Blog - Crediti


L'audio e i video © del Blog sono realizzati, curati e perfezionati da Lorenzo Doretti, che ha anche progettato l'intera collocazione.
L'aggiornamento è stato curato puntualmente in passato da diverse collaboratrici ed attualmente, con la stessa puntualità e competenza, se ne occupano Laura M. Sparacello ed Elisa Sori.

30 luglio 2008

NOTIZIE SULLO STATO DEI LAVORI (1): I SEI SEGNI DI VENERE



Nell’aprile 2007 le Edizioni Lindau misero sul mercato un libro, a cura di Valerio Caprara, dedicato al film “Il segno di Venere” (1955) di Dino Risi. Il film rientrava nel progetto di restauro de “L’Associazione Philip Morris Progetto Cinema”, che proprio con questo film si concludeva, dopo sedici anni di lavoro di recupero (17 film e 12 corti) di pellicole del passato. Nel libro molto ampio e ricco di materiale – oltre a Valerio vi hanno collaborato molti noti colleghi: Italo Moscati, Claudio Carabba, Natalino Bruzzone, Orio Caldiron, Enrico Lancia, eccetera – la fiducia di Valerio fece sì che mi venissero affidati ben sei capitoletti su altrettanti attori impegnati nel film. Tre lunghi (De Sica, Sordi e Peppino De Filippo) e tre brevi (Raf Vallone, Tina Pica e Virgilio Riento). Dopo più di un anno dalla pubblicazione e con il permesso della Lindau, ho deciso di riportare qui i sei brani che forse potranno essere di qualche utilità per gli appassionati di cinema. Buona (mi auguro) lettura a tutti.


Vittorio De Sica……..”Alessio Spano” p. 133

E’ quasi impossibile per un italiano di una certa generazione vedere sullo schermo Vittorio De Sica (1901/1974) senza in qualche modo commuoversi. Non solo per la grande serie di momenti, ora magici ora meno magici ma tuttavia spesso decisivi, legati alla sua figura nella storia del cinema sonoro italiano dagli anni ’30 agli anni ’70 (per non parlare del teatro: attore generico, poi, tanto per ricalcare il gergo del mestiere, subito “brillante” ed “attor giovane” negli anni ’20, infine “primo attore “ e poi “capocomico” negli anni ‘30 e 40’, sino al progressivo distacco dalle scene). Ma anche per la singolarità e quasi l’eccezionalità della sua personale traiettoria (mi attengo qui per ogni riferimento filmografico e teatrografico all’appendice di Orio Caldiron nel testo collettivo “De Sica” a cura di Lino Micciché, edito nel 1992 da Marsilio. E ricordo che val la pena di dare più di un’occhiata, proprio sul tema della recitazione di De Sica, al saggio di Caldiron “Il gioco del doppio”, contenuto nello stesso volume.)
Va ricordato che sia in Italia che all’estero vi sono molti esempi di attori divenuti poi (o contemporaneamente) registi. Scegliendo a caso, da Dick Powell a John Turturro, da Giuliano Montaldo a Ron Howard e Robert Montgomery passando provocatoriamente attraverso Sofia Coppola e, per contrasto, Ida Lupino, per giungere sino ai grandi Erich von Stroheim e Ernst Lubitsch, e via svariando all’infinito ed in ogni possibile direzione, si possono rintracciare senza soverchia fatica molti attendibili esempi: seguendo variazioni di carriere, situazioni, etnie, collocazioni sociali e politiche. Ognuno degli attori-registi ha la sua storia (e la sua geografia, verrebbe fatto di dire). Ma il cammino di De Sica appare così splendidamente e paradossalmente intrecciato con la storia del costume italiano ed anche, addirittura, con la storia d’Italia, da fare eccezione perfino a livello internazionale.
Oggi forse solo un nome - in un cinema però profondamente cambiato quale è il cinema contemporaneo rispetto a quello di De Sica - mi pare possa, con qualche aggiustamento, reggere il confronto di notorietà e di spessore, ed è quello di Clint Eastwood, attore dapprima periferico e poi di consolidato successo e via via, inaspettatamente, accettato come regista di buona fama sino a rivelarsi grande autore coi fiocchi. Ma anche Clint ha un cammino ben più rettilineo e meno fantasioso di quello di De Sica, ricco di una geniale intemperanza di fondo in certo senso tipicamente italiana, sicché l’esperienza dell’americano non trova che parzialmente paragoni e equivalenze.
Infatti De Sica, superato il battesimo cinematografico de “L’affare Clemenceau” (1917) avrà altre due esperienze col muto, nel 1927 e nel 1928, e poi da attore entrerà trionfalmente nel sonoro a partire dal 1932, anno, fra l‘altro, del fondamentale “Gli uomini che mascalzoni….” di Mario Camerini. In un settennio, appunto dal 1932 al 1939, ecco ben 26 film (uno, “Castelli in aria” di Augusto Genina inaspettatamente girato addirittura in due versioni, una italiana e l’altra, “Ins Blauen Leben”, tedesca ma sempre con De Sica e Lilian Harvey oriunda inglese famosa in Germania). In quei sette anni vennero realizzati in Italia, spesso con il contributo decisivo di De Sica, alcuni tipici esempi di un cinema generalmente “leggero”, garbato, recitato e confezionato con una eleganza poi a lungo trascurata e solo da qualche tempo rivalutata.. Nei film d’epoca De Sica, magro e sorridente, al bisogno canterino e ballerino, (“…parlami d’amore Mariù, tutta la mia vita sei tu…gli occhi tuoi belli brillano, fiamme di sogno scintillano…dimmi che illusione non è, dimmi che sei tutta per me. Qui sul tuo cuor non soffro più, parlami d’amore Mariù…”) si rivela come una sorta di divo a garbato uso interno, di autarchico Cary Grant di Sora. Il 1940, che è per l’Italia l’anno della sciagurata dichiarazione di guerra, è per lui anche quello dell’esordio nella regia, con “Rose scarlatte” e “Maddalena….zero in condotta”. De Sica, a 39 anni, per la prima volta si amministra ormai sia davanti che dietro alla macchina da presa e con quieta fortuna inizia un nuovo mestiere, che lo renderà famoso nel mondo nella sua nuova veste, quanto era già noto in Italia nella versione attoriale. Da questo momento infatti le due attività principali nel mondo del cinema conoscono per lui una divaricazione, a tratti assai netta. Come regista (prescindo dai film ad episodi, anche se uno di essi contiene un particolare curioso: nel 1967 dirige “Una sera come le altre”, uno dei cinque frammenti de “Le Streghe”. A fianco della Mangano vi recita proprio Clint Eastwood che ho citato prima..) firmerà nel corso della vita complessivamente 28 lungometraggi. Dal prima citato “Rose scarlatte” all’ultimo film, “Il viaggio”, del 1974, anno della morte. In essi concedendosi, salvo mio errore, poche apparizioni sullo schermo: da protagonista in “Teresa Venerdì” del 1941, da fugace (e poco ligure) Nino Bixio in “Un garibaldino al convento” (1942), da spettacoloso caratterista nei panni di un nobiluomo malato di gioco d’azzardo (vizio che De Sica conosceva bene in prima persona) il quale, ne “L’oro di Napoli” (1954), perde continuamente a carte con il piccolo Gennarino. E infine da avvocato difensore in un suo film gremito d’attori, “Il giudizio universale” (1961).
Parallelamente egli continua invece a condurre una intensa ma diseguale carriera da interprete, se così si può dire, indipendente, in film altrui (non di rado gli vengono richieste varie prestazioni di regia e di direzione d’attori) a volte di grande ma spesso di discutibile valore. Sicché un uomo che all’estero, quasi sempre ignorando il suo passato di divismo prebellico, diverse generazioni di critici si ostinavano a considerare soltanto il coraggioso, scabro, geniale, sorprendente regista -rivelazione neorealista dei tardi anni ’40 e dei primi anni ’50, soprattutto dopo l’esplosione de “Il processo di Frine” di cui farò cenno più in là, fu anche, in patria, sino agli ultimi giorni, seppure con diseguale fortuna, un meraviglioso e geniale tappabuchi di produzioni di diseguali livelli. Paradossalmente proprio in questa ottica egli ci ha consegnato alcune straordinarie eredità del suo splendido talento di grande attore e al bisogno, di grandissimo attore gigione.
Ho fatto ancora un po’di conti. Dal 1940 in poi sino al 1951 - l’avevo abbandonato prima mentre era appena diventato regista – De Sica appare in 21 film, nei quali son riassunte buona parte delle vicissitudini e delle incertezze belliche e postbelliche attraversate non solo dal cinema italiano ma dall’Italia tout–court: da una “Manon Lescaut” di Carmine Gallone a film drammatici o commedie, di Carlo Ludovico Bragaglia, Amleto Palermi, Raffaello Matarazzo, Vittorio Cottafavi, Alessandro Blasetti (“Nessuno torna indietro”: sfilata di almeno sette dive d’epoca dal romanzo di grande successo di Alba de Céspedes), Giorgio Bianchi, Marcello Pagliero (“Roma città libera “, tentativo di tradurre in proprio in regia il grande successo altrui di “Roma città aperta”), Gennaro Righelli, Camillo Mastrocinque, Pietro Francisci, Duilio Coletti, Léonide Moguy (per “Domani è troppo tardi” sembra che abbia dato una mano in regia), Giorgio Pàstina, Gianni Franciolini, Luigi Zampa. C’è un po’ di tutto. Qualche esordio, o quasi; presenze tenaci di registi sino ad allora importanti ma destinati ad essere via via travolti; frammenti di un cinema inamidato e rapidamente invecchiatosi; brividi di futuro……e un recentissimo passato avvolto da un clima gentilmente attonito che lui stesso aveva contribuito nel 1943 ad incrinare dirigendo “I bambini ci guardano”. De Sica sopravvive come attore partecipando a tutto, dall’omaggio collettivo ad Elsa Merlini in “Cameriera bella presenza offresi” di Giorgio Pàstina alla celebrazione del mito populista-romanesco della Magnani in “Abbasso la ricchezza !” allo zavattinismo animalistico di “Buongiorno, elefante!” e via elencando. Ma non di rado dà l’impressione di girare a vuoto, applicando, tanto per usare un linguaggio calcistico, la sua impeccabile tecnica individuale ad un gioco di squadra di cui sembrano sfuggirgli gli schemi. Poi arriva il 1952 e giunge sul mercato uno di quei film che ripropongono l’insuperabile mestieraccio di Blasetti, il regista con gli stivali che aveva il cinema, a suo modo, nel sangue. E cioè “Altri tempi” ideato da Blasetti e da Suso Cecchi d’Amico e scritto da almeno dodici sceneggiatori che articolavano una introduzione affidata ad un venditore di libri usati ed otto capitoli ispirati da stimoli narrativi o da racconti ottocenteschi di casa nostra.. Uno di questi racconti era contenuto ne “Il processo di Frine” pubblicato nel 1883 da Edoardo Scarfoglio, già marito di Matilde Serao, giornalista napoletano famoso all’epoca e dimenticato da tempo. Come è noto la tradizione vuole che “Phryne” ovvero “Bruna”, fosse l’etéra bellissima ritratta da Prassitele e che egli mostrò nuda ai giudici, i quali stavano per condannarla per empietà e che toccati dalla sua straordinaria bellezza finirono col mandarla assolta. Nell’episodio del film ispirato dal racconto, la contadina Maria Antonia Desiderio (Gina Lollobrigida, allora venticinquenne), silenziosa, prosperosissima e desiderabilissima, viene processata per aver tentato di uccidere il marito e la suocera. L’avvocato d’ufficio (appunto De Sica, ròrido e untuoso di goffa autosoddisfazione e di provinciale vanità) che l’ha fatta restar silenziosa ma agghindata nel modo più invogliante possibile, si abbandona ad un’arringa esaltata e paradossale, e come Prassitele riesce a commuovere giudici e pubblico e strappa l’assoluzione per Maria Antonia. Nel corso dell’intervento l’avvocato pronuncia urlando una frase destinata a diventar famosa (in sostanza chiede che se si nutre indulgenza per i minorati mentali la stessa indulgenza debba esistere anche per le maggiorate fisiche). Per parecchio tempo l’espressione “maggiorata fisica” divenne, tramite il film e De Sica, un espressione corrente nel linguaggio e nel lessico dei giornalisti d’epoca, incapaci di risalire a Scarfoglio ma capacissimi di orecchiare una definizione che diventerà proverbiale e quasi obbligatoria per anni ed anni.
Come si è detto, da quel momento De Sica incomincia, in certo senso, una nuova carriera. Se spesso come regista, pur internazionalmente famoso, stenta a concludere trattative e realizzazione dei suoi film, come attore di carattere, invece, sembra non stentare mai ad ottenere lavoro. Peraltro, subito dopo il fortunato episodio di Blasetti da Scarfoglio nel 1953, egli, a fianco di Danielle Darrieux e di Charles Boyer, è uno dei protagonisti de “I gioielli di Madame de….”. Firmato dal raffinatissimo Max Ophuls, da una novella della snobbissima Louise de Vilmorin, ove ovviamente gli si chiede una prestazione di gran classe, come ai suoi due compagni egualmente famosi. Ma non tutto, naturalmente, è dello stesso livello (curiosamente solo un’altra volta, salvo mio errore, gli capiterà di essere diretto da Dino Risi, in “Un amore a Roma”, del 1960, tratto da Ercole Patti).
Sospinto da quello che ottocentescamente viene voglia di definire “Il demone del gioco “- le catastrofiche sessioni alla roulette di De Sica in alcuni celebri Casinò sono rimaste famose – dal 1953 in poi alterna il meglio e il peggio con un misto di allegra indifferenza e, forse, di triste ostinazione. Finendo poi col dar vita ad una stupefacente galleria di caratterizzazioni. Spesso di gran classe come quelle prime citate: ricordiamo anche la sua raffinata apparizione nell’episodio “Scena all’aperto” a fianco di Elisa Cegani, nel seguito ideale di “ Altri tempi” e cioè “Tempi nostri.”sempre di Blasetti. Oppure la sua grande prestazione da mattatore in uno splendido film di Rossellini del 1959, tratto da un racconto di Indro Montanelli e poco amato da certa critica nostrana che non perdona al truffatore Bertone di mutarsi veramente nel Generale Braccio Fortebraccio Della Rovere……A fianco della divisa del falso-vero generale ve ne sono evidentemente molte altre, da quelle straniere da “pochade” a quelle molto nostrane dei Carabinieri di una volta, ove il maresciallo Carotenuto (quando i marescialli non uscivano quasi giovinetti da una scuola d’Arma, come adesso accade, ma si guadagnavano le spalline in età matura tirando la carretta per tutta una vita ..) è libero di ritrovare, ancora, la Lollobrigida un anno dopo “Altri tempi”, questa volta nei panni della Bersagliera…….
Ed ancor più vi sono gli articolatissimi abiti borghesi degli infiniti personaggi che via via De Sica porta sullo schermo; spesso i più toccanti, perché proiettati su uno sfondo dirupato ove quasi tutto riposa sullo strenuo divismo di un attore di classe mutatosi per bisogno in un grandissimo caratterista. Dal 1953 al 1974, anno della morte, si allineano ben 86 titoli, compresa la partecipazione-omaggio in “C’eravamo tanto amati” di Scola, che è anche il congedo di De Sica dal cinema e dalla vita. Fra i quali titoli si annidano alcune godibilissime chicche, come il ladro pseudopaterno, pomposo, gnomico ed elegantemente scalcinato di “Peccato che sia una canaglia” di Blasetti (1954).
Inventato giusto l’anno prima di regalarci (finalmente ci siamo, dopo tanto cammino !!) Alessio Spano, pseudo poeta e mascalzoncello invecchiato, che ne “Il segno di Venere” ronza con distratta furbizia intorno alla fiduciosa e sognante Cesira, sino a quando, nello stesso stabile, non riesce a collocarsi in casa di una tollerante e ancor piacente fattucchiera emiliana. I dialoghi fra Franca Valeri (un genio di casa nostra, forse non abbastanza lodato e studiato) e De Sica – ha 54 anni, ormai lavora a più non posso da decenni, una certa stanchezza quasi senile si è infiltrata nel viso dell’ex-fresco giovanotto che s’aggirava in bici nella Fiera di Milano eppure ha sempre classe da vendere- sono ancor oggi, ovviamente grazie anche a Risi, un piacere dell’occhio e dell’orecchio. Alessio, che si aggira altezzosamente furtivo nelle stanze della ”Casa del passeggero”, che detta lettere che non può pagare e si impadronisce scioltamente e senza rossori dei soldi destinati ad una colletta benefica, Alessio che cita sempre il suo ignoto poema “Il canto dell’allodola” e finge di parlare al telefono con un direttore della Rai, appare dominato da una furtiva e amichevole ossessione che solo può essere evocata da un grande, grandissimo attore, un piccolo genio votato insieme alla mirabile costruzione di sé ed ad una sorta di bonaria e spietata autodistruzione.


