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L'audio e i video © del Blog sono realizzati, curati e perfezionati da Lorenzo Doretti, che ha anche progettato l'intera collocazione.
L'aggiornamento è stato curato puntualmente in passato da diverse collaboratrici ed attualmente, con la stessa puntualità e competenza, se ne occupano Laura M. Sparacello ed Elisa Sori.

31 marzo 2008

Comunicato di Italo Moscati su trasmissione radiofonica

MA COM’ERA IL ’68?
Testi e regia di Italo Moscati

Otto puntate in onda su Radio1Rai da sabato 19 aprile alle 13.20

“Ma com’era il ’68?” è la domanda che Italo Moscati, autore del programma per Radio1Rai, da sabato 19 aprile porrà agli ascoltatori e a se stesso, ma soprattutto agli ascoltatori che in quell’anno c’erano o a quelli che non c’erano e ne hanno sentito parlare in modi diversi.
Nel programma in otto puntate, l’autore intende presentare una serie di risposte non definitive ma capaci di invitare a guardare il ’68 con occhi attenti e disincantati, recuperando notizie, fatti, spunti dimenticati o sottovalutati. E’ andato a scavare nella miniera dei documenti della radio, con qualche ingresso di sonori d’altra provenienza , per ritrovare il senso di quel periodo che continua a interessare.
Ci sarà tutta la radio: dai giornali radio, alle dirette, allo spettacolo, alla musica e alle canzoni, allo sport, al cinema, all’arte. Lo scopo è quello di fare un viaggio su dati, cronache, personaggi, emozioni che sono esistiti e servono a sapere e a capire una svolta perché comunque sia, di una svolta decisiva si è trattato.
Moscati preferisce non anticipare nomi di personaggi o di trasmissioni, con la speranza che essi siano- e lo sono- una sorpresa, una scoperta, a quarant’anni dal ’68.
Ogni dieci anni i massmedia hanno riservato, a quello che unanimemente viene chiamato l’anno della contestazione, un interesse puntuale, pubblicando documenti nuovi e nuove opinioni; tra celebrazioni e puntualizzazioni a volte duramente critiche, alla ricerca di una riflessione distaccata (che però non affiora ancora). Sono cominciati subito, ancora prima dell’inizio dell’anno, i ricordi e le polemiche, i confronti. I giudizi vanno dalla rappresentazione di un anno vissuto da e per “sognatori” di una rivoluzione vittoriosa a quella di un anno in cui sono state poste la basi per sconvolgimenti di cui si pagano le conseguenze. Da un ’68 con l’immaginazione al potere al ’68 che apre la strada alla violenza ideologica e quindi a quella terroristica.
“Ma com’era il ’68?” cercherà una strada diversa senza arrivare a conclusioni, recuperando una delle voci importanti fra i massmedia: quella della radio – la tv aveva appena quattordici anni- e dei suoi racconti spesso illuminanti.

Italo Moscati, scrittore, regista, sceneggiatore. Ha collaborato con Liliana Cavani, Luigi Comencini, Giuliano Montaldo, Pasquale Squitieri, Ugo Gregoretti, Augusto Zucchi. Ha scritto anche per il teatro dieci commedie tutte rappresentate . Per la radio, ha diretto ottanta puntate di “La storia in giallo”,lo sceneggiato in venti puntate “Il ritorno di Belfagor”, le cinque serie di “Alle 8 della sera”, per tre anni ha partecipato a “Hollywood Party”;ha ricevuto il Premio Cinemadamare per la radio. Per la tv, ha fimato come regista e autore numerosi documentari (i più recenti sono “Via Veneto Set”, “Non solo voce- Maria Callas”, “Luciano Pavarotti, l’ultimo tenore?”; il tv movie “Gioco perverso”, i serial “Stelle in fiamme” e “Viziati 1 e 2”, “I Tg della Storia”, “Tv posto di polizia”; gli è stato assegnato il Premio St.Vincent come autore televisivo. Tra i suoi ultimi libri: la trilogia “1967-Tuoni prima del Maggio”, “1969- Un anno bomba”, “1970- Addio Jimi”; e “Anna Magnani”, “Vittorio De Sica”, “Pasolini passione”, “Gioco perverso”, “I Piccoli Mozart”, “Sergio Leone- Quando il cinema era grande”.

