiamo i dati. Spencer nasce il 5 aprile del 1900 (Milwaukee, Wisconsin) e muore a Beverly Hills (L.A., California) il 10 giugno 1967, forse per un attacco di cuore causato da diabete e, presumo, dalla propensione all’alcol. Una vita non lunghissima, soprattutto secondo i criteri di oggi ma di una estrema operosità. Il suo cammino verso il mondo della recitazione (teatro e poi cinema) segue un percorso in certo modo ovvio, seppure suo proprio e personale. Per quel che riguarda il teatro si calcoli un buon decennio di scritture via via meno secondarie e per quel che riguarda il cinema si ricordi che lavora in quasi 80 film. E poiché qui comincia nel 1930 e termina nel 1967 – con “Indovina chi viene a cena ?”, lavorazione conclusasi poche settimane prima della morte” - praticamente ha una media di lavoro superiore a due film all’anno. Evidentemente è una media di comodo, giusto per riassumere un ritmo di vita professionalmente incalzante. Suo padre – dirige una ditta di autotrasporti - è cattolico e irlandese (nell’America di allora le due cose erano intrecciate e con un preciso peso specifico). La madre è di una famiglia più altolocata con radici protestanti americane ben più profonde (sembra che nella parte finale della vita si sia convertita alla Christian Science). Sin da piccolo Spencer è un bambino allegro, combattivo, spavaldo che ama fare a pugni, non ha voglia di studiare e deve di continuo cambiar scuola. Quando ha 14 anni diventa amico di un altro irlandese, che ha un anno più di lui e si chiama William Joseph O’Brien detto Bill. Spencer, fino a quel momento pessimo studente, apprende che Bill va alla Marquette Academy, una apprezzata scuola preparatoria di tipo militare legata ad una università di gesuiti, e lo segue. Fra la sorpresa generale Spencer comincia a studiare, e si interessa particolarmente di teologia (pensa perfino di farsi prete). Abbrevio. La scuola inaspettatamente lo aiuta: nel gennaio 1921 entra al Ripon College, dove professori intelligenti si accorgono delle sue qualità, il che gli consente di scoprire la recitazione e di apprendere che possiede doti naturali: bella dizione, memoria di ferro. Grazie al breve servizio militare nella Navy prestato durante la corta partecipazione USA alla prima guerra mondiale, ed alla “pensione” che gli viene assegnata, può fruire di un modesto aiuto governativo ed andare a New York, a frequentare, tirando la cinghia, una scuola d’arte drammatica, insieme a Bill O’Brien che, cambiando il nome proprio in quello ben più irlandese di Pat, si destinò anch’egli ad una fortunata carriera cinematografica. Sono gli anni in cui si formano le grandi amicizie: Spencer e Pat, insieme a James Cagney, Frank McHugh, Ralph Bellamy, Frank Morgan, ed occasionalmente altri ancora, daranno vita ad un gruppetto di amici a cui un giornalista, fra l’ironico e il malevolo assegnò il nome di “Mafia irlandese (“Irish Mafia”). Al di là degli indubbi rapporti di amicizia e di reciproca protezione, resta la significazione di quel che rappresentava un simile gruppetto di attori, famosi o destinati a diventarlo, nel mondo del teatro ed ancor più del cinema americano prebellico e successivamente postbellico. Un blocco etnico e spirituale, ove l’essere cattolici non era più ragione di discriminazione negativa ma se mai il riconoscimento di uno status sociale e umano omai consolidato (gli scandali della pedofilia erano di là da venire ). E anche, come dire, una sorta di involontario manifesto socio-etico, il viso sereno, spavaldo, al bisogno tenero o violento, di un’America rigorosamente bianca, piccolo e medio borghese, proletaria nei modi, conservatrice negli istinti patriottici, che contribuì al largo successo del cinema hollywoodiano dagli anni ‘30 agli anni ’50. Di quel cinema, muovendosi con un naturale facilità consentita solo da un talento fuori del comune, Spencer Tracy fu un’immagine risplendente, forse la più magicamente convincente in diversi decenni di storia del divismo cinematografico.
In effetti Spencer Tracy aveva alcune qualità rare, fra cui un talento strabordante. E tanto più rare quanto più difficili a definire. Come disse una volta a Garson Kanin James Cagney, grande amico di Tracy (poi ex-amico): “Spence è l’uomo più maledettamente difficile che abbia mai conosciuto. E’ il migliore. Oltre che l’attore più bravo. Hai mai notato una cosa ? Vai a una rivista o a un night, guardi quegli spettacoli di varietà in TV e c’è sempre qualcuno che viene fuori a fare imitazioni: Eddie Robinson (leggasi: Edward G. Robinson –n.d.r.), me, Bogie (Humphrey Bogart), Jimmy Stewart, John Wayne. Ma assolutamente mai Spence!Non ci provano nemmeno e sai perché? Perché non v’é niente da imitare, salvo il suo genio e questo non può essere rifatto”. In sostanza Cagney voleva dire che “Spence” era come ognuno e come tutti , vale a dire come ognuno dei suoi personaggi; e come tutti gli americani del suo tempo insieme, tanto era abile ad entrare immediatamente nei panni di chi doveva interpretare. Per 8 anni, dal 1922 al 1930, si fece le ossa in teatro, prima in provincia e poi a New York (nel 1923 recitò anche a fianco di Ethel Barrymore). Si rivelò poi nel 1930 con “The Last Mile” di J. Wexley, ove è a capo di una rivolta di carcerati. Viene chiamato a Hollywood, esordisce con un film , “Up the River”, ricordato soprattutto perché è diretto da John Ford e interpretato da Spencer e da Humphrey Bogart (fu per entrambi gli attori il film di esordio). Da quel momento egli inizia una galoppata strepitosa, terminata nel 1967 poche settimane dopo aver portato a termine ”Indovina chi viene a cena ?”