Blog - Crediti


L'audio e i video © del Blog sono realizzati, curati e perfezionati da Lorenzo Doretti, che ha anche progettato l'intera collocazione.
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20 giugno 2014

Comunque mi sta antipatica Yoko Ono

Vorrei presentare ai lettori del Blog un'intervista a Claudio G. Fava realizzata dal genovese Filippo Casaccia.
L'intervista è praticamente inedita ed è stata realizzata 16 anni fa quando Casaccia, neolaureato in architettura, era ancora in bilico tra le scelte esistenziali/professionali delle propria vita: diviso tra la passione per il cinema e altre strade (nel 2003 esce "Fame chimica" un film scritto da lui).
Ora Casaccia vive e lavora a Milano, ed è autore televisivo da molti anni per Le Iene. Casaccia nella sua email ricorda con molto affetto Claudio, raccontando di come, dopo la loro conoscenza, si fossero scritti più volte e di come Claudio lo avesse seguito e consigliato nel difficile mondo della televisione. Alcuni giorni fa mi ha spedito via email questa bella e lunga intervista autorizzandomi, nel contempo, a pubblicarla sul Blog. 
La propongo integralmente qui sotto.
Buona lettura a tutti
Lorenzo Doretti


Comunque mi sta antipatica Yoko Ono

Intervista a Claudio G. Fava, Genova, 18-11-98


Prima dell’intervista il dott. Fava vuole che mi sinceri del funzionamento del registratore: gli è già capitato di rilasciare interviste a microfoni poi scoperti spenti o non funzionanti. È molto gentile e prodigo di aneddoti e gli piace inseguire i ricordi. Parla spedito, ricco di humour e compiaciuto di pronunciare i nomi stranieri con accento impeccabile; le derive aneddotiche si susseguono senza tregua: ascoltarlo è uno spasso, la trascrizione sarà difficoltosa ma sicuramente soddisfacente.

Quando nasce la passione per il cinema?
Credo che nessuno possa rispondere con esattezza ad una domanda come questa. I film visti da bambino, prima della guerra, hanno un sapore favoloso. La mia istitutrice mi portava a vedere i film con Shirley Temple, per esempio: molti anni dopo ho fatto un ciclo alla Rai che fu un grande successo, come ho fatto per Diana Darbin, per cui ho ricordi vaghi ma perentori di quel periodo. Ricordo che mi fece molta impressione un film di Romolo Marcellini che si chiamava Sentinelle di bronzo ed era dedicato ai Dubat, i soldati coloniali che avevamo in Somalia, dalla parola Dub Hat, berretto bianco. Poi, durante la guerra, facevo la scuola media e durante il periodo di sfollamento andai ad Arezzo sei mesi. Stasera niente di nuovo con Carlo Ninchi e Alida Valli mi piacque molto. È chiaro che quella è un’età in cui tutto quello che si vede si assorbe come un terreno arido, come con i libri. Non c’era la possibilità di vedere i film in televisione o in vhs come un adolescente di oggi. Nel ’45, con l’arrivo degli Alleati, ricordo ancora l’emozione, da sfollato a Novi Ligure, di vedere i film distribuiti dal PWB, Psychological Warfare Branch, la sezione dell’esercito americano che si occupava della guerra psicologica, che si curava della propaganda. Fu grazie al PWB che vidi in quell’estate del ’45 i miei primi film sottotitolati. L’emozione di sentire Charles Boyer che diceva con accento francese “Togethèr, togethèr” ne La porta d’oro… film modestissimo, ma era emozionante vedere un film in originale, da questa enorme riserva di film americani che praticamente si erano “intasati” per colpa della guerra e poi sono stati gettati sul mercato tutti assieme. Non so quanti film con George Brent, attore scadente che aveva fatto una moltitudine di film: arrivarono