27 marzo 2008

La posta di D.O.C. Holliday (8.a. puntata)

- LA POSTA DI D.O.C. HOLLIDAY -
PER TUTTI MA PER MARCO MACHETTI IN PARTICOLARE.Nel numero scorso ho pubblicato la lettera di lettore che mi dava ghiotte informazioni geografiche intese a individuare con la massima approssimazione possibile, grazie alle sue vacanze estive nel Sud della Francia, la zona dove Eric Rohmer ha girato ed ambientato "Racconto d'autunno". Per ragioni di spazio (vi ricordate quando i giornalisti di un tempo scrivevano "Spazio tiranno !!" o anche "Attento, proto!!" per evitare un possibile doppio senso, assegnando d'autorità al proto un compito proprio dei correttori di bozze) per ragioni di spazio, dicevo, ho dovuto scorciare e tagliare la lettera con la mia tipica abilità (tagliare era un lavoro che quando impaginavo nei quotidiani sapevo fare benissimo, e ne ero orgoglioso).Sono stato così bravo che ho lasciato ingegnosamente lo scheletro della lettera ma ho tagliato il nome dell' autore. Complimenti. Lo pubblico ora, a titolo di indennizzo, chiedendogli scusa per questa saggio della mia specifica competenza. Il lettore in questione si chiama Marco Machetti. Ed ora alle altre domande:
Bravissimi! Film D.O.C. continua a pubblicare articoli molto interessanti, perché non pubblicate anche qualche racconto di argomento cinematografico? -
Nadia, Elisa, Giorgia Masetti (??)


Credo di avere già sollevato il problema più di una volta. Intendo il problema della leggibilità delle firme. Sembra una cosa da nulla ed invece, in una rubrica di corrispondenza con i lettori, finisce col diventare decisivo. Ricevere missive manoscritte è sempre piacevole, in un'epoca di fax e di computer (vedi sopra) ove la corrispondenza è spesso magistralmente battuta, senza una sola correzione o un solo errore, ma altrettanto spesso sembra scaturita da una tipografia ministeriale. Le lettere manoscritte - me ne arrivano più di quanto si possa credere; anzi, sono la grande maggioranza - hanno in sé un piacevole sapore d'altri tempi. Alcune rivelano una calligrafia inclinata ed internamente armoniosa, in qualche modo ancora ottocentesca, che fa a pugni con il nostro modo oscillante e "biresco" di scrivere, quale lo si può osservare ormai senza differenza, fra i vecchi ed i giovani (non parlo per me che, bacucco come sono, mi ritrovo ancora una incerta grafia bambinesca, in cui l'unica cosa chiara è la firma). Il problema consiste appunto nel fatto che, generalmente, chi mi scrive a mano scrive tutto in modo leggibile, salvo la firma, che è poi la cosa più importante. Soprattutto se la lettera contiene, come questa, delle lodi sperticate. Costretto a mettere un punto interrogativo dopo la firma, do immediatamente l'impressione di essermi inventato tutto. Ribadisco: non distruggo più le lettere man mano che le pubblico e le conservo, proprio per poter dimostrate in futuro (siamo diventati una nazione di diffidenti) che sono arrivate per davvero e che sono come io le pubblico.
Per quel che concerne la possibilità di pubblicare racconti d'ambiente cinematografico, si tratta senza dubbio di un suggerimento curioso, ed anche invogliante, che io giro subito al direttore Piero Pruzzo. Così, ad occhio e croce, e senza volermi assumere responsabilità che non mi competono, ci sono due motivi che potrebbero impedirlo. L'uno è quello della destinazione fisiologica della rivista, ed anche dello spazio disponibile. L'altro è quello degli eventuali diritti editoriali, che verrebbero ad aumentare considerabilmente i costi. Ma se ciò fosse possibile, perché no….?


Ho letto sui giornali che i cinema stanno andando male. Perché, secondo lei? Brutti film? Biglietti cari? Troppa TV? Grazie in anticipo. Suo Csemiotto (??)

A parte il solito discorso sulla firma ( finirò per farmi prendere per maniaco) le posso dire che, a sentire gli esperti, si è risentito quest 'anno della mancanza dell' "effetto Titanic". Nel complesso c'è stata una diminuzione del 5,3 % degli spettatori rispetto alla stagione precedente. In compenso i film italiani hanno avuto un milione di spettatori in più rispetto al passato, e comunque dal 1993 al 1998 gli spettatori sono cresciuti di 25 milioni, ed in ogni modo la diminuzione di quest' anno viene dopo un "trend" da parecchi anni in ascesa, tanto per usare una di quelle parole che piacciono ai giornalisti, i quali così si illudono di conoscere l'inglese. Questi sono dati che ho attinto da una relazione di Ernesto Di Sarro, presidente dell' ANEC (Associazione Nazionale Esercenti Cinema) e, fra l'altro, produttore di alcuni film di Maurizio Nichetti (lo conobbi proprio quando partecipai a "Ladri di saponette"). Inoltre, sempre secondo questi dati che riguardano il 70% circa del mercato nazionale, se gli spettatori sono complessivamente diminuiti, hanno però scelto di vedere più film: nella stagione precedente i primi dieci film in graduatoria rappresentavano il 43% dell'incasso globale, mentre adesso rappresentano soltanto il 30%.
Questi dati rispondono alle sue domande ?. Probabilmente solo in parte. La mia personale opinione è che il cinema tende a foggiarsi una fisionomia gradevole soprattutto per i giovani e per i giovanissimi, mentre la popolazione europide del mondo industrialmente sviluppato tende ovunque ad invecchiare., Perché i sessantenni, i settantenni - i quali, soprattutto se sono amanti del cinema, hanno memorie fitte ed intense, che cercano di acquietare registrando quel che le reti televisive trasmettono nel cuore della notte - dovrebbero andare a vedere dei film che a volte sembrano concepiti per spettatori che hanno l'età fisica dei loro nipotini e quella mentale dei loro pronipoti? Credo che la risposta, fondamentalmente, si nasconda tutta qua...
(Da "La posta di D.O.C. Holliday", "Film D.O.C.", anno 7, n. 33, Set.-Ott. 1999)