.Per circa 35 anni Spencer pur con momenti di pausa e con diverse diversi periodi di minor successo, si cimenta con una serie di ritratti a tutto tondo ribadiscono la grande presenza di Hollywood nel creare miti piccoli e grandi della storia americana. Inizia con la Twentieth Century Fox ma nel 1935 riceve la completa consacrazione a divo passando – vi resterà per parecchi anni - alla Metro Golden Mayer. Nel 1936 è un sacerdote cattolico in “San Francisco” (rinvio alla filmografia presente nel catalogo per ogni indicazione d’anno, di regia, eccetera) ma nello stesso anno è il carcerato innocente ma spinto alla vendetta di “Furia”. L’anno dopo è un gentile marinaio portoghese in “Capitani coraggiosi” (primo Oscar) e l’anno successivo (secondo Oscar) è ancora per un sacerdote cattolico ne ”La città dei ragazzi” (più tardi Tracy confesserà che l’abito di un sacerdote cattolico era in certo senso l’”uniforme” che preferiva in assoluto in tutte le sue interpretazioni). Nel 1941 è Jekill e Hyde in uno dei più famosi , fra gli infiniti rifacimenti cinematografici del romanzo di Stevenson. Nel 1942 ecco “La donna del giorno” il primo film con Katharine Hepburn - ne interpreteranno complessivamente 9 – che è anche uno dei migliori della coppia segna il nascerei un rapporto sentimentale fortissimo che terminerà solo con la morte di Spencer. Il quale si era sposato, nel settembre 1923, con una collega di cinque anni più anziana di lui, Louise Treadwell, poche settimane dopo averla conosciuta. Quasi subito ebbero due figli (un maschio, poi una femmina) ed il primo, John, si rivelò sordo. Allora la madre abbandonò la recitazione e si dedicò con tutte le sue capacità a curare il, figlio (che doveva poi anche ammalarsi di poliolimielite ma è felicemente sopravissuto, si é sposato giovane ed ha avuto figli e nipoti). Di fatto di li a qualche tempo, Louise fondò una clinica specializzata, appunto la John Tracy Clinic, che esiste ancor oggi ed alle cui spese Spencer ha contribuito largamente. Da quando si sono conosciuti sino alla morte di Spencer questi e la Hepburn hanno vissuto insieme, per circa un quarto di secolo, ma lui non ha mai voluto divorziare e lo stesso ha fatto la moglie. Si dice che siano state le ferme convinzioni cattoliche di Tracy ad indurlo a comportarsi così, anche se rimane qualche perplessità per la sua condotta nei confronti di quella che evidentemente continuava a considerare la sua legittima consorte.
Andando avanti a rievocare la sua splendida carriera, ecco qualche altro titolo alla rinfusa: “Passaggio a nord ovest” , l’hemingwayano “Gente allegra”, “Joe il pilota”, “Mare d’erba“, “Lo Stato dell’Unione”, tipico film “presidenziale” di Frank Capra, “Il padre della sposa” e via via negli ultimi tempi alcuni dei titoli più robusti: ”La lancia che uccide”, “Giorno maledetto”, lo splendido ritratto di decadenza politica bostoniano-irlandese “L’ultimo Urrà” di John Ford, ancora da Hemingway “Il vecchio e il mare”, “..E l’uomo creò Satana (grande scontro anti e filo darwiniano fra Tracy e March, geniali mattatori di una hHllywoo scomparsa), “Vincitori e vinti”, ove Tracy disegna l’indimenticabile figura di un magistrato americano di provincia mandato in Germania a giudicare importanti personaggi nazisti. E poi il già ricordato “Indovina chi viene a cena ?”. Ove egli si congeda dalla vita e insieme dall’America “liberal “ a fianco di quella Katharine con cui ha condiviso la parte più operosa dell’esistenza.. E. come si è detto, film, alcuni dei quali di gran classe, grazie ai quali ha dati vita ad una delle più brillanti coppie del cinema amicano sonoro.
Un congedo splendido e malinconico venato d’allegria, che è la sua sostanziale eredità d’attore.
(battute: 9.666)


Claudio G,Fava

Risposta a 1° Anonimo
Grazie dell’approvazione. Le segnalo che nel testo c’erano delle piccole imperfezioni, che adesso ho provveduto a correggere. C’è quindi una nuova stesura.
Cordiali saluti.
Claudio G. Fava

Risposta a 2° Anonimo
Purtroppo non era in senso stretto una rivista ma il titolo di un piccolo festival congiuntamente organizzato dai comuni di Castelnuovo Magra e di Sarzana. Ebbe luogo una sola volta ed il testo a cui lei si riferisce rappresentava il catalogo del festival stesso. Poi l’accordo fra i due comuni svanì e la prima edizione galleggiò solitaria nella memoria. Mi spiace per Giancarlo Giannini che mi usò la cortesia di venire di persona.
In genovese si dice . “Sun messe dite” a cui si risponde : “E vespri canté” con evidente allusione liturgica!
Cordiali saluti.
Claudio G. Fava