Peppino De Filippo ............"Mario" p. 139

Non è facile scrivere compiutamente di Peppino, proprio perché si tratta di un personaggio tanto celebrato quanto, ovviamente, famigliare a tutti. E’ stato notissimo per decenni, addirittura famoso per diversi anni, in qualche modo insieme a Titina (la migliore di tutti ?) ed Eduardo alla base di un trio teatrale - ed in minor parte cinematografico - che diede vita, con i suoi litigi fra fratelli, forse alla più nota famiglia d’attori italiani (non clamorosamente avventurosa e sparsa lungo tutti i declivi della dissipazione come i Barrymore, tanto per fare un esempio, ma certo vividamente e dialettalmente passionale). Come è noto i De Filippo erano i figli illegittimi di Eduardo Scarpetta – la loro storia famigliare è complicatissima e mi guarderò bene dal sollevarla qui- e fin dall’infanzia calcarono la strada ed i palcoscenici del loro padre naturale (che i tre dovevano chiamare “zio”).
Se si riflette alla sua figura ed alla sua carriera si deve convenire che Peppino ha avuto una (meritatissima) fortuna, tuttavia risultando quasi sempre una sorta di nobilissima “spalla” malgrado vantasse molte caratteristiche tipiche di un primattore. Il paradosso è che, di fatto, lui possedeva (quasi) tutto quel che è necessario per essere un protagonista vero e proprio: la freddezza e la totale sicurezza in scena, la padronanza articolata della mimica e del linguaggio, l’innata capacità di attirare su di sé, senza sforzo alcuno, l’attenzione degli spettatori, il “tempo”, vale a dire la scelta esatta del momento in cui interloquire, tacere, atteggiare il volto, ascoltare, interrompere, eccetera, ovvero una delle risorse che completano e distinguono l’attore vero, e soprattutto il mattatore. Tutto, insomma. Salvo una cosa. Il fisico. Qualsiasi italiano che, al Sud come al Nord, si fosse imbattuto in lui senza riconoscerlo (ipotesi di scuola peraltro poco attendibile, considerata la sua notorietà “tous azimuts”) si sarebbe chiesto: ”Ecco il prototipo dell’impiegato pubblico meridionale. Dove l’ho visto l’ultima volta ? Ad uno sportello delle poste? Oppure al Catasto, per quella fastidiosa pratica del cavedio conteso?”.
In effetti l’aspetto fisico condizionò in modo determinante la carriera cinematografica di Peppino. Appunto non credibile sullo schermo come mattatore, nei film divenne fatalmente un complice, un coprotagonista, un assecondatore, non so quale altra parola inventare per non scrivere di nuovo “spalla” come ho fatto prima, poiché in questo nostrano termine gergale si riassume e si racchiude una subalternità fondamentale, tipica di tanto teatro comico e farsesco (si pensi a Campanini con Chiari, se non addirittura a Rizzo con Macario) ma palesemente troppo ridotta per racchiudere la clamorosa furbizia creativa di Peppino. Il quale però potè spesso dividersi in teatro fra parti, impegni e onori da capocomico mentre invece al cinema oscillò in parti a volte defilate a volte essenziali ma non di rado, pur nella condivisione degli oneri e degli onori, apparentemente secondarie, purtuttavia ribadite da una sorta di significativa diarchia divistica. Ribadita persino nei titoli, secondo una rivelatrice moda divistica d’epoca che accoppiato a Totò - anche sotto questo profilo trionfatore nell’elenco dei titoli - lo vede quasi sempre in seconda posizione e a volte addirittura assente. Ad esempio: “Totò e le donne” (Steno 1952) o il divertente “La banda degli onesti” ridistribuito poi come “Totò falsario”(Camillo Mastrocinque, 1956, con i due campioni affiancati da un eccellente Giacomo Furia, tutti al massimo livello). E poi ancora “Totò, Peppino e i fuorilegge” (Camillo Mastrocinque, 1956), il fondamentale “Totò, Peppino e…la malafemmina” (identici anno e regista; contiene la celebratissima redazione in coppia della lettera alla presunta malafemmina), “Totò, Peppino e le fanatiche” (Mario Mattòli, 1958), il genialmente intitolato “Totò e Peppino divisi a Berlino” (Giorgio Bianchi, 1962). Con almeno per De Filippo una partecipazione ”solitaria” nel titolo (“Peppino, le modelle e “chella llà”, Mario Mattòli, 1957). Utile quest’ultimo film se non altro per valutare la popolarità di Peppino, che, appunto nel titolo, serve da alibi per traghettare un omaggio alla voce ed alle canzoni di Teddy Reno, cantante triestino, ed anche talent-scout di valore, allora popolarissimo ma ormai in buona parte ricordato soprattutto per essere il marito di Rita Pavone. A cavallo fra i ’50 ed i ’60 fu appunto il momento di maggior successo cinematografico di Peppino grazie appunto alla coppia esplosiva che era venuta formandosi con Totò. Come scrive giustamente Guglielmo Siniscalchi “ (…) sempre attento a mantenere alto il confronto dialettico con la straripante fisicità della “marionetta ” Totò,….è stato il grande interprete di una comicità sorniona e “di riflesso”interamente costruita su una sapiente arte dell’improvvisazione, su equivoci, giochi linguistici (…) e su una sottile vena di malinconia”
Vediamo con ordine questi due determinanti frammenti della sua vita d’attore. Visto che abbiamo cominciato col cinema, col cinema continuiamo, anche se fu la parte della sua vita professionale che, mi pare d’aver capito, egli, in fondo, amò meno e che purtuttavia divenne, insieme alla televisione, in certo modo determinante nel modellargli intorno un successo palese e, inaspettatamente, duraturo. Esordì al cinema nel 1933 in “Tre uomini in frack” di Mario Bonnard, e sino al 1943 partecipò a un po’ meno di una ventina di film, spesso insieme a Titina ed Eduardo con cui costituì sin dagli inizi una “Ditta” teatrale rapidamente affermatasi infranta poi nel 1944 in seguito ad una lite fra lui e il fratello maggiore. E’ anche protagonista nel 1941 in “Notte di fortuna” di Raffaello Matarazzo e appunto nel 1943 partecipa all’ultimo film del trio, “Ti conosco, mascherina !”di Eduardo da una commedia di quest’ultimo, grande successo d’epoca. Ne decenni successivi, Peppino farà ancora molto cinema (complessivamente in carriera quasi cento film) ma solo di rado avrà modo di far risaltare il suo freddo talento di (potenziale) protagonista. Val la pena di citare ancora quattro film a fianco di Totò, anche se il duo non è richiamato del titolo. E cioè nel 1959 “Arrangiatevi !” di Mauro Bolognini – esperta sceneggiatura di Benvenuti e De Bernardi - dove il vero protagonista una volta tanto è Peppino che porta la famiglia a vivere in un comodo appartamento, imbarazzante e ovviamente malfamato poiché è un ex casa chiusa, resa sfitta dalla Legge Merlin. Poi sempre nel 1959 “La cambiale” di Camillo Mastrocinque” dove Totò e Peppino rialzano il livello del filmetto creando i due cugini Posalaquaglia e Posalaquaglia, specializzati in “consulenze testimoniali” vale a dire in false testimonianze in Tribunale. Nel 1960 c’è “Chi si ferma è perduto” (Sergio Corbucci,) con i due che sono vecchi amici e colleghi ma che diventano nemici quando muore il capoufficio e il suo posto resta vacante. Infine, sempre nel 1960, “Signori si nasce” di Mario Mattòli con Totò nobile libertino e scialacquatore ed il fratello, Pio di nome e di fatto, compunto titolare di una avviata sartoria ecclesiastica.
Tutti film in cui il talento di Peppino - di “spalla” o di deuteragonista di lusso- rifulge splendidamente. E naturalmente prima di tutti, nel 1950, ricordiamo Lattuada e Fellini (due all’occhio lungo !) che seppero abilmente, fra la furbesca Del Poggio e la rassegnata Masina, collocare Peppino protagonista in “Luci del varietà”, su uno sfondo popolaresco di teatro minimo che Fellini celebrerà anche in seguito, e che aveva realmente frequentato quando scriveva dialoghi per Aldo Fabrizi. Non è un caso che sia proprio Fellini, nel 1962, a ripresentare Peppino nell’episodio “Le tentazioni del dottor Antonio” contenuto in “Boccaccio 70”. Come si vede molti momenti di fulgore, che un analisi minuziosa consentirebbe forse di meglio allargare. In ogni caso tutti gli esempi da me fatti ruotano entro quel ventennio ‘50/’70 in cui “Il segno di Venere” si colloca con significativo tempismo
Veniamo ora a Peppino uomo di palcoscenico. Come si è detto fu il teatro la parte determinante, e per lunghi periodi totalizzante, della vita di Peppino. Vediamo di ripercorrerne rapidamente le tappe. Peppino, nato a Napoli il 4 -secondo altre fonti il 24 -agosto del 1903, morirà a Roma il 27 gennaio 1980 Nel 1955, anno del film di Risi di cui ci occupiamo, è in un momento che si rivelerà cruciale: ha dunque 52 anni e si avvia alla parte più ricca di successo della sua lunghissima carriera. Per la verità il successo teatrale è in buona parte già consolidato, ma proprio negli anni ’50 si concreta e si espande, come si è visto, quello cinematografico. La qual cosa, curiosamente, sembra non abbia mai interessato moltissimo un uomo che era teatrante nell’animo e che altro non voleva essere. In effetti Peppino al pari del fratello maggiore e della sorella, visse, per così dire, in teatro da sempre. Come prima ricordato era figlio illegittimo, come Eduardo e Titina, di Eduardo Scarpetta, grande attore napoletano il quale ebbe una discendenza tutta legata al palcoscenico ed alla recitazione. Cito a mo’ d’esempio un fratellastro dei De Filippo, Eduardo Passarelli, a lungo caratterista nel cinema, una quarantina di film, e sulle scene. Molti – il fisico e la recitazione evocavano esplicitamente Eduardo – lo ricorderanno nei panni del bonario poliziotto metropolitano, il brigadiere amico del fidanzato di Anna Magnani, in ”Roma città aperta”. Del resto la prima delle tre mogli di De Filippo, Adele, madre di Luigi, unico figlio di Peppino, era sorella di Pietro Carloni, marito di Titina. Il quale - appartenendo ad una famiglia che fu silenziosamente, per decenni, sulle scene e fuori, fedele ai De Filippo - recitò sempre a fianco della grande attrice.
L’esperienza teatrale di Peppino si può dividere in due ampi tronconi, a loro volta articolati in frammenti minori, e cioè innanzitutto nel periodo in cui lavorò a fianco di Eduardo e in quello, iniziato nel dicembre 1944 dopo una lite furenti, in cui egli si separò da Eduardo, e che andò sino alla morte. Peppino, nato per cosi dire, nelle quinte, esordisce a 6 anni, nel 1909, in “Nu’ministro miezz’e guaiee”, oltre che nella parte di Peppiniello, figlio di Felice Sciosciammocca. Sino al 1919 lavora come generico nella compagnia del figlio legittimo di Scarpetta, Vincenzo, con cui però non va d’accordo. Nel 1920 conosce Totò nella compagnia Molinari. Poi cambia diverse compagnie e diverse collocazioni. Nel 1929 sposa Adele Carloni e torna ancora una volta da Vincenzo Scarpetta (il padre è morto nel 1925), poi di nuovo alla Molinari, poi i tre fratelli danni vita al gruppo “Ribalta gaia”. Nel 1931 al Kursaal di Napoli “Natale in casa Cupiello”: primo grande successo di critica e di pubblico.Nel 1932 nasce la “Compagnia Umoristica i De Filippo, di cui fa parte anche Tina Pica,”che recita un testo di Eduardo ed uno di Peppino. Si va avanti insieme ma con dissapori crescenti fra i due fratelli, appunto sino al 1944. Poi il divorzio. Dal 1945 debutta con una sua Compagnia, e così andrà avanti sino agli ultimi anni negli spazi o che il cinema (e la TV) gli lasceranno. Liberi. E’ stato rilevato che mentre Eduardo in genere metteva in scena testi suoi, Peppino, pur avendone scritti almeno una trentina, fu generoso di testi altrui. Nel corso dei decenni si andò dai classici (Plauto e Molière) a molto Pirandello e Bracco, via via sino ad un stuolo di commediografi italiani contemporanei –De Stefani, Guglielmo Giannini, Morucchio, Terron, Pugliese, Dino Falconi, eccetera – ma sempre secondo gli specialisti, piegati e condizionati da una sorta di creativa intromissione personale.
Infine, a conclusione, ricopio da internet (sito:
www.italiamemoria.info/peppinodefilpo/appa.htm) quella parte della scrupolosa voce su Peppino curata da Silvia Ortolani che riguarda il personaggio di Pappagone. il quale grazie alla TV godette per anni di una clamorosa notorietà. Lo faccio non certo per voglia di plagio ma perché non saprei e potrei far di meglio, mentre per definire il personaggio Peppino - la sua apparizione ne “Il segno di Venere” è impeccabilmente omologata alla sua carriera e speculare rispetto a quella di Sordi - un ricordo di Pappagone è fondamentale. Ecco, con i miei saluti, una parte del testo della Ortolani:
"Il personaggio di Pappagone nasce nel 1966 all'interno del programma musicale-televisivo Scala Reale……..E’ un uomo ignorante, un campagnolo che ha un impatto violento e choccante con l'ambiente cittadino, dove si parla una lingua che non è la sua (…) Anche la sua fisicità è impacciata, al punto da creare situazioni inverosimili in cui la fantasia dell'attore permette di far avvicinare il ridicolo al dadaismo. (…) Il successo del personaggio fu tale che la critica ne trasse lunghe disquisizioni ed evocò, per spiegare l'origine del nome, Pappus e Arpagone! Peppino spiegò in televisione che Pappagone è… una qualità di prugna che si vende a Napoli.
Con il ciuffo di capelli dritto sulla testa Pappagone ha una lingua tutta sua. Pappagone risponde al telefono: "Pronto… chi chiacchiera?"Pappagone chiede perché: "E piriché?"Pappagone non vuole immischiarsi: "Non metto lingua". Pappagone dice ecco qua: "Equequa!""Pappagone fa gli scongiuri: "Aglio fravaglio… fattura ca nun quaglia… corna e bicorna…caparice e capodaglio…"Pappagone ha perso i genitori: "Sono scorfano di padre e di madre"Pappagone deve fare una scelta: "Mamma mia che corresponsabilità” Pappagone chiede di non preoccuparsi: "Non vi percorate"Pappagone non ha capito: "Che signifisica?"

Automobile:automorbida

Imbrogliata:arrovogliata

Astronave:astrodinave

Colorato: Corolato

Alla fine: Alla fidinfine

Frigorifero: freddorifero

Spenta: stutataI

nfanzia: infanticida

Whisky: fischio

Signorsì e signorno: gnoresì, gnoreno

Le coronarie: Le incoronate

Proprio:propeto

Misacrifico: misacrifisico

Vi tiro su: vi carriculo

Manigoldomanicorto

Amleto: Omletto

Le orecchie turate: le orecchie appilate

Finisce: fernisce

Filibustiere: figlio di pustiere

Sconfitto:soffritto

Italiano: taliano

Perciò: piriciò

Solletico: Solleticolo

Aperitivo: primitivo
Insegnato: inzagnato."
Di fronte all’esplosiva meridionalità di Pappagone l’Italia rise (misteriosamente, ma non troppo ) per anni.