La posta di D.O.C. Holliday (7.a. puntata)

- LA POSTA DI D.O.C. HOLLIDAY -
A TUTTI - Senza indugi o inutili introduzioni, eccovi subito le lettere , alcune delle quali aspettano da molto tempo, e non solo meritano ma esigono la pubblicazione e, se possibile, una risposta.

Gentilissimo dottor Fava, mi piacerebbe sapere cosa pensa del film "Train de vie". Ma non le sembra che meritasse ben più di Benigni la candidatura all'Oscar? Invece non ne parla nessuno. Grazie !!- LUIS GUIDONI, GENOVA

Ne penso sostanzialmente bene, pur con alcune riserve, e l' ho scritto (a lungo) nelle pagine di "Letture", mensile ove ho da alcuni anni una rubrica di cinema. Ci sono state perfino delle polemiche sulla paternità dell'opera, polemiche nelle quali non vorrei entrare, non avendo elementi di sorta per emettere giudizi. Mi limito al film. Che è opera di un regista ebreo, d'origine rumena, presumo naturalizzato francese, Radu Mihaileanu, il quale ha inventato ( è anche autore unico del soggetto e della sceneggiatura) una storiella che si regge con furbizia sulle stampelle di un gusto del paradosso molto "yiddish". Non è infatti un caso che l'autore dell'adattamento italiano sia quel Moni Ovadia che è diventato da qualche anno, nonostante la presumibile origine sefardita (lo deduco dal cognome) il volgarizzatore quasi ufficiale della cultura ebraica askenazita e della sua tipica lingua, appunto l' "yiddish". Che, come è noto, è un idioma derivato, sostanzialmente, nel secolo VIII, dal tedesco parlato, all'epoca, nelle regioni renane. Lingua in cui, su un tessuto germanico antico, vivono evidentemente anche infiltrazioni dell'ebraico, dell' aramaico, perfino delle lingue romanze cui gli ebrei si sono imbattuti durante le loro migrazioni in Europa. (Naturalmente io semplifico in modo estremo, da profano, l'immenso cumulo di ricerche e di polemiche condotte dagli specialisti in materia). Resta il fatto che per secoli gli ebrei cosiddetti "askenaziti" usarono come lingua famigliare e veicolare esclusivamente lo "yiddish", riservando all' ebraico la sola funzione di lingua liturgia e sacrale (un po' come fanno ancor oggi in Israele gli ebrei rigorosamente ortodossi, quelli che si rifiutano di riconoscere il "diabolico" Stato d'Israele). Al punto che all'inizio della seconda guerra mondiale si calcola che fossero ben 11 milioni gli ebrei per cui l'"yiddish", era l'idioma fondamentale e insieme la lingua franca, utilizzato a fianco delle singole lingue delle nazioni dove essi così vivevano (Russia, Polonia, Paesi baltici, Romania, eccetera, differenziandosi dai cosiddetti "sefarditi" di Grecia e dei Balcani che usavano lo spagnolo del XV secolo).
Ora tutta la trovata di base del film è proprio la "scommessa" di un gruppo di ebrei - pressappoco la metà degli abitanti di uno "shtetl", il tipico villaggio askenazita - che fingono di essere soldati tedeschi (sono quelli che meglio riescono a parlare l'affine lingua germanica senza far sentire il tipico accento "yiddish") incaricati di condurre in prigionia i loro "prigionieri" ebrei, vale a dire l'altra metà del villaggio. E' evidente che tutto si regge su un paradosso totalmente inverosimile e da lì viene il divertimento nell' assistere allo sdipanarsi della vicenda e della "gags", alcune assai ingegnose che la animano. Sino alla conclusione che è paradossalmente felice e si rivela poi invece tristemente realistica, smentendo tutto quel che il film ha detto di follemente speranzoso.
Ebbene, si, lo confesso. Il film, almeno a momenti, mi è molto piaciuto e vi ho trovato dentro uno spiritello amarognolo, uno zampillare furbesco e ambiguamente grottesco di antichi umori di ironia ebraica che gli conferiscono una patina rara nel cinema europeo contemporaneo. Il problema è che esso poggia su una convenzione linguistica. Vale a dire che noi lo abbiamo ascoltato in italiano ed è stato girato in francese (si vede addirittura il rabbino che scrive, e scrive in francese perché il pubblico possa leggere !) ma che il fondamento di tutto è l'affinità linguistica fra l'"yiddish" e il tedesco, su cui si regge il paradosso della trovata di base. In sostanza avrebbe dovuto essere girato in "yiddish", il che per mille motivi è ormai praticamente impossibile. A quanto pare la gente lo ha accettato anche così, ed in fondo è piaciuto ad una discreta parte di pubblico. Il successo mondiale e americano film di Benigni (su cui non vorrei aprire una polemica) ha dei meriti, ma è anche frutto di una abile campagna di marketing, come del resto tanti Oscar….