puntualmente tutti (ride). Dopodiché ci fu il dopoguerra e i miei anni del liceo, a Genova. Sono anni indimenticabili: abitavo in via XX Settembre e lì, praticamente, si trovavano tutti i cinema. A parte il Grattacielo, che era a cento metri. Sono gli anni in cui si scoprì tutto: Bogart, Il grande sonno, tutto il thriller americano… L’emozione, un sabato alle 14 al cinema Universale, aspettando La signora nel lago di Montgomery e parlando con un signore anch’egli in attesa. Il film era tutto in soggettiva e c’era una certa curiosità. Quel tipo diceva: “Io i film me li mangio, me li mangio” (ride). Furono anche quelli gli anni del Film Club, che aveva sede in salita Santa Caterina ed era stato fondato da persone che o non sono più vive o non sono più a Genova, per esempio Enrico Rossetti, vivente, che andò a lavorare a Roma poco dopo come giornalista e poi fu caporedattore de L’Espresso, oppure Renzo Marignano che poi andò a Roma per lavorare nel cinema ed è morto qualche anno fa. Il Film Club aveva le caratteristiche tipiche del cineclub del dopoguerra: le proiezioni avvenivano al Postelegrafonico che era un piccolo cinema che adesso non esiste più, di fianco alla Borsa, nel Palazzo delle Poste. Il Postelegrafonico, poi negli anni Sessanta ebbe quasi una caratteristica da cinema d’essai. E’ difficile spiegare cosa fosse il mondo prima della televisione… è un po’ come la frase di Talleyrand che Bertolucci scelse per Prima della rivoluzione: chi non ha vissuto prima della rivoluzione non sa cos’è la dolcezza di vivere; e potremmo quasi dire che chi non ha vissuto prima della televisione non sa cos’è la dolcezza di vivere. Le immagini erano “fisse”, si vendevano tanti fumetti e poi fotoromanzi, ma se volevi vedere immagini in movimento dovevi andare al cinematografo. E i cinema avevano una loro “psicologia”, una loro caratteristica… L’Astor aveva una clientela medio-borghese, professionisti con la moglie, e faceva certi film, le commedie sofisticate americane per esempio. Ricordo lo sconcerto quando diedero L’anno scorso a Marienbad con la gente che usciva dal cinema con gli occhi fuori dalle orbite. Non era certo il film che questa gente cresciuta con la MGM si aspettava. L’Universale aveva un’altra psicologia, era una sala enorme - e le tre sale di oggi danno una pallida idea di cosa fosse allora. E così via e probabilmente era così anche nelle altre città: un cinema, una clientela, un pubblico, un tipo di film. Sempre all’Astor, più recentemente, ricordo lo sconcerto e la rabbia alla prima di Dillinger è morto. La sala era incongruamente popolata da un pubblico che all’Astor non veniva mai: ragazzotti con giacche di pelle tipo Fronte del porto, andati lì persuasi di vedere un film di gangster. C’era una scena in cui Piccoli puliva una rivoltella, lentamente: la sala esplose di fischi: una rabbia balistica, direi (ride).
Oggi la psicologia della sala e del pubblico non esiste più…
È venuta a mancare l’architettura classista, diciamo così, della somministrazione del cinema: c’erano sale di prima visione, la prosecuzione di prima visione, la seconda visione, la terza visione, le sale che facevano repertorio. A Genova c’era il Cinque Maggio, che dava un film diverso ogni giorno, 365 film all’anno, praticamente a caso. Bisognava tenerlo d’occhio: un giorno Quarto potere, un giorno un film greco, un altro ancora un western di serie C. Si trovava in via Pré… o meglio: era l’unico cinema, a mia conoscenza, con due ingressi distinti e due diverse biglietterie. Una in via Balbi e una in via Pré: un budello di cunicoli portava alla sala!