Alberto Sordi…. “Romolo Proietti” p. 145

Un po’ di doverosa contabilità: quando partecipa al “Segno di Venere”, Alberto Sordi (nato a Roma il 15 giugno 1920, ivi morto il 25 febbraio 2003) ha 35 anni ed è appena nella parte iniziale di un camino prodigiosamente intenso che lo porterà ad apparire, nel giro di 60 anni in non meno di 145 film, dirigendo 16 lungometraggi , più due episodi di film a più mani, e co-sceneggiandone un numero ben maggiore. In particolare sono proprio gli anni Cinquanta quelli in cui in cui egli sta foggiando il personaggio complessivo, che proporrà poi per decenni agli italiani, con la stessa tenacia e con un successo dapprima e per molti decenni, clamoroso, pur se illanguidito negli ultimi tempi. Giusto in quel periodo, appunto negli anni ’50, Sordi lavora furiosamente. Da “Mamma mia, che impressione!”(1951) a “Brevi amori a Palma di Majorca” (1959) trascorrono soltanto 8 anni: periodo relativamente breve in cui lui, stakhanovista nato, riesce ad allineare complessivamente 56 film, alla folle media di 7 titoli all’anno. Anzi, nel 1955 la media addirittura la supera. Oltre al “Segno” appare infatti anche in altri 7 film: “L’arte di arrangiarsi”, ”Buonanotte …avvocato!”, “Un eroe dei nostri tempi”, “La bella di Roma”, “Accadde al penitenziario”, “Bravissimo”, “Piccola posta”. Giusto per riassumere i temi di fondo - vedremo dopo il personaggio de “Il segno di Venere - in questo modo egli è, via via nel giro di un anno e nell’ordine, Rosario Scimoni detto “Sasà”, carrierista protervo e pronto a tutto salvo che all’onestà, l‘avvocato Alberto Santi, che vorrebbe tanto tradire la moglie e non gli riesce, l’impiegatuccio Alberto Menichetti il quale per non compromettersi fa qualsiasi cosa e si mette sempre di più nei pasticci, Gracco voglioso di donne ma frenato dagli scrupoli religiosi, Giulio Parmitoni, ubriacone sistematico e detenuto occasionale, poi l’enfatico maestro Ubaldo Impallato (amante di canzoni alpine ma anche, per il suo magro vitto, di verdura di campo da far cercare in campagna ai bambini che gli sono affidati) il quale ha la fortuna di scoprire un ragazzino prodigio, prima splendido baritono poi virtuoso del pianoforte. E infine è anche Rodolfo Vanzino, falso conte ma truffatore vero e spietato, che dirige una casa - trappola per vecchiette indifese.
Del resto va ricordato che al momento di impegnarsi nel film di Risi Sordi, se non è ancora popolarissimo come lo sarà fra qualche anno, non è uno sconosciuto: ha già sulle spalle, bene o male, 41 film, ha fatto anche, e con esito soddisfacente, a tutti i livelli, parecchio doppiaggio. Ricordiamo, fra le diverse voci, oltre a quella tipica di Oliver Hardy, ovvero “Ollio” a fianco di Mauro Zambuto, cioè ”Stanlio”, anche, giusto per fare un esempio, quella di Marcello Mastroianni in “Domenica d’agosto”di Luciano Emmer. Si è cautamente cimentato, a livelli diversi, dal 1936 al 1953, col teatro di varietà, anche da protagonista a fianco della Osiris. E infine in un’epoca senza televisione ha acquistato notorietà grazie a ossessive macchiette radiofoniche dall’insistita modulazione romanesca (I compagnucci della parrocchietta, Mario Pio). Al cinema allinea appunto un cascata di titoli diversi e di interpretazioni diverse, che comprendono il periodo, per così dire, del praticantato. Il quale comincia dall’esordio ne “La Principessa Tarakanowa (1938), giungendo sino, grosso modo, a “E’ arrivato l’accordatore” (1952). Partecipazioni d’importanza via via crescente con alcune esplosive anticipazioni di sapore divistico tuttavia poi spietatamente riassorbite dal lavoro di manovalanza. Ad esempio a pochi anni dall’inizio, nel 1942, grazie a Mario Mattoli, Sordi si ritrova, a fianco di Leonardo Cortese, all’epoca famoso, e di Carlo Minello, a far parte del trio protagonista dei “Tre aquilotti” ed ha l’emozione, in un periodo in cui questo contava, di indossare la divisa di allievo ufficiale a Caserta (la splendida costruzione del Vanvitelli fu, dal 1926 al 1943, sede dell’Accademia della Regia Aeronautica) e poi di sottotenente pilota. Notorietà fugace, che crudelmente tramonta subito. Ma Sordi non si abbatte: con la tenacia che ha sempre avuto nei suoi mezzi si rifugia di nuovo nel semi anonimato dei “caratteri” di talento. Debbono trascorrere ben 9 anni – e 12 film – prima che Sordi ritorni bizzarramente a far capolino da protagonista con “Mamma mia, che impressione !” (1951) ove impersona un boy-scout romano, petulante, ossessivo, benintenzionato, persecutorio e distruttivo in ogni sua azione. Prosecuzione di una potenziale macchietta radiofonica è un personaggio marginale ma già molto sordiano; tuttavia il pubblico, soprattutto al Nord, non abituato non solo all’accento ed agli isterici modismi capitolini del personaggio ma anche alla stessa scalcinata mitologia “cattolica” che lo guida, di fatto lo rifiuta. Con allegra e divertita malignità Sordi mi raccontò che proprio dopo aver girato il film si trovò a colloquio con un alto prelato, allora molto influente nel cinema e particolarmente nel Centro Cattolico Cinematografico (forse era Monsignor Galletto, ma vado a memoria, e in modo tristemente ovvio mi trovo senza possibilità di riscontri). Il presule protestò con Sordi, perchè proprio un bravo giovanotto come lui, nel fondo rispettoso di Santa Romana Chiesa, in ”Mamma mia, che impressione!” aveva disegnato una figuretta goffa di boy-scout, segnato da tutte le caratteristiche negative che i luoghi comuni anticlericali imprestavano alla categoria. Proprio in quel momento entrò nella stanza, recando una pratica d’ ufficio, un giovinetto pallido, foruncoloso, impacciato, goffamente untuoso che sembrava una proiezione animata del personaggio creato da Sordi. E il Monsignore si tacque…….
La svolta, come è noto, giunse all’inizio degli anni ’50. Dapprima con Fellini. Nel 1952 “Lo sceicco bianco”, nel 1953 “I vitelloni”, ricchi di splendide conseguenze per la carriera ma in un primo tempo certo più graditi alla critica che al pubblico. E poi, agli inizi del 1954, “Un giorno in Pretura” di Steno. Fra i sei episodi che compongono il film quello animato da Sordi è fuori di dubbio il più clamorosamente originale, in certo senso il più avanti sui tempi, il più stralunato, il più inatteso. Sordi ci teneva a ricordare che l’episodio - in effetti egli figura fra gli sceneggiatori a fianco di Continenza, Fulci, Viganotti e dello stesso regista - era totalmente una sua invenzione. Lo aveva offerto a Steno, che gli aveva chiesto se avesse un’idea e Sordi, ricordandosi “di certe esperienze da ragazzo con un giovanottaccio fra il bullo e il fallito che si esibiva in un marrana” buttò già il soggetto e glielo portò. Inizialmente Steno lo rifiutò, probabilmente perché era troppo strampalato. Poi, avendo bisogno, come si dice in gergo, di “metraggio”, alle fine accettò di inserirlo nel film, probabilmente senza sospettare che”Un giorno in Pretura” sarà ricordato per sempre proprio grazie a Moriconi Ferdinando, detto “L’americano”. Infatti quell’infantile e maniacale giovanotto romano, che oscilla fra l’idiozia frenetica e l’imitazione sognata e sognante di un’America vista al cinema e reinventata con strabica fantasia, entrò trionfalmente nella storia del cinema italiano. E, vorrei dire, nella storia minuta d’Italia. Battendo nel 1954 ogni possibile record, Sordi in quell’anno apparve in ben 13 film e in particolare proprio in quell’anno riprese per esteso il personaggio di Moriconi in un intero e disarmonico lungometraggio, “Un americano a Roma” sempre di Steno - anche qui figura fra gli sceneggiatori - dove si spaccia anche per ballerino col nome di Santi Byron. Comunque trovò successivamente il modo di riproporre le fondamenta del personaggio, all’inizio segnato da un frenetico inglese d’imitazione e da istintive intonazioni grottescamente plebee. Si veda appunto il malinconico ritorno del giovanotto (invecchiato) nei panni di un “gorilla nell’episodio “Fuoco” in “Di che segno sei ?” (1975). Del resto un debole per una sorta di ragionata follia romanesca Sordi l’ha sempre avuto. Basta ricordare il “giovanotto bislacco, pomposo, arrogante e sconclusionato” che aveva creato con grande successo (appunto a Roma, meno a Milano) a partire dal maggio 1947 nella rivista “E lui dice. Il quale andava in giro con una gonna scozzese solo per attirare l’attenzione e vendere piccoli ordigni per creare bolle di sapone. E che venne in certo modo trasferito di peso, per sbalordire il buon Commissario Nino Taranto, nel film “Accadde al Commissariato” (1954) di Giorgio C. Simonelli.
In questi film, ma anche in quelli che verranno successivamente, gettando via via le fondamenta di un organizzatissimo ed ineguagliabile divismo, ora protagonista ora comprimario, Sordi in qualche caso si accolla l’intero film sulle spalle, in altri si concede apparizioni minori, non di rado baluginanti di esplosiva, poetica follia. Non tutto, ovviamente, è allo stesso livello, ma tutto contribuisce a costruire quella figura multipla, possente, irridente ed a volte perfino imbarazzante che finirà con l’occupare un posto senza eguali nel cinema italiano post-bellico. All’epoca ci si affannava a dire che gli diventava, in certo modo, una sorta di riassunto e di simbolo dell’italiano medio. Io stesso all’inizio del decennio successivo, scrissi un profilo d’attore intitolato “Un italiano formato tessera”. Adesso, dopo quasi mezzo secolo, avendo vissuto 25 anni nella capitale ed avendo scritto un libro su Sordi, cambierei il titolo, senza nessuna intenzione polemica ma per amor di verità, in “Un romano formato tessera”. Non è un caso che spesso egli si sia presentato come una sorta di antologia vivente delle verità-falsità, dei luoghi comuni e degli ammiccamenti ingegnosi centrati sull’essere capitolino. Certo Sordi era programmaticamente, un romano formato tessera. Ma come uomo era anche qualcosa di più e di diverso. Da un lato nutriva per la sua città il distratto ma intenso e automatico patriottismo di tanti suoi concittadini (“A città più bella der monno..”), dall’altro non si risparmiava battute ironiche su un popolo che sembrava a lui, lavoratore forsennato e quasi maniacale nella concentrazione dell’opra, pigro, incostante e approssimativo (“Non c’hanno voja de fà niente, pur ner parlà se risparmieno, dicono “ tera” e “guera” pur de non dì “terra” e “guerra”…). Per capire Sordi e quindi il suo modo di recitare e di vivere - le due cose furono in lui strettamente connesse, molto più di quanto solitamente accada con gli attori, spesso usi a scindere vita e lavoro, articolando automaticamente le due cose quasi fossero due variabili indipendenti - è indispensabile ricordare fra alcuni dati di base l’ovvia romanità di Sordi, che risultava tuttavia profonda e complessa. E non solo folcloristica come pareva a molti. A modo suo egli era un discendente di Pasquino ma anche di Belli, il suo rapporto con la Cattolicità era proprio quello dei contemporanei del poeta, la Chiesa era al tempo stesso la Via per l’Infinito da un lato (da guardare con devoto rispetto e da obbedire nei dogmi senza riserve) e dall’altro la Regione Lazio e il Comune di Roma fusi insieme (provocando saltuariamente in lui una radicata e inevitabile diffidenza capitolina).. Poteva dunque concedersi tante astuzie e magari tante infrazioni. Una volta, con un trasalimento tipicamente indigeno nei confronti di un Pontefice straniero – ricordatevi le reazioni della piazza dopo 7 papi francesi: “romano lo volemo, o almanco italiano…”.- mi disse, imitando al bisogno una sorta di cadenza slava: “Caro Fava, ma questo Papa polacco, quando dice LA MATONNA !, ma che fa, bestemmia ??”. Era il gusto della battuta di uno che nel fondo, poiché sentiva e ribadiva una fedeltà assoluta all’istituzione, tanto più poteva permettersi, lui che andava regolarmente a messa, meditate evasioni. Ogni tanto si concedeva il lusso di disegnare figurine clericali ora goffe, ora pompose, per non parlare del disinvolto Monsignore che (si veda “Quelle strane occasioni” di Luigi Comencini del 1976) per colpa del complice più fidato di Sordi , e cioè Rodolfo Sonego, seduce e possiede la Sandrelli in un ascensore fermo per un guasto, e poi le spiega che non v’è stato peccato di sorta visto che entrambi non potevano disporre del loro libero arbitrio. Una fedeltà bizzosa e magari peccatrice che però non si smentiva nel fondo. Quella, nella sostanza, del marchese del Grillo. Al punto che una volta mi confidò ed era (quasi) sincero: “Creda a me. L’ultimo vero Papa è stato Pio XII e l’ultimo Cardinale, Ottaviani….”.
Questo atteggiamento si riflette, con significativa verità, in tante sue apparizioni d’attore. In cui attingeva fisiologicamente, in un modo che agli inizi suonò paradossale, ad una sorta di trafelata epica minore a sfondo rigorosamente capitolino, di cui era il creatore ma anche, in certo modo, l’ostaggio. Si veda il personaggetto divertito ma piccolo rispetto a tante sue creazioni successive che egli sbozza nel “Segno di Venere”. Si direbbe che a momenti, consapevole di una certa debolezza di fondo, ne esageri apertamente le caratteristiche. Ne costruisce la parte, come dire, esterna, ossessionando il povero Peppino De Filippo, disperatamente impiegatizio nel suo considerarsi un fotografo ricco di senso artistico, con il problema della vendita di un automobile che quegli né cerca né vuole. E quella interna con una sorta di vernacolare follia alla Moriconi: tratta male la povera Valeri, balla e poi s’annoia subito, combina pasticci e poi si rifugia sotto la protezione della mamma consapevole, severa e pure indulgente…..
Una delle tante prove d’attore che gli hanno concesso di dar vita ad una ossessiva, geniale figura di fondo che, tutto sommato, non ha eguali nella storia del cinema italiano……