Nel 1998 ci hanno lasciato, per raggiungere più verdi praterie, Roy Rogers e Gene Autrey, eroi di un cinema western marginale, quello dei "Singing Cowboys". Quale ricordo ha di loro? Lei ci ha parlato spesso di cinema western ma non ricordo di avere mai raccolto un suo giudizio sulla musica western (e sull'affine musica country).Potrebbe essere questa l'occasione !! Un saluto con simpatia. RICCARDO POGLIETTINI -CHIAVARI

Vorrei che rispondessero prima i lettori. Se nessuno scriverà, tornerò sull'argomento la prossima volta.

Condenso qui una gentilissima lettera di un lettore che risponde alla signora Bollo a proposito del luogo ove è ambientato "Racconto d' autunno" di Rohmer.

"..Ho trascorso le mie vacanze estive 1998 in Provenza e zone attigue, trovandomi anche nei posti dove il film si svolge. Ciò che rammento è questo: 1) Magali ha la sua casa di campagna a Bourg-St-Andeol, nell'estremo sud del dipartimento dell'Ardéche. 2) Isabelle incontra l'uomo che cerca di far conoscere a Magali, nel paese di Montélimar, a sud del dipartimento della Drôme. Non ricordo se Isabelle abbia il suo negozio e/o viva Montélimar, so che viene inquadrato un cartello stradale di Pont-St-Esprit ma non ricordo le circostanze. Entrambi questi dipartimenti sono le estremità meridionali della regione Rhône-Alpes, e mi sembra quindi che il film si svolga nella zona a cavallo fra l'Ardèche, la Drôme, il Gard (Languedoc-Roussillon) e la Vaucluse (Provence-Alpes- Côte d'Azur)…"

Mi scuso di avere tagliato il resto ma non c'era più spazio. Grazie, caro amico.
(Da "La posta di D.O.C. Holliday", "Film D.O.C.", anno 7, n. 32, Mag.-Ago. 1999)

10 marzo 2008

La posta di D.O.C. Holliday (6.a. puntata)

- LA POSTA DI D.O.C. HOLLIDAY -
A TUTTI - Le lettere incalzano ed ogni altra parola è superflua. Cominciamo subito:
Ma come fate a fare una rivista di cinema con tutti i brutti films che ci sono in giro? Non parliamo dei films italiani, ma anche gli americani non scherzano. Che schifo "Armageddon", "Vampire", "Godzilla", "Dark City", etc.etc. Ma perché non sanno più fare bei films? E' meglio darsi all'ippica. Scrivetelo! - Pasquale Corso, Via Ugo Bassi, 6-Genova

La Sua lettera risale (vedi timbro) al 12 ottobre scorso) il che spiega i riferimenti. Se fosse più recente, avrebbe forse aggiunto altri esempi. E' chiaro che un certo tipo di cinema (vogliam dire parafantascientifico ?) non le piace. Ma forse piace ad altri. Per curiosità sono andato, via Internet, a controllare, un po' a casaccio, recensioni di pubblicazioni americane, di una francese, di una portoghese, sull'ultimo film che lei cita, "Dark City" (non certo quello del 1950, di William Dieterle, che vide l'esordio di Charlton Heston e che in Italia si chiamò, puntualmente, "La città nera" !): E tutte erano piene di rispetto per l'opera, anche quelle ove si formulavano riserve: Come vede, non tutte le opinioni ( per fortuna) debbono fatalmente coincidere. Ma qualche film del passato probabilmente le è piaciuto. Mi scrive qualche titolo ? ( e mi conferma se ho letto bene il suo nome? Lei è uno dei tanti che scrivono a mano, ma in modo comprensibile. Tutto. Salvo la firma). Il suo consiglio di darsi all'ippica suona poi particolarmente crudele in un paese dove l'ippica è costretta a dimostrare per le strade