Torniamo al dopoguerra…
Penso che per ognuno è decisivo, in modo molto ampio, il cinema che si vede tra i dieci e i vent’anni. È chiaro che per me, essendo nato nel ’29, dovrebbe essere tra il ’39 e il ’49. Ma teniamo conto della guerra: vicino a Novi Ligure, sfollato, film non ne vedevo se non andando qualche volta a Novi, al cinema Iris. Credo esista ancora. Gli anni dal ’45 al ’49 sono stati quelli decisivi. Ho perfino pagato dei debiti d’adolescenza quando ho lavorato in Rai: tanto per fare degli esempi, ho fatto programmare e ridoppiare, perché il doppiaggio dell’epoca era sparito, film come Il grande sonno, Acque del sud, I migliori anni della nostra vita e moltissimi altri.
E gli italiani?
Provai una grande emozione con Roma città aperta e con Paisà, anche perché Paisà è un film crescente di valore, ogni episodio è migliore di quello precedente, risalendo l’Italia. La Sicilia, Napoli, episodi di livello, intendiamoci, ma commisti. Poi Firenze, i frati e infine il Polesine, strepitoso. Ricordo Gioventù perduta di Germi…
Si capiva l’importanza di quel cinema?
Forse qualcuno più anziano di me… ma non credo, sai. È difficile rendersi conto di quello che si sta vivendo, un po’ come Fabrizio Del Dongo che è a Waterloo senza accorgersene… Anche a costo di parere convenzionali, io sostengo che ogni europeo ha due cinematografie elettive: quella nazionale e quella americana. Tutte le altre sono di contorno. Io amo i polar, la letteratura poliziesca francese, e ricordo benissimo le emozioni di film anche secondari come La grande razzia con Gabin o Grisbì. Insomma, amavo anche altre cinematografie, ma il cinema americano da un lato e quello italiano dall’altro, quasi in maniera inconscia, erano i più importanti. Di fronte a tanto cinema italiano d’epoca, però, non c’era la consapevolezza di cosa si stava vedendo… Totò al giro d’Italia, oggi è di culto (ride)… a me non piace neanche tanto il ciclismo; al limite L’inafferrabile dodici con Walter Chiari, un portiere di calcio spaccone che ha un fratello timido cui iniettano degli ormoni scimmieschi e diventa un portiere imbattibile. Il film, con i giocatori della Juventus, aveva tutto un altro fascino per me che ero e sono appassionato di calcio. Da un lato si avvertiva la nascente retorica del neorealismo, il desantismo, dall’altro c’era la sensazione che qualcosa si muovesse… Bisogna dire che il nostro cinema è sempre stato un cinema parziale. Ha sempre dato immagini parziali della realtà italiana. Per fare un esempio: non c’è un vero grande film sull’8 settembre, se si eccettua Tutti a casa di Comencini, un film comico. Non c’è un film sul ’46 se non per Una vita difficile, altro film comunque nato come strumento comico per Sordi e poi ritoccato in corso d’opera. Non ci sono film che riescano a restituire la complessità della guerra partigiana né film che ricostruiscano la guerra vista da Salò. Tuttora Tiro al piccione di Montaldo, un esordio se vuoi un po’ ingenuo, rimane interessante e quasi unico. Non c’è un film in cui si ripercorra il cammino delle truppe del Corpo Italiano di Liberazione o delle truppe di Salò che hanno combattuto contro gli alleati, non dico i rastrellamenti, ma chi era ad Anzio… i piloti della RSI, per esempio, che contrastarono i bombardamenti alleati. Di tutto questo dramma che ha dato vita all’Italia che ancora conosciamo oggi, non emerge nulla. Nella trasmissione televisiva La principessa sul pisello avevamo queste studentesse universitarie che non sapevano niente della guerra, dell’alleanza coi tedeschi, della guerra partigiana… Di moltissime cose il cinema italiano non ha parlato, insomma, se non con la vocazione comica. Totò che litiga con Pidgeon ne I due colonnelli o Sordi con Niven, ecco… eppure il cinema bellico dimostra ancora d’essere redditizio, vedi Salvate il soldato Ryan di Spielberg.