Raf Vallone..............."Ignazio" p. 151

Ne “Il segno di Venere”, basta vederlo entrare in scena al momento dell’incidente di macchina, per concepire qualche dubbio sulla sua reale duttilità d’attore. Dubbio che, per la verità, rimane anche vedendo il resto del film. Soprattutto se si confronta il suo sorriso un po’ vacuo e la disponibile recitazione con la quasi automatica e cinica scaltrezza di cui dan prova i marpioni con cui si confronta (ovviamente De Sica, Pica, Riento, Peppino, Sordi, ma anche la geniale Valeri e la stessa Sophia, in parte ancora impacciata ma di nascita già sinuosa caratterista, in attesa di definitiva promozione a protagonista in Servizio Permanente Effettivo). E sino alla fine del film questa sensazione resta viva: si guardi all’eccesso impacciato di sorridente buonismo con cui irrora padre e zia di Agnese quando ormai viene accettato come genero futuro ma imminente. Probabilmente Vallone non era completamente adatto al clima, caciarone e pur scaltrissimo, della commedia italica d’epoca, chiamata poi come è noto, con un sottofondo di spregio, “all’italiana” (quale si addiceva, ad esempio, ad un talento aristocratico, aguzzo e irridente come quello del grande Dino).
Va detto che qui si rischia apparentemente di scivolare nell’ ingiustizia. In realtà Vallone, al di là di questo e di altri caratteri ricoperti nella sua lunga carriera, era un personaggio complicato. Come è noto arrivò alla recitazione quasi per caso. Nato in Calabria il 17 febbraio 1916- sua nonna era una nobildonna di Tropea, Eleonora Potenzoni Mottola, mamma del marchese Saverio Mottola - crebbe a Torino dove un padre avvocato lo volle laureato (in legge ma anche in lettere) e dove per suo conto, dotato di un fisico atletico, giocò al calcio. Lo fece si badi –seguo qui il traliccio di una confessione raccolta nel 1997 da Aldo Cazzullo - ad un livello professionale, in serie A, diventando nel Torino mezzala destra, nello stesso ruolo in cui poi giocò Loik. Nella sua intervista Vallone ricordò una volta con orgoglio che in campionato dovette affrontare l’Ambrosiana Inter (era il nome imposto dal Governo fascista all’Internazionale, così come il Genoa dovette chiamarsi Genova e il Milan Milano) che contava allora con le due mezze ali più forti d’Italia, Meazza e Ferrari. Vallone dice: “non avevo grandi piedi ma molto fiato” e seguendo gli ordini di Egri Erbstein (morì a Superga) riuscì a giocare in mezzo ai due impedendone i passaggi, e il Toro vinse 1 a 0. Abbandonato il calcio, si laureò in legge ed in lettere, fece qualche esperienza teatrale al “Gobetti”. le sue frequentazioni “azioniste” gli aprirono – nonostante. dice, non avesse la tessera del PCI - le porte dell’ “Unità”, ove, su invito di Davide Lajolo, curò per qualche anno la terza pagina. Fu per questo che De Santis, il quale si accingeva a girare “Riso amaro” e voleva documentarsi perché Vallone aveva redatto una inchiesta sulle mondine, andò con lui, Gianni Puccini e Lizzani, a pranzo alle Tre Galline, ristorante torinese già tradizionale all’epoca. A tavola Vallone gli recita il testamento del soldato Woyzech di Georg Büchner e De Santis lo “arruola” su due piedi per la parte del sergente nel film. La settimana dopo Vallone era a Roma alla Lux film a firmare un contratto per cinque anni (rinnovando in modo stabile un legame col cinema misteriosamente iniziato nel 1942, quando apparve come comparsa, nel camisaccio di un marinaio, in “Noi vivi” di Goffredo Alessandrini).
Di fatto fu, in certo modo, un impegno a vita. Vallone morì a Roma il 31 ottobre del 2002. E praticamente non smise mai di lavorare. In effetti ha fatto cinema, e negli ultimi anni solo televisione, sino al 2000, allineando quasi un centinaio di titoli. E alternandoli ad una attività teatrale in certi periodi assai intensa. Fra l’altro, oltre che in italiano a Milano e Roma, recitò a Parigi in francese “Uno sguardo dal ponte” di Arthur Miller , regia di Peter Brook (piacque a Sidney Lumet che ne diresse una versione cinematografica con Vallone protagonista) ed in inglese, con la Royal Shakespeare Company, “The Duchess of Malfi” di John Webster. Firmò anche molte regie d’opera Ma al cinema la sua presenza fu prevalentemente “drammatica, Sia nei tipici film nostrani anni’50 – fu nel “Cammino della speranza”di Germi che conobbe Elena Varzi, per sempre sua moglie e madre di tre figli - ma anche in molti film stranieri: si va da Carnè, a Delannoy a Bardem sino a Huston, Preminger, Coppola, Dmytryk, Hathaway, Lamont Johnson….. Eppure si direbbe che, sino all’ultimo, nonostante lo scrupolo nel lavoro e le buona cultura s’avvertisse in lui, ben al di sopra della resa umana di tanti attori, una sorta di indeterminatezza, di vaga mancanza di autoconvincimento, nascosta , fra le righe e nelle pieghe dei suoi personaggi.
Quasi che. ancora dopo tanti anni, il duplice dottor Vallone rimpiangesse di aver abbandonato per la fruttuosa ribalta la creativa anonimità della progettazione e dell’impaginazione della terza pagina…….


Tina Pica …………….. “La zia” p. 153

Monumento ammonitorio della più cavernosa e imperiosa femminilità partenopea, Tina (Concetta Annunziata) Pica nacque a Napoli il 31 marzo 1884 e vi morì il 16 agosto 1968 colpita da trombosi. Fu figlia d’arte, come spesso usava fra i teatranti d’allora: suo padre aveva ripreso e consolidato il personaggio di don Anselmo Tartaglia, il padrone di Pulcinella, celebre per gli involontari e pasticciati giochi di parole, ad esempio “Arrivediece” invece di “Arrivederci”,”Io fui il conte di galline” invece di “Io fui il conte Ugolino”, eccetera, in palese omaggio ad un deformante gusto verbalistico, ingenuamente arcaico e vernacolare.
Don Anselmo viene infatti dal passato, popolare presso il pubblico napoletano già a metà del Seicento. Secondo le necessità di scena è ora notaio, ora farmacista, avvocato, consigliere di corte oppure soltanto padre di qualche giovane maschera tipica della tradizione dialettale; affetto da balbuzie, si impappina, si arrabbia, non riesce a farsi capire, è molto miope, inforca enormi occhiali, è anche un po’ sordo e fa la corte a tutte le donne che incontra. Tina seguì di fatto suo padre sul palcoscenico, quasi bambina, a volte in abiti maschili. Poi lavorò con successo insieme ai tre De Filippo, E, accanto a loro, dopo una lontana esperienza ai tempi del muto esordì nel sonoro grazie al “Cappello a tre punte”di Mario Camerini (1934). Da quel momento inizia per più di vent’anni una carriera fortunata, anche se forzatamente ripetitiva, in cui ripropone il suo personaggio base - una burbera napoletana senza età dalla cupissima voce e dalla marmorea morale - che in qualche modo risente delle esperienze paterne. Da quel momento per oltre vent’anni viene utilizzata a catena, in più di sessanta film e spesso con grande successo, sino a quando nel 1963 à abbandonata dal cinema, crudelmente passata di moda, dopo l’episodio “Mara “ in “Ieri, oggi, domani” diretto da De Sica. A quanto sembra è poi morta sola e malata.
La consacrazione del successo, e del ripetitivo personaggio-base, le venne con la figura di “Caramella” nel 1953 in “Pane, amore e fantasia” di Comencini e nei “seguiti”: “Pane amore e gelosia” (1954) sempre di Comencini e “Pane, amore e…..” (1955) di Risi che ritroverà nello stesso anno proprio per “Il segno di Venere”, con lei e De Sica unici superstiti dei cast precedenti. Come ha scritto Enzo Siciliano nella voce dedicata all’attrice nell’Enciclopedia del Cinema della Treccani: “…eccola quindi sugli schermi riprendere con vari connotati la figura della capera del vicolo napoletano, portiera, serva pettegola, zitella e nonna prepotente, sempre unendo ad un’idea di femmina intrigante un che di balordamente maschile, da cui scoccano scintille di irresistibile comicità”. Va precisato che “‘ a capera era, nella Napoli di un tempo,…. “la pettinatrice, personaggio femminile che all’inizio del XX Secolo girava di casa in casa per “acconciare” a pagamento, ma in economia, i capelli delle donne del quartiere. Nel suo girovagare veniva a conoscenza di fatti veri e dicerie che puntualmente diffondeva. In definitiva diventava il “giornale” più letto della zona….” I personaggi affidati a Tina erano tuttavia qualcosa di più: ammonivano intervenivano, spesso influivano in modo determinante sugli avvenimenti. Il tutto sempre attingendo ad una sorta di misteriosità parareligiosa e, se così si può dire, parafemminile. Fu per molti anni assai popolare . allineando una serie di bizzarre prestazioni ossessivamente simili, e in genere di buon livello: si pensi all’immortale duetto fra lei e Totò in “Destinazione Piovarolo” di Domenico Paolella, sempre del 1955 (il massimo dell’esaltazione del personaggio venne attinta, nel 1959, con un film, purtroppo mediocre, di Roberto Bianchi Montero, intitolato divisticamente “La Pica sul Pacifico). Nel “Segno” è esattamente come ci si aspetta che sia: furibonda nel rimbeccare il fratello, severissima nell’ammonire le nipoti a stare attente e a non commettere la “cosa” ma infantilmente felice nell’accogliere il pompiere di Agnese…….
Tutto prevedibile e tutto perfetto. Peccato che Napoli teatrale e cinematografica figurette di tulle e di acciaio come Tina Pica non ne produca più….