Caro e gentile Fava, anzitutto complimenti. Ho solo una curiosità da soddisfare. Ho visto l'ultimo Lelouch. Mi pare così così. Ma lei lo giudica un grande, Lelouch, o un bluff ? - Mara Carzino, di Sampierdarena.
Personalmente penso che sia un grande. Ma sono uno dei pochi a pensarla così. Ovunque in Italia, come in Francia come in altri paese, farsi beffe di Lelouch è considerato doveroso parte di persone che poi pigliano sul serio esordienti pieni di petulanza e di vuoti discorsi, o che oppure ci riempiono di discorsi incomprensibili sul garbo, l'humour, la finezza, la geniale intemperanza di sciamannati escursionisti dello schermo come Aldo, Giovanni e Giacomo. Io amo in Lelouch il fisiologico amor di cinema, che lo porta a filmare con estrema e barocca eleganza, con incroci volanti, con gru e "dolly", con camera a mano, con tirannico gusto fisico nell' inseguire immagini da catturare con la macchina da presa. L'ultima volta che gli ho parlato (a Venezia) ritornammo sull'argomento (come è noto lui è il cameraman di se stesso) e Lelouch mi disse che si stupiva degli stupore degli altri. E' giusto che ci sia un direttore di fotografia per calcolare le luci, un'arte sottile e complessa. Ma la ripresa, cioè la scrittura, dovrebbe sempre essere opera del regista. In realtà è l'unico a pensarlo ed uno dei pochi (salvo appunto gli ex.-direttori di fotografia diventati registi) in grado di farlo. E' vero che poi la sua vena di narratore non è sempre all'altezza della sua classe di "filmatore". Ma qui il discorso diventerebbe troppo lungo. (Grazie per il "caro e gentile". Volevo tagliarlo, poi, impudicamente, l'ho lasciato).

Nei films da Lei ricordati nella risposta sui films di guerra, non vedo "Orizzonti di gloria" del grande Kubrick, che è il più contro la guerra di tutti. Perché? Con stima. Amedeo Corso (?), Via Paggi, 3.- Genova

Nella mia risposta a Mario di Nervi citavo film famosi "sulla" guerra ma non, nel fondo, "contro" la guerra". Il film di Spielberg ne è un esempio tipico. Spielberg sa che quello sbarco era necessario per vincere una guerra che avrebbe impedito che potessero in futuro nascere (ed era già un caso fortunatissimo) altre "Schindler's List". Lo stesso "Full Metal Jacket" di Kubrick è un film "sulla" guerra" più che "contro" la guerra. Di cui esplora tutti gli automatici, inevitabili orrori. Contro i quali è necessario andare preparati al meglio. Si veda tutta la parte iniziale, con il feroce addestramento dei "marines" a Parris Island (ingiustamente descritto come una forma di sadismo fine a se stesso) che probabilmente è il solo sistema atto a preparare una persona normale a sopravvivere facendo cose anormali. E cioè ad uccidere, rischiando in pari tempo di essere ucciso. Ben diverso è il discorso per "Orizzonti di gloria", che in senso stretto è invece un film "contro" la guerra. L'assalto al "formicaio" è un mero atto di stupida convenienza e cinica tattica politica. Le fucilazioni dei soldati un crimine. L'ossessione degli assalti ripetuti da trincea a trincea, che dettero origine su tutti i fronti (anche sul nostro, badi, vista l'ostinazione di Cadorna a scatenare le battaglie dell 'Isonzo) ma ancor più su quello francese, a massacri insensati e spesso quasi quotidiani, una delle conseguenze peggiori di una guerra che nessuno riesce, in fondo, a capire veramente perché sia stata combattuta. L'americano Kubrick comprese pienamente i caratteri di una tragedia prevalentemente europea e ce li restituì con grande sapienza e lucidità. E ricordiamoci che non aveva ancora 40 anni ed era solo al suo terzo lungometraggio. (Sa che lei è il secondo Corso di questa puntata? E dire che lo credevo un cognome veneto).

Basta così, lo spazio è quasi finito. Ho molte altre lettere in ballo (fra cui una del chiavarese Riccardo Pogliettini, se ho bene interpretato il cognome) che mi ricorda come siano scomparsi di recente Gene Autry e Roy Rogers, i cosiddetti "Singing Cowboys", e mi invita a far cenno della musica western. Alla prossima puntata e grazie a tutti.
(Da "La posta di D.O.C. Holliday", "Film D.O.C.", anno 7, n. 31, Mar.-Apr. 1999)

La posta di D.O.C. Holliday (5.a. puntata)

- LA POSTA DI D.O.C. HOLLIDAY -
A TUTTI. Le lettere incalzano Ne sbrigo solo due, pregando tutti di pazientare ancora un numero.
Ecco la prima.