Ma tornando alla domanda iniziale, avevo e non avevo questa sensazione. Ero molto sensibile ai sapori che si avvertivano: il primo Fellini/Lattuada, Luci del varietà… si capiva il fellinismo iniziale, era percepibile. L’attendibilità totale del cinema neorealistico come venne in quegli anni difeso da Cinema Nuovo e immortalato mentre si stava spegnendo… sì, ero consapevole, ma non particolarmente entusiasta. M’interessava, ma non più di un film sulla polizia di Los Angeles… scherzo, ma diciamo un Lang, ecco.
Quando ha capito che la sua passione poteva diventare un mestiere? O è accaduto senza fare una scelta?
Credo che, a parte vocazioni o illuminazioni, nessuno si renda conto del suo evolversi. Io fino a 22 anni ho avuto una vita anche troppo agiata, l’università l’ho anche fatta male… poi è capitata una disgrazia terribile: morì mio padre in modo tragico e la famiglia rimase senza una lira. Dovetti fare quattro anni e mezzo da impiegato e in quel periodo tagliai i rapporti col cinema. Poi uscì da questa specie d’isolamento che le circostanze mi avevano imposto e cominciai a collaborare con la terza pagina del Lavoro. Non perché fossi socialista, ma per via dei rapporti che avevo stabilito con Tullio Cicciarelli cui tutti noi dobbiamo molto… quando dico noi intendo Piero Pruzzo, Claudio Bertieri, Mauro Manciotti… Era il critico cinematografico del Lavoro e fu per molti anni il principale referente culturale della vita cittadina. Ho cominciato a scrivere nella terza pagina, non di cinema, e per due anni mi feci accreditare - gratuitamente - come inviato a Cannes. Professionalmente posso dire di avere seguito Cannes nel 1956 e nel 1957, quando Cannes era ancora una cosa incomparabilmente più familiare di oggi: eravamo un decimo dei giornalisti di oggi, non c’era la televisione… un altro mondo, insomma. Ricordo di aver visto l’apparizione di due registi allora sconosciuti: uno, un certo Wajda con I dannati di Varsavia, e l’altro, l’indiano Satyajit Ray con Pather Pantchali. Io li vidi mentre grandi inviati li snobbarono: negli anni Cinquanta un regista indiano era come un cantante di Montoggio, una cosa improbabile… Beh, in quegli anni, ho cercato di uscire dal lavoro impiegatizio durissimo, collaborando col cineforum dell’Arecco, il motore del quale era un personaggio complicatissimo, padre Arpa. Fummo un gruppo che lo affiancò per un po’ di tempo: il cineforum diventò Segretariato di Culture, poi Colombianum. Rapporti intensi col cineforum che poi, per un anno e mezzo, diressi. Lanciammo l’idea delle presentazioni sistematiche, delle schede critiche settimanali e altre novità. C’erano molti amici e anche Gianni Amico, segretario di padre Arpa e futuro regista di talento, un sognatore. In quel momento lì, poi, nel 1958, sentivo l’urgenza di fare una scelta, divenni critico cinematografico del Corriere Mercantile. Franco De Salvo, che trasformò il Corriere, mi affidò la rubrica di critico. Nel 1959 andai per la prima volta professionalmente a Venezia. Non c’era l’e-mail: bisognava telefonare e dettare le cartelle o affidarlo alla telescrivente di Radiostampa dove lavoravano dei disgraziati in canottiera, a battere sulle macchine come dei matti. Mettici gli errori tuoi, gli errori di chi trascrive, gli errori di composizione al giornale… ci fu un anno che l’ANSA organizzò una rassegna stampa su ciò che si scriveva sulla Mostra di Venezia, con il passaggio da Venezia a Roma e poi di nuovo a Venezia: alla fine mi son trovato con la firma dietro cose che non avevo scritto! I testi mutavano! Comunque lì finì il dilettantismo e cominciò la professione vera come critico del quotidiano, che ho tenuto fino al 1981. Dal 1970 poi ho lavorato a Roma in Rai, dovendo gestire quasi tutto quello che usciva a Genova, a distanza. A Roma avevo il vantaggio di vedere i film prima - allora c’era un sistema organico di anteprime che oggi non esiste più - per cui mi portavo avanti. Al sabato tornavo a Genova e ricordo che scendevo a Brignole, prendevo l’autobus e passando per via XX Settembre vedevo la programmazione dei cinema e mi dicevo: questo l’ho fatto, questo l’ho visto, l’Orfeo, l’Astor, il Moderno, il Verdi l’ho recensito, l’Universale l’ho fatto, devo fare solo l’Olimpia! (ride) Allora c’era l’ossessione di fare la recensione il giorno dopo: in altri paesi c’è un giorno specifico, settimanalmente. Da noi, no, tutto e subito, e per fortuna io lavoravo a un quotidiano del pomeriggio, per cui avevo tutta la notte per lavorare. Chi lavorava al giornale del mattino doveva fare i salti mortali… tante righe entro le sei e mezza del pomeriggio. Nel 1959 fui anche assunto come praticante redattore e per i seguenti dieci anni mi occupai di cinema, spettacoli e cultura.