Virgilio Riento……”Il padre di Agnese”

Risorsa quasi automatica di tanto cinema italiano postbellico, Virgilio Riento appartiene a quella felice etnia di caratteristi, spesso ma non sempre meridionali, che per decenni hanno contribuito a tenere in piedi numerosi film di casa nostra. Soprattutto quello corrente e famigliare in cui gli spettatori di un tempo –con fidanzati, fidanzate, mariti, figli, figlie mogli e parenti vari – amavano ritrovarsi nella settimanale festosità del cinematografo sotto casa. Tutte le industrie cinematografiche avanzate (in USA, ma anche in Francia, in Italia, in Germania, in Spagna) coltivavano, soprattutto in passato, un certo numero di personaggi fissi, una sorta di minuzioso divismo parallelo dei quali gli spettatori avvertiti riconoscevano a prima vista le caratteristiche professionali. Attrici ed attori, in Italia e all’estero, specializzati in parti precise e ripetitive: uomini di una indefinibile mezz’età, furbescamente avvolti nei paramenti protettivi di un dialetto o di un gergo spesso grottescamente accentato, oppure segretari, cameriere, insegnanti tanto più severe quanto più zitelle, poliziottoni americani di provincia, milionari grassi e pasticcioni, vescovi anglicani severamente magri, cow-boys anziani dalle vocette blese, popolani romani sempre in canottiera per meglio sgridare i famigliari, popolane romane pingui e assediate da bambini urlanti, maggiordomi impeccabili e vagamente annoiati….. Entro questi confini, strettissimi e larghissimi allo stesso tempo, si mosse da sempre Virgilio Riento: nome completo Virgilio Riento Dì Ariento, nato a Roma il 28 novembre 1889, morto in un incidente automobilistico fra Santa Marinella e Civitavecchia il 7 settembre 1959. Figlio di un impresario teatrale, in teatro lavorò bambino per tornarvi da adulto, specializzandosi, nonostante la nascita romana, in caratterizzazioni dialettali abruzzesi, “macchiette” come usava dire allora (tipica quella del cafone Donato Collacchione). Esordì nel cinema nell’anteguerra (“Sette giorni all’altro mondo” di Mario Mattoli è del 1936) e da allora praticamente mai smise, inanellando in 23 anni più di cento film, e smettendo solo nel momento più acuto, della guerra, che a Roma fu il 1944. Lavorò con quasi tutti, grandi e meno grandi d’epoca, Palermi, Matarazzo, Camerini, Alessandrini, C.L.Bragaglia, Righelli, Blasetti, Campogalliani, Soldati, Fabrizi, De Sica, Comencini, Steno, Dino Risi (due volte), ed a fianco di mezzo cinema italiano, da De Sica a Alida Valli. da Armando Falconi alla Mercader da Gandusio ai De Filippo, e poi ecco la Magnani, Taranto, Walter Chiari, la Pampanini, Rascel, Nazzari, Aldo Fabrizi, la Bosè , Tognazzi, la Loren, eccetera eccetera. Se richiesto faceva qualcosa di più, perché era bravo e del mestiere, se no forniva puntualmente le sue prestazioni abituali, i suoi irati e complici falsetti abruzzesi, i suoi garbugli verbali (per anni il suo pezzo di bravura consistette nel parlare della sua carta d’ identità che non so perché chiamava “d’indindidintà” ottenendo uno spropositato successo di pubblico). Qui non lo dice ma fa esattamente quello che ci si aspetta. Litiga con la sorella Tina Pica su chi regge la casa, grida che il padrone è lui e che al mattino nessuno deve toccargli il giornale, protesta perché la figlia prosperosa, con le curve assodate e rassodate di una Loren ventunenne, vuol lavorare invece di stare a casa ad aspettare un marito da collaudare. Ed alla fine, come la sorella, accoglie con gioia palese il futuro genero Vallone.
Tutto impeccabile, tutto come da partitura. Una delizia per i nostalgici di un cinema che fu.

IL SORRISO DEL GRANDE TENTATORE



In occasione della retrospettiva dedicata a Tullio Kezich, durante la XIX Edizione del Trieste Film Festival (17/24 Gennaio 2008), l'Università degli Studi di Trieste (Facoltà di Scienza della Formazione, Dipartimento di Scienze Geografiche e Storiche) in collaborazione con l'Associazione Culturale "Cinemazero" di Pordenone, ha pubblicato nel 2007 presso la casa editrice Kaplan un ampio volume, 416 pagine, intitolato "Tullio Kezich, il mestiere della scrittura" (la copertina è riprodotta qui a fianco). Il volume contiene ricordi e testimonianze di molti colleghi e studiosi di cinema, alcuni dei quali sono anche vecchi amici (Nuccio Lodato, Callisto Cosulich, Morando Morandini, Ermanno Olmi, eccetera). E più largamente, molto materiale di diverso genere per contribuire ad un ampio ritratto di Tullio, della Trieste, della Milano e della Roma in cui si è esplicato, e delle persone che lo hanno incontrato, frequentato e apprezzato durante la sua tumultuosa carriera di critico, di commediografo, di giornalista e anche di produttore. Io ho scritto un brano in cui ricordavo gli anni passati con lui e con altri amici, durante la Mostra di Venezia, in un piccolo albergo periferico del Lido, "Il sorriso" . Ecco il perchè del titolo "Il sorriso del grande tentatore" (che è un film di Damiano Damiani del 1974 con Glenda Jackson, Claudio Cassinelli, Arnoldò Foà, eccetera: non c'entra niente con Tullio, ma non sono riuscito a resistere al gioco di parole).
Il pezzo da me scritto, vale quello che vale, probabilmente non molto, ma è una ricostruzione sincera di un "nido di critici gentiluomini" alla Mostra fine anni '50 e io mi lascio andare a piccoli cedimenti letterari. I curatori del volume (credo in particolare Riccardo Costantini) hanno operato diversi tagli sul testo. Ed io per antica disciplina redazionale mi sono limitato a prenderne atto. Ho deciso, tuttavia, di ripubblicare qui la versione integrale per rispetto dei tempi trascorsi e per antico affetto per Tullio.