Sarei curioso di sapere il suo parere su "Salvate il soldato Ryan". Le pare che sia proprio un film contro la guerra come dicono da più parti ? Mi è grata l'occasione per esternare la mia gioia ogni volta che trovo nei cinema un nuovo numero di "Film D.O.C. E' una rivista "completa" di ghiotte notizie sul cinema, corredata altresì da belle fotografie. Caro "Doc" complimenti per la sua rubrica, che vorrei più lunga, ed agli altri collaboratori (brave le firme femminili) che rendono così "viva" la rivista. Cordialissimi saluti. MARIO di Nervi.
Penso che sia un film "contro" la guerra nella misura in cui lo sono "All'Ovest niente di nuovo" di Lewis Milestone (1931), "La grande illusione" di Jean Renoir (1937), "Bastogne" di William Wellman (1949), "317° Battaglione d'assalto di Pierre Schoendoerffer (1964), "Apocalypse Now" di Francis Ford Coppola (1979) "Il grande uno rosso" di Samuel Fuller (1980), "Full Metal Jacket" di Stanley Kubrick (1987), per non citare "Paisà" di Roberto Rossellini (1946), che è probabilmente il più bel film italiano sulla guerra (o almeno il più ricco di sollecitazioni incrociate), e via ricordando(vi sarebbero tanti altri titoli da fare ma questi servono già da esempio). In sostanza voglio dire che ogni bel film sulla guerra è implicitamente un film "contro" la guerra, nel senso che cerca di mostrare con la maggior sincerità possibile cosa è veramente la guerra (uccisioni, ferite, sofferenze atroci, paure e terrori d'ogni tipo, degenze e convalescenze orribili, mutilazioni ripugnanti, insopportabili agonie di amici, necessità disgustosa di imparare ad uccidere ed a infliggere sofferenze agli altri eccetera). Al tempo stesso alcuni di questi film, ed altri altrettanto nobili, se condannano e deprecano la guerra in generale, dimostrano poi di ritenere che "quella" guerra in particolare finisce con l'avere le sue buone ragioni per esistere. Proprio il film di Spielberg termina con la visita ad un cimitero militare americano in Francia. Lacrime, commozione e poi saluto militare alle "Star and Stripes" che sventolano, così come avrebbe potuto terminare il più "jingoista" dei film americani degli anni' 50 con John Wayne. Se c'è uno "a favore" dell'intervento americano nella seconda guerra mondiale, e quindi sicuramente non contro "quella" guerra, secondo me è sicuramente Spielberg. (Ho lasciato impudicamente i complimenti, che sono, è vero per tutti, ma particolarmente per Piero Pruzzo al quale in larga parte si deve il successo di "Film D.O.C.")

Sono di nuovo io ad importunarla. (….) ho appena visto il bellissimo film di Rohmer "Racconto d'autunno" ma non ho capito che lingua parli quel suonatore durante la festa alla fine. Non mi sembrava vero francese. O storpiava le parole? Le mie amiche dicono chi provenzale chi occitanico, o appunto francese dialettale. Con la massima stima. Sua ANTONIETTA BOLLO.
Innanzi tutto lei non importuna mai. Le sue amiche sostanzialmente hanno ragione. Non si tratta, a rigori, di un dialetto ma di una delle lingue occitaniche che si parlano, o si parlavano un tempo (ormai ridotte al rango di "patois") nel Sud della Francia (grosso modo, semplificando molto, al Nord "langue d'oil", al Sud " "Langue d'oc"). Per semplificare ulteriormente un argomento vastissimo ricordo che -prescindendo da corso, fiammingo, bretone, catalano,dialetto alsaziano, eccetera- in Francia ci troviamo in presenza di tre grandi gruppi linguistici. Il francese, il provenzale ed il franco provenzale. Il provenzale(da alcuni definito occitano), si divide in tre grandi gruppi: occitano del nord, medio-occitano e guascone, a loro volta divisi ulteriormente in gruppi e sottogruppi.,che occupano buona parte del Sud della Francia e che qui non ho spazio per citare. Il franco-provenzale, infine, che partecipa e del provenzale e del francese, si spinge anche all'estero, arrivando sino alla svizzera romanda ed alla Valle d'Aosta. Il problema ora è che non riesco (so di possedere l'informazione ma non ricordo dove) a situare esattamente sulla carta la zona dove il delicatissimo film di Rohmer si svolge, per poter così risalire alla presumibile origine del testo. Ho l'intenzione di fare delle ricerche. E ne riferirò in questa rubrica.
(Da "La posta di D.O.C. Holliday", "Film D.O.C.", anno 7, n. 30, Gen.-Feb. 1999)