Nel 1970, dopo tanti miei rifiuti, andai in Rai: sentivo il Corriere che scricchiolava e accettai l’incarico per la programmazione cinematografica. Ci trasferimmo e fu una scelta difficile, traumatica, specialmente per mia moglie che aveva uno studio di pittrice ben avviato a Genova e dovette abbandonare dei lavori. Andai a Roma, tenendo la rubrica a Genova. Per 6 anni lavorai nella Rai del Monopolio, molto lontana da quella di oggi. Era la televisione: non c’erano le reti, ma solo due canali. Diventai vice capo servizio per la programmazione con Mondolozzi, un caro amico purtroppo morto alcuni anni fa. Capo servizio era un critico cinematografico napoletano, Marcello Clementi. Dovevamo scegliere e mettere in onda i film. La Rai ne dava pochissimi: uno al lunedì in prima serata sul primo canale, appuntamento che è rimasto fino a oggi, e un film in seconda serata al mercoledì, sul secondo canale. In tutto la Rai dava due film serali più uno, eventuale, la mattina in concomitanza con le fiere: era una convenzione per dimostrare la bontà dei prodotti, dei televisori per esempio. Valerio Caprara parlò della seduzione del “cinema delle fiere”: trent’anni fa, arrivava il cinema in casa, la mattina. Film che andavano in onda regionalmente durante le fiere; nacque anche una querelle giuridica: il passaggio regionale era come un passaggio nazionale, quanto a diritti di trasmissione? La cosa non s’è mai risolta!
All’epoca il cinema alla televisione aveva ben altro significato…
Eh sì, il film era un avvenimento enorme. Grazie a Ugo La Malfa i film a colori venivano trasmessi in bianco e nero e, ciò nonostante, le gente rimaneva a casa per vederli. Con la liberalizzazione a Roma venne fuori una cosa curiosa: i negozianti che volevano mostrare i nuovi apparecchi a colori si accorsero che la seconda rete francese, allora Antenne 2, oggi France 2, era stata autorizzata a trasmettere a colori. Nella giungla giuridica di allora, misero dei ripetitori per captare il segnale che arrivava dalla Corsica. Io guardavo tutti i programmi di Bernard Pivot, Foxtrot o Bouillon de culture. Parlavano di libri, scrittori eccelsi e anche la portinaia di Pivot… eccezionale.
Di cosa si occupava in Rai?