Tutto, o quasi tutto, cominciò di lì. Dalla Mostra di Venezia del 1959. Professionalmente c’ero già stato l’anno prima ma volevo cambiare albergo, sicché fu una vecchia conoscenza genovese, Claudio Bertieri, a condurmi in quello dove soggiornava abitualmente al Lido. Era anonimo e modesto ma a suo modo efficiente, si chiamava “Sorriso” ed era situato a notevole distanza dal Palazzo del Cinema, in un attonito quartiere di case “Incis” (ricordo il nome ma ignoro a quale misterioso Ente parastatale facesse riferimento) proprio a fianco dell’utile capolinea della filovia – che, almeno allora, passando davanti al Palazzo del Cinema e poi nel Gran Viale, proseguiva via via sino all’imbarcadero di Santa Maria Elisabetta - e subito di fronte al Galoppatoio. Il quale, durante la Mostra si mutava annualmente per diversi giorni, non so perché ed a causa di quale misteriosa e furibonda competizione, in un rumorosissimo tiro a segno, che contagiava i nostri pomeriggi di lavoro – in genere trascorsi in camera a battere furiosamente a macchina - con una rabbiosa colonna sonora da film di guerra di serie B.
Il “Sorriso” della fine degli anni ’50, era un piccolo, periferico mondo veneto di Mestre traslocato al Lido agli ordini ferrei della proprietaria, fattivo personaggio post-goldoniano che aveva anche un nome parateatrale. Si chiamava infatti Genesia (la “siora Genesia” per antonomasia) e regnava con indiscussa autorità su un trepido gruppuscolo di disciplinate inservienti-cameriere-cuoche, genericamente indicate come “le fie” (in veneto, come “filles”in francese, significa sia le figlie che le ragazze). Su di esse ovviamente incombeva, durante le due settimane della Mostra, l’obbligo di occuparsi a fondo di quelli che la signora Genesia, per distinguerci dalla plebe, chiamava con rispetto sanitario “i dotori”, vale a dire i giornalisti convenuti al Lido per la Mostra. Giusto per separarli socialmente dalla clientela plebea che modestamente vi si adunava in luglio e agosto per fare i bagni nella spiaggia dell’albergo, defilata in estrema prosecuzione di quelle importanti, a cominciar dalla più importante di tutte: quella dell’”Excelsior”. Clientela che poi in settembre subitamente scompariva, travolta dal mutare della stagione e dall’inizio della Mostra ma ancor più dalla nostra palese superiorità sociologica. Per la verità c’era una eccezione alla tirannica mitologia della Mostra che imperava in albergo per due settimane: saltuariamente giungevano in albergo, del tutto indifferenti alla storia del cinema, anche scoraggianti scolaresche inglesi, capeggiate da slavati insegnanti scialbamente distratti e composte in maggioranza da ragazze di periferia, rapidamente guatate in strada da torvi giovinastri del Lido, le quali, appena arrivate, già piangevano, affacciate alle finestre con in capo buffi cappelli coloniali da gondoliere immaginario. Non lo sapevamo ma era il tramonto dell’Inghilterra di “Camera con vista”, particolare socio-letterario che tuttavia non scalfiva la nostra arcigna superiorità culturale.
Nel corso degli anni e delle Mostre il nucleo trainante dei “dotori” si impose comunque, dando vita ad una sorta di club di soci fondatori: c’erano naturalmente, oltre a me con mia moglie Elena, Bertieri, Tullio Kezich e Lalla con Giovanni piccolo e geniale, Callisto Cosulich, personaggio fondamentale nella vita professionale di Tullio, con Oscar bambino e la cara Lucia (née Rissone, per cui un anno venne anche, mi ricordo, la sua prima cugina Emy De Sica, figlia di Vittorio e di Giuditta, e l’allora suo marito Peter Baldwin, quello di “Era notte a Roma”). E naturalmente il già autorevole e sempre sagace Morando Morandini con Laura, Luisa e Lia. Ne facevano più pallidamente parte anche altri: ad esempio Edoardo Bruno, già allora alle prese con “Filmcritica”. Poi il favoloso oriundo genovese José Maria Podestà, per decenni addetto culturale dell’Ambasciata dell’Uruguay a Roma, intrepido “cinéphile”, che, nei tardi anni ’20, studente a Berlino, se ne era andato a Mosca per controllare de visu il cinema di Eizenstejn e Pudovkin. E, ancora, il sottile amico francese da tempo scomparso, Marcel Tariol, professore universitario a Tolosa e fondatore delle “Rencontres Cinématographiques de Prades”. E Maurizio Del Ministro, arrivato da giovanissimo studente universitario (“..Sono allievo di Binni…”), che a tavola parlava contemporaneamente con tutti, proiettando intorno a sé una toccante felicità cinematografica, toscanamente loquace e cinefilmente esplosiva (le bambine di Morando, per via della partecipe magrezza e del sorriso intensamente agitato, lo chiamavano Jerry Lewis).
Ma in fondo eravamo noi, i primi che ho citato, a dare il tono all’istituzione. Fra gli altri Tullio ed io – pur consapevoli delle quiete ma divaricanti impronte ideologiche palesi in ciascuno dei due – eravamo uniti da una gran passione comune per quel che non si chiamava ancora correntemente “cinema di genere”, ma che splendidamente esisteva da decenni. E in particolare dal western che aveva segnato la nostra adolescenza – un anno di distanza nelle date di nascita ci rendeva di fatto coetanei – lasciandoci, secondo le caratteristiche di ognuno, indelebili tracce sentimentali. Una volta parlavamo appunto del “nostro” genere e Tullio mi disse - probabilmente lo avrà subito dimenticato ma io lo ricordo invece con la nitidezza bizzarra delle memorie “d’antan”- che nella sua casa di Milano aveva un grande armadio “dedicato solo a Ford, e tutto quel che comprava e che riguardava il regista lo gettava lì dentro”.
Di quell’armadio – lo avrà poi portato di peso a Roma ? – non solo non mi sono mai dimenticato ma queste righe nascono proprio dalla robusta presenza romanzesca di quel ricordo.
Riporto in allegato la esauriente bibliografia cinematografica di Kezich, così come mi è stata cortesemente fornita da Riccardo Costantini. Mi limiterò a citarne direttamente una parte, riallacciandomi qui subito, giusto per restare in argomento Ford, a due pubblicazioni tipiche di Tullio. Ovvero la monografia sul regista, apparsa nel 1958 per il parmense Guanda, e la circostanziata analisi di “Ombre rosse” pubblicata dieci anni dopo, nel dicembre 1968, nella ottima collana padovana “I Radar”.
Il primo testo fa parte della collana “Piccola biblioteca del cinema” diretta da Guido Aristarco - che comprende, fra l’altro, anche un “Clouzot” di Pietrino Bianchi, un “Rossellini” di Massimo Mida, un “Billy Wilder” di Oreste Del Buono, giusto per citare qualche libro di vecchie conoscenze – e risale presumibilmente al periodo milanese in cui Tullio fu caporedattore di “Cinema Nuovo” prima di liberarsi dalla presenza assorbente proprio di Aristarco. Il quale, come è noto, esercitò, per molti anni, una sorta di intransigente protettorato ideologico su quell’ampia selezione della critica cinematografica italiana che si collocava quasi automaticamente a sinistra (dallo stesso Tullio a Guido Fink ad Adelio Ferrero furono in tanti gli autori di talento ad uscire man mano dalla sua esigente curatela). In effetti va detto che il fordismo istintivo di Kezich è qui apertamente temperato da una serie di riserve che testimoniano di una perplessità tipica del momento storico ma anche del personale cammino, umano e critico, di Tullio. Il libricino inizia addirittura con un brano quasi addolorato: “Nel cinema non c’è forse, in questo momento,un regista più vecchio di John Ford. Non parliamo, s’intende, in termini di anagrafe:(in nota c’è un rinvio ai dati sulla autentica identità del regista - Sean Aloysius Feeney o anche O’Fienne e O’Fearna- e sul vero anno di nascita, 1890 o 1895, allora in discussione- n.d.r.) la vecchiaia di Ford è quella degli autori che sono arrivati lentamente a vivere fuori del proprio tempo, o almeno lontani dai sussulti della cronaca. Dobbiamo aggiungere che la nostra simpatia va per istinto agli altri, agli autori che vivono da contemporanei, che avvertono e sottolineano per noi le vibrazioni più segrete del costume attuale, che sanno addirittura farsi anticipatori di una realtà destinata a realizzarsi storicamente nel futuro. Ford, invece, appartiene a una razza diversa. E’ fra quelli che lavorano appartati, chiusi in una solitudine senza finestre, martellando incessantemente i propri temi e verificandone la consistenza con un metro tutto personale. Vede soltanto ciò che desidera vedere: per lui un romanzo non sarà mai lo specchio fedele della realtà di cui parlava Stendhal”.(……) “Per misurare la distanza che separa l’autore di “Sentieri selvaggi” (un film che forse Kezich non ha mai completamente amato mentre è diventato un “cult” per molti critici delle generazioni successive – n.d.r.) dai suoi contemporanei basta pensare alle opere recenti dei maggiori registi di Hollywood. Molti veterani, da Wyler a Stevens, da Cukor a Hawks, hanno sentito la necessità di una revisione della propria “poetica”: ciascuno in una direzione particolare, ma tutti insieme partecipi di una atmosfera rinnovata. Hollywood, cinta d’assedio dai mille diavoli del maccartismo e della televisione, si è venuta lentamente orientando, con molte contraddizioni e infiniti dietrofront, verso una produzione più meditata e intelligente, che accetta la misura della realtà”.(…..) “Da almeno 10 anni”, egli continua, pur non avendo “uno sviluppo né lineare né costante la storia del cinema americano porta i nomi di Huston, di Zinnemann, di Rossen, di Mankiewicz, di Wise, di Robson, di Brooks, di Dmytryk: tutti più o meno debitori del vulcanico, e troppo presto giubilato, Orson Welles”. . ……………