Il buon pastore e la verità

Confesso che ho aspettato con impazienza questo film –ambientato in un momento cruciale della storia della C.I.A. e diretto da Robert De Niro alla sua seconda prestazione come regista dopo “Bronx” del 1993 - un po’ come accadeva da ragazzi quando il cinema era uno sconfinato appetito perenne, difficilmente saziabile (la vecchiaia toglie poi l’appetito, in tutti i sensi). Mediocre titolo italiano: “L’ombra del potere”. Parallelo titolo originale: “The Good Sheperd” (letteralmente “Il buon pastore”). Molto più giustificato perché tratto dal Vangelo di Giovanni (10, 11.14-16) che, riassunto, dice “Io sono il buon pastore (…) conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me (…) e offro la vita per le pecore. Ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge con un solo pastore”. Il film rievoca - un appassionato di spy-stories vi ritrova mille filamenti di verità- tanti anni dello spionaggio americano. Dove la vocazione evangelico – protestante della citazione del Vangelo ribadisce la radice culturale da cui la C.I.A. prende le mosse: ovvero le grandi, antiche università della cosiddetta Ivy League (Brown, Columbia, Cornell, Darmouth, Harvard, Pennsylvania, Princeton e Yale), ora rigorosamente non confessionali ma fondate fra il XVII e il XVIII secolo proprio in funzione di confessioni protestanti varie. In esse, nel corso delle generazioni, si sono consolidate tradizioni quasi massoniche nella loro formulazione “segreta”. Particolarmente a Yale, nella snobbissima e macabra Associazione “Skull and Bones” , (letteralmente “Teschio e ossa”). Esiste ancora e ne hanno fatto parte moltissimi membri della classe dirigente “Wasp”, fra cui i due presidenti Bush (George e il figlio George W.) nonché il contendente di quest’ultimo, John Kerry (che però, contrariamente alle tradizioni dell’ambiente Yale, è un cattolico, si dice di lontana origine ebrea). Dunque, a Yale fra le gelide file protettrici dei “Bonsmen” inizia il suo cauto e spietato cammino nel mondo dei segreti il giovane Edward Wilson. Che rapidamente viene avviato nel primo spionaggio americano dopo le opportune segnalazioni nel giro che conta (adocchiato da un ambiguo professore inglese, che ritroverà come ancor più ambiguo insegnante di materie spionistiche) grazie a “Wild Bill” Donovan- qui uno splendido cameo di De Niro col nome di generale Sullivan- personaggio romanzesco ma in realtà veramente esistito. Fu l’uomo di Roosevelt nel mondo dei segreti, a capo dell’OSS (Office of Strategic Service) fondato ancor prima di Pearl Harbour l’11 luglio 1941 (dice Sullivan:“Niente negri, niente ebrei, pochi cattolici, giusto perché io sono cattolico”). Da cui, dopo un iniziale pausa postbellica, nacque, il 26 luglio 1947, la Central Intelligence Agency, la CIA (conosciuta nel mondo dei Servizi, come “The Agency”, “The Company”, “The Corporation”). Il cui motto è, ancora una volta, tratto dal Vangelo di Giovanni (8.32: “e conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi”). Wilson è un autentico patriota anglosassone americano, che rinuncia alle amatissime lettere per meglio difendere la patria e impara i rudimenti dello spionaggio dagli inglesi durante la guerra (fra gli insegnanti c’è anche un personaggio ispirato a “Kim” Philby, il futuro supertraditore). E poi, spegnendo via via ogni scrupolo, sempre più lontano da casa, nella CIA prosegue il cammino sino a vivere in persona i tragici errori dello sbarco nella Baia dei Porci a Cuba. Che il film rievoca grazie a uno dei molti flash-back ove si snoda una complicatissima trama personale e collettiva destinata ad aumentare l’ossessione personale del protagonista (che riassume due personaggi veri della storia dell’Agency, James Jesus Angleton e Richard M.Bissell. tormentati da insuccessi e da passioni professionali fumose e ossessive).Splendidamente diretto,sceneggiato da Eric Roth con dedizione ma forse anche con un eccesso di variazioni narrative, il film è magnificamente interpretato (per brevità cito solo il convincente Wilson, di Matt Damon cupo, solitario, via via sempre più maniacale) ed è la dimostrazione che il talento di De Niro regista, eguaglia quello dell’attore, da più di trent’anni al centro di innumerevoli opere.
(da "Clandestino in Galleria", "Emme - Modena Mondo", n. 15 del 2 Maggio 2007)