Seguono altre considerazioni, come dire, d’epoca. Sarebbe interessante ricopiare ancora molte pagine del testo di Tullio ma non vorrei dilungarmi troppo di fronte alla massa delle cose da dire (e non è detto che io riesca a dirle tutte). Egli aggiunge poi nomi, “ancor più interessanti”, come Robert Aldrich, Elia Kazan, Nicholas Ray… tipico risvolto dell’appassionato che teme sempre di essere disilluso dal suo idolo, e cerca di dimenticare. In realtà a quasi cinquanta anni di distanza ci rendiamo conto che i valori su cui era costruito il composto mondo poetico, umano, sociale e in certo modo politico, di Ford erano meno precari di quanto Tullio non avesse allora la sensazione, credo fuggevole, di proclamare. E che ognuno degli autori da lui citati – alcuni dei quali, si badi, da Brooks a Mankiewicz, da Zinneman a Wise, sono carissimi al mio cuore - ha poi finito con l’atteggiarsi al suo fianco come in uno stemma nobiliare, in qualche modo completando e integrando, ma non smentendo, la sua grande lezione narrativa.
Non è possibile analizzare qui minutamente il testo in cui, comunque, di fronte alle numerose riserve su questa o quella parte del grande corpus fordiano, si avverte la passione di Kezich per un’opera che ha comunque profondamente influenzato alcune generazioni ed ha modellato il loro intero atteggiamento verso il western. E non solo.
L’analisi della trama di “Ombre rosse” costituisce la parte iniziale (20 pagine effettive) dell’utile volumetto, prima ricordato, della padovana Radar dedicata al film ed al regista, mentre la seconda parte (21 pagine) è costituita da un altrettanto utile capitoletto intitolato “Capire il film” e seguito infine da 11 pagine dedicate al regista. Oltre che da finali dati filmografici, bibliografici, eccetera. Direi che si tratta di un’ operetta, quasi dimenticata e tuttavia utilissima per valutare esattamente Ford ed insieme a lui Tullio Kezich come appassionato di cinema e di western. Chi è del mestiere e sa che una delle cose più difficili della critica cinematografica è in realtà l’esatto, minuzioso (e insieme il più possibile stringato) riassunto della trama di un film, troverà nella parte iniziale un’utile lezione di tecnica. C’è tutto l’utile e l’indispensabile. E di più, anche. Si pensi allo scrupolo di Tullio che indica nella colonna sonora anche i prevalenti momenti musicali. All’inizio quando compare la diligenza - precisa Tullio: è del tipo Concord della Overland Stage Lines gestita dalla famosa Wells Fargo, che, aggiungo io, esiste tuttora – la canzone che l’accompagna, e per tutto il viaggio, è “Trail To Mexico”. Quando Doc e Dallas (Thomas Mitchell e Claire Trevor) vengono pubblicamente scacciati dal paese la musica li accompagna ironicamente al suono dell’inno religioso “Shall We Gather at the River ?” (Ci riuniremo sul fiume ?). Ad Apache Wells, dove la diligenza fa tappa –i soldati se ne sono andati –il capo stabbio Chris (Chris Pin Martin) ha una moglie Chiricaua, Yakima (Elvira Rios), che canterà una canzone messicana. Nella parte finale, sotto l’attacco dei pellerossa, quando l’ex-gentiluomo sudista Hatfield (l’impeccabile John Carradine), per impedirle di cadere viva nelle mani degli “indiani”, sta per uccidere Lucy Mallory (Louise Platt), figlia del suo ex-comandante di reggimento, ecco udirsi un lontano clangore:….” Sentite, è la tromba dei soldati che suona la carica…” e da quel momento la colonna sonora darà largo spazio al “vecchio inno nordista The Battle Cry of Freedom (Il grido di battaglia della Libertà ) di George Frederick Root” . Ovviamente la parte più sottile è la seconda, “Capire il film” ove “Stagecoach” viene scomposto e analizzato nella sue componenti stilistiche e narrative (sia detto incidentalmente, nessuno fa mai cenno della tradizionale, quieta povertà dei titoli originali americani: confrontate questo, estremamente riduttivo, del film di Ford con la drammaticità cromatico-etnica di quello italiano o la retorica approssimazione del titolo francese, “la Chevauchée fantastique”, e il raffronto diventa esplosivo). Fra le mille notazioni del testo vi è, a riprova delle inquieta curiosità di Tullio, un richiamo del famoso romanzo di Budd Schulberg “Dove corri Sammy ?” (1941) ove un tipico personaggio hollywoodiano dice….”Conosco un tale che, solo pochi giorni fa, ha ricavato una bella sommetta di denaro da una novella di Maupassant. E tutto il disturbo che ha dovuto prendersi è stato di trasformare un cocchio francese in una diligenza del Far West”. Come si vede l’antica teoria che lo sceneggiatore Ernest Haycox avesse preso ispirazione e personaggi da “Boule de suif” di Maupassant si ripresenta puntuale. Qui non ho spazio per un dettagliato confronto dei testi. Mi limito a ricordare che chi voglia farlo per conto proprio e disponga di un computer, è sufficiente che batta i due titoli – “Stage to Lordsburg” e “Boule de suif” –e potrà disporre dei due originali, nelle rispettive lingue e mi sembra di capire liberi da diritti.
Lasciamo stare “Stagecoach” e lo stesso Ford – da cui, in fondo, nè Tullio nè io riusciamo mai completamente a prescindere- e passiamo al tema più ampio del western. Anzi del “western maggiorenne” come si intitolava un suo libro pubblicato verso la fine del 1953 dall’ editore triestino, Floriano Zigiotti. Il titolo – tratto da un articolo premonitore dello stesso Tullio, apparso in “Cinema”, nuova serie, del 15 luglio 1950- è diventato rapidamente il simbolo stesso di un nuovo modo postbellico di considerare all’epoca il western; più sottile, articolato, storiograficamente e sociologicamente consapevole quale si affacciò allora nel cammino della critica italiana più attenta e che in quegli stessi anni ‘50 trovò eco mondiale grazie alla critica francese, da Andrè Bazin a Jean Mitry. In realtà è una antologia, dove il curatore Kezich firma un brano (ovviamente su John Ford) e ne sigla un altro, “Parata d’eroi”, divertito riassunto di tutte le grandi e semigrandi figure che abbiamo imparato a conoscere nei film, da Buffalo Bill a Billy the Kid, dal generale Custer a Calamity Jane, da Wild Bill Hicock a Wyatt Earp e via variando; personaggi rutilanti, spesso strappati al mito e ricollocati nella storia. Ma ove tutto il resto è opera di collaboratori, sovente di gran valore, da Renzo Renzi al fedele Callisto, da Giulio Cesare Castello a Oreste del Buono e Roberto Leydi sino al prezioso e ormai dimenticatissimo Tino Ranieri, il terzo triestino del gruppo.
Libro d’epoca in molte parti assai utile anche oggi, così come lo è “Il mito del Far West” inizialmente apparso da Bulzoni nel 1975 (prefazione del 22 settembre 1974) all’interno di una collana diretta da un grande nome d’epoca, Luigi Chiarini “affettuoso promotore del libro” (dal 1963 al 1968 Chiarini fu direttore della Mostra di Venezia, con Tullio membro della Commissione di Selezione). Costituito da una antologia di scritti di Kezich in buona parte editi, di cui naturalmente è indicata l’origine, - il capitolo “L’epopea e la pietà” è addirittura l’ampliamento del libretto di Guanda su Ford di cui ho parlato prima - e in piccola parte inediti, è stato poi ripubblicato dal Formichiere nel 1980, con una prefazione da Asiago del 3 gennaio. E’ una edizione ovviamente ampliata con materiale tratto dalla “Settimana Incom”, dalla “Repubblica” e da quello preparato per l’Ufficio Stampa Rai in occasione di cicli di film western trasmessi a cura di Kezich su Raidue sino al 1980. Vale a dire l’anno prima che io passassi alla seconda Rete proprio come capostruttura di tutta la fiction d’acquisto in seguito alle richieste dell’allora Direttore Pio De Berti Gambini, polesano cresciuto a Trieste che quando era a Milano aveva aiutato “Tullietto”, come lo chiamava, a farsi assumere in Rai .Il mondo è piccolo.
Per concludere l’amplissimo discorso su Kezich e il western - che esigerebbe un libro intero - ancora due notazioni. L’una che riguarda il complesso rapporto quasi doloroso con lo “spaghetti” western: tutta la nostra generazione fu, almeno inizialmente, ulcerata dall’idea che il genere prediletto venisse traumaticamente strappato alla sua nativa matrice e ferocemente trapiantato in un mercenario utero germanico-italo-spagnolo. Costretto pertanto a scegliere, cosa praticamente impossibile, fra analisi e recensioni sul tema disseminate da Tullio nel corso di una sessantennale carriera professionale, mi limiterò a citare due piccoli frammenti. Un pezzo mirabile del 31 agosto 2007, “La faccia americana di Sergio Leone” (Corriere della Sera - Il Lido di Kezich) in cui vien fuori un affettuoso ritratto del regista - per la verità persona di grande simpatia, sono stato due volte in Giuria con lui e so di che cosa parlo - ed una ferma condanna del cinema che questi aveva generato (“…devo confessare che i suoi film non mi sono mai piaciuti in quanto prevedevo che tagliando il cordone ombelicale con la storia della Frontiera, enfatizzando il manierismo, e aumentando la violenza avrebbero ammazzato un filone glorioso. Il che accadde puntualmente..”). E la divertente intervista a Tullio pubblicata il 24 settembre 2007 in internet da “Grandi e associati” in cui si ricorda la scelta dei 28 film della sua vita, elencati a”N’demo in cine” di Lindau a cura di Toffetti. Fra molti titoli famosissimi ve ne è anche uno inatteso e cioè “L’ispiratrice” (The Great Man’s Lady, 1942) di un regista che tutti abbiamo amato, William A. Wellman, ma che qui figura perché è il primo film recensito da Tullio, il 2 agosto 1946, ai microfoni di Radio Trieste. Si svolge, è vero, nel West ma involontariamente ribadisce la fedeltà ai miti di Kezich, uomo di confini tornato alle radici della sua triestinità diventando commediografo dialettale in età adulta.
Un destino complesso che sembra quasi di indovinare, sotto un fez d’epoca, nella faccia volitiva del riluttante balilla Kezich pubblicata nella copertina del “Campeggio di Duttigliano”. E’ “Tullietto” che da una Frontiera guarda un’altra Frontiera………

25 luglio 2008

GASSMAN e RISI coppia insuperabile - video

VINCENZONI spiegato al popolo - video

Precisazioni su due Festival

Alla fine di giugno e nella prima settimana di luglio 2008 erano previsti due miei interventi al GENOVA FILM FESTIVAL ove sono da anni il presidente del Comitato dei Garanti. L’uno per la serata inaugurale, con l’omaggio abituale a Gassman e qui anche a Dino Risi, grazie alla copia, restaurata dalla cineteca Nazionale, di “Anima persa”. E l’altro con la mia presentazione, alla presenza dell’autore, Claudio Costa, del divertente documentario-confessione di Luciano Vincenzoni intitolato “Il falso bugiardo”.

Egualmente erano previsti due miei interventi alla XII edizione di “Voci nell’ombra” (ora “Voci a Sanremo”), di cui sono il direttore artistico sin dagli inizi. L’uno per il  decimo anniversario del fortunato dizionario di cinema “Il Morandini” alla presenza dell’amico Morando, membro da sempre della giuria del Festival. E l’altro per la tradizionale serata di chiusura del Festival stesso, con la nutrita consegna dei premi ai protagonisti  del doppiaggio italiano. Per motivi di salute temevo di non riuscire a partecipare ad entrambe le manifestazioni. Pertanto, con la operosa complicità di Lorenzo Doretti (senza il quale questo Blog non esisterebbe) ho girato quattro interventi in DVD da proiettare, due a Genova e due a Sanremo. Poi sono riuscito ad essere presente a Genova, mentre non me la sono sentita di andare a Sanremo. Dove, appunto, i due contributi video sono stati messi in onda, contrariamente a quelli di Genova.

Ho pensato di inserirli tutti e quattro nel Blog con queste ovvie righe di introduzione.

Divertitevi, se potete.     

13 luglio 2008


ORFEO

I NUOVI MOSTRI
di Mario Monicelli, Dino Risi, Ettore Scola

Italia - Colore

Anno
: 1977 – Sogg. e Scenegg.: Age e Scarpelli, Ruggero Maccari, Bernardino Zapponi Foto: Tonino Delli Colli – Scenogr.: Luciano Ricceri – Mus.: Armando Trovajoli –– Episodi: “L’uccellino della Val Brembana” (Ugo Tognazzi, Orietta Berti), “Con i saluti degli amici” (Gianfranco Barra), “Tantum Ergo” (Vittorio Gassman, Luigi Diberti), “Autostop” (Ornella Muti, Eros Pagni), “First Aid” (Alberto Sordi), “Hostaria!” (Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi), “Pornodiva” (Eros Pagni), “Come una regina” (Alberto Sordi), “Cittadino esemplare” (Vittorio Gassman), “Mammina Mammone” (Ugo Tognazzi, Nerina Montagnani), “Sequestro di persona” (Vittorio Gassman), “Senza parole” (Ornella Muti, Yorgo Voyagis), “Elogio funebre” (Alberto Sordi) - Prod.ne: Dean Film – Distr.ne: Titanus.

(c.g.f.) – Venuto a 14 anni di distanza da “I mostri” di Dino Risi, questi “Nuovi mostri” filmati a tre mani e scritti a quattro (è possibile, praticamente, in via ufficiale chi ha diretto e chi ha scritto uno per uno i quattordici episodi che lo compongono; anche perché si tratta, come dire, di un’opera di beneficenza, a favore di un uomo di cinema in cattive condizioni) appare meno compatta stilisticamente e meno articolata di quel primo tentativo di ritratti ironici d’epoca. “I mostri” è stato riproposto in televisione questa estate, si ricorderà, dalla Rete 1, in occasione del ciclo dedicato ad Age e Scarpelli, ed in buona parte ha dimostrato di saper reggere all’usura del tempo, pur con tutte le crepe che il cinema “brillante” accusa quando i tempi cambiano e cambia il contesto sociale. Questa nuova edizione della formula accusa a petto della prima la maggior varietà di presenze (là Gassman e Tognazzi, sempre da soli o insieme; qui Tognazzi, Sordi e Gassman e in più tre episodi senza i mattatori). Le intenzioni sono sempre quelle, ma la “tonalità” complessiva è ben diversa, tanto appare ampio il divario fra “sketch”. Chi fa la parte del leone è l’assente dell’altra volta. E cioè Alberto Sordi. Il quale non sbaglia mai un episodio breve. Qui, nel ruolo di un principe romano intronato, alcolizzato e cocainomane, che mentre si dirige ad un raduno di amici di monsignor Lefebvre trova un automobilista agonizzante sotto il monumento a Garibaldi (lui dice “a Mussolini”) del Gianicolo, lo porta in giro per tutti gli ospedali di Roma, che puntualmente gli chiudono la porta in faccia e alla fine, morto, lo ricolloca dove lo ha trovato, Sordi trova momenti di divertimento forse rozzo, ma certo irresistibile. Così nella ferocia di “Come una regina”, laddove egli, fra mille menzogne e svenevolezze, conduce in un ospizio la vecchia madre che è antipatica alla nuora, e nel finale “Elogio funebre” che si risolve in uno straordinario numero di varietà all’antica intorno ad una bara. E il suo talento conservatissimo di mattatore senza eguali della commedia cinematografica post-bellica.
Sempre di classe, ma visibilmente distratto, Vittorio Gassman. Che pure in due episodi – “Cittadino esemplare”, ove nei panni di un borghesuccio vile deve uccidere un uomo per strada, non dice nulla, e si precipita in casa dinanzi alla TV, a mangiare avidamente ed a godere di una sciapa comicità alla Pippo Franco; “Sequestro di persona cara”, ove piange sul rapimento della moglie dinanzi alle telecamere, dopo aver prudentemente tagliato il filo del telefono dal quale dovrebbero farsi vivi i rapitori – dà prova della sua maestria di attore padrone dei suoi mezzi vocali, e che in “Tantum Ergo” si diverte, pur con un inattendibile accento toscano, a schizzare una figura di cardinale con conciliare. Meno attendibile, in tutte le sue apparizioni, Tognazzi, alle prese con episodi mal costruiti (“L’uccellino della Val Brembana” e “Mammina Mammone”) o in qualche modo sprecati (“Hostaria!” a fianco di Vittorio Gassman). Degli altri episodi senza mattatore, l’unico accettabile è il muto e beffardo “Senza parole”, con Ornella Muti “hostess” ingenua e Yorgo Voyagis terrorista seduttore che non parla.
Complessivamente un film più che deludente, per chi si aspettava un “collage” degli umori del cinema comico all’italiana dei nostri giorni; e pure, in certo modo, anche e proprio nei suoi difetti, estremamente significativa.

(“Corriere Mercantile”, 27/12/1977)