I mille colori del nero

Nei giornali (almeno ai miei tempi) si imparava ad obbedire al Direttore, e a quella scuola son rimasto fedele. Pertanto per prima cosa ho chiesto a Pier (Luigi Ronchetti) il permesso di dedicare il mio spazio settimanale ad un libro, appena uscito, e non ad un film o ad una variazione su uno o più film. L’ho ottenuto ed ecco qui il risultato. Il libro è “L’età del noir” (Piccola Biblioteca Einaudi, € 22) e l’autore è Renato Venturelli, ben conosciuto dagli appassionati. Ha già pubblicato diversi testi spesso su temi – in senso stretto o lato – affini: il cinema horror in cento film, il film gangster in cento film, cinema e generi, perfino un ritratto di Arnold Schwarzenhegger con un divertente sottotitolo “…la carriera esemplare di un uomo macchina venuto dal futuro…”. Nel caso del libro che qui ci interessa il sottotitolo è “Ombre, incubi e delitti nel cinema americano, 1940-60” e riassume i temi fondamentali dell’opera. Ovvero un viaggio appassionato nei film che per la mia generazione rappresentarono, in certo senso, la vera e propria introduzione al cinema da amare senza riserve. Vale a dire quei film americani cupamente e scioltamente polizieschi, quei thriller, quei mistery,quegli hard-boiled (uso una terminologia che era ignota a noi adolescenti) destinati a lasciare una traccia decisiva nella cultura americana, ma soprattutto in quella europea dell’epoca. Il termine stesso di “film noir”, rigorosamente in francese, esiste perchè di fatto contribuirono alla sua creazione, in due articoli, due critici francesi d’epoca: “Un nouveau genre policier: l’aventure criminelle” di Nino Frank (L’Ecran français”, 28 agosto 1946) e “Les américains aussi font des film noirs” di Jean-Pierre Charter (La Revue du Cinéma , novembre 1946). Se la cosa può interessare i patrioti, ricordo che Nino Frank, di origine composita, nato a Barletta e rimasto sempre in possesso di un fluente italiano, svolse la sua attività in Francia da poeta, scrittore e traduttore dal francese.
Il “noir” indigeno - anch’esso a suo modo “nero” per la cupezza e la voluta tristezza con cui veniva foggiato - era il cinema francese che aveva prodotto film come “Il porto delle nebbie” e “Hôtel du Nord”. Ma nel confronto non poteva che essere sconfitto dal ben più scuro “noir” americano (il colore nero, come accadde da noi con il giallo della Mondadori, divenne sinonimo di genere, al punto che Marcel Duhamel per Gallimard, chiamò “Série noire “ la più famosa collana poliziesca di Francia, inizialmente alimentata da romanzi americani). Non è un caso, ricorda Venturelli, che i primi film della nuova tendenza indicati da Nino Frank fossero “Il mistero del falco” (1941) di John Huston, da Dashiell Hammet, “La fiamma del peccato” (1944) di Billy Wilder ,da James M.Cain, “Vertigine” (1944) di Otto Preminger, da Vera Caspary, e “L’ombra del passato” (1944) di Edward Dmytryk da Raymond Chandler. (non a caso su quattro registi due sono immigrati austro-tedeschi).Come si vede tutti nomi ghiotti di scrittori e di autori,, che mi fanno affacciare sulla tentante prateria sterminata dei titoli di film evocati ed analizzati da Venturelli. Ma poiché sono almeno 700 rinuncio qui ad altre citazioni specifiche, ricordando solo quale è la struttura portante alla base della vastissima ricerca dell’autore: una prima parte di introduzione che prevede un’ analisi dei corpi, del linguaggio e di temi fondamentali. Il capitolo “Alle origini del noir”, da Orson Welles ad Humphrey Bogart. Un ampio capitolo sugli “Anni dell’incubo” dal 1940 al 1946. E poi via via il dopoguerra, il melodramma noir, l’apogeo del noir, gli anni ’50 sino alla “Deflagrazione del noir”, anni ‘50/’60. La documentazione e la bibliografia (riviste comprese) sono all’altezza del resto, 500 fittissime pagine
Un documento d’epoca scritto con passione e competenza, entrambe fuori dal comune da un ”giovanotto” che non può sapere quale fu la mia emozione vedendo, all’epoca, al cinema i titoli di testa de “I gangster” di Siodmak con la scritta: “ E per la prima volta sullo schermo, nei panni dello Svedese, Burt Lancaster”. Avevo 18 anni…..

(da "Clandestino in Galleria", "Emme - Modena Mondo", n. 45 del 12 Dicembre 2007)