I primi sei anni, perché il capo struttura era riluttante a prendere decisioni, finì che le decisioni le presi soprattutto io. Fino al 1976, per ogni film di cui si proponeva l’acquisto, bisognava fare un verbale: il film doveva essere trasmettibile, assumendosene la responsabilità. E non acquistammo Il giardino dei Finzi Contini perché Clementi aveva individuato questo seno della Sanda sotto una camicetta bagnata… (ride) I primi tempi dovetti anche occuparmi molto di queste presentazioni fatte da interni, in genere Gian Luigi Rondi e Fernaldo Di Gianmatteo, due amici. Devo anche aver firmato già dei cicli in quel periodo, non ricordo bene. Poi, cadde il monopolio; fu un avvenimento traumatico, giustissimo ma gestito in maniera folle, invadendo l’etere in maniera indiscriminata. Sai, la radio libera con qualche disco e una lingua sciolta la si può fare, ma la televisione… allora iniziarono a trasmettere film che erano stati negati a noi. Però il monopolio si percepiva ancora, finché non arrivò Berlusconi. Nel 1976 divenni responsabile della programmazione di RaiUno. Feci cicli che ebbero un gradimento immenso… oggi andrebbero alle tre di notte. Cicli su Bogart, la Hepburn, Wayne, cicli divistici… ricordo dei ristoranti vuoti a Roma, il lunedì sera. Cedetti due cicli a Cereda, oggi responsabile dei film della Rai: il Fritz Lang americano e Truffaut. Adesso anche l’Unità vende Truffaut, ma all’epoca era un rischio.
Poi feci anche una trasmissione che si chiamava Dolly. L’Anicagis si lamentava che non c’era informazione sul cinema. Raidue prese due esterni, Beniamino Placido, con cui poi sono diventato amico, e Tommaso Chiaretti, che fecero 16 e 35. La gente non capì mai il motivo del nome - riferito ai formati cinematografici. Io fui incaricato di fare un rubrica senza spendere una lira per RaiUno. Scelsi il nome Dolly e mettemmo su la trasmissione praticamente in tre. Ogni quindici giorni, per un quarto d’ora. Avevamo quattro o cinque milioni di spettatori e poi, dopo due anni, fu abolita; una cattiveria di cui ancora oggi non vedo motivo, senza spiegazione. Presentavamo film che mi piacevano, ovviamente. Spezzoni del film, informazioni essenziali col sottopancia, e tre miei interventi. Credo che ci siano film a cui ho portato decisamente fortuna, come Picnic a Hanging Rock, che dal titolo poteva sembrare un western di serie B…
La gestione della programmazione non era solo la scelta dei titoli…
Certo. Si lavorava su copie stampate appositamente, impeccabili, visionate alla moviola per cogliere eventuali errori di stampa. Con l’avvento delle private si accettarono anche standard qualitativi inferiori e nella corsa al ribasso anche la Rai crollò, con copie brutte. Il lavoro consisteva nella supervisione a questo processo e nella ideazione e “gestione” dei cicli cinematografici, che diventò un’abitudine regolare della programmazione, cui il pubblico si affezionò. Oggi i cicli non si fanno più per tanti motivi: servono passione e competenza, poi il ciclo sembra un retaggio del passato. E non parliamo dei problemi di diritti… oltre a tutto oggi è possibile reperire molta roba in videocassetta. Raitre ha fatto qualcosa con Razzini, più recentemente, ma è una tradizione che purtroppo s’è persa, sbagliando perché la creazione dell’appuntamento dava fidelizzazione. L’abbiamo dimostrato con i telefilm. Con Vernazzola abbiamo praticamente inventato il preserale poliziesco di Raidue. Dopo un anno il pubblico aspettava questo appuntamento, i 40 minuti di fiction che potevano essere l’eterno Le strade di San Francisco o Miami Vice. Dal 1981 al 1984, sono stato capostruttura con competenza di acquisto sulla fiction per Raidue e Raitre. Comprai Beautiful, Quando si ama, Miami Vice, Hunter, Custer, il secondo passaggio di Derrick… la mia struttura era di 25 persone, di cui la metà lavorava male o non lavorava affatto e certi giorni c’erano in palinsesto dieci, dodici cose nostre. Dal film della notte a quello della notte successiva, passando attraverso soap e telefilm. Trasmettevamo ogni giorno serial che in origine erano pensati come appuntamenti settimanali, quindicinali o addirittura mensili: quando andavamo ad acquistarli chi deteneva i diritti pensava che fossimo dei pazzi, dei cresi… perché prendevamo tutti i cicli disponibili per coprire il periodo più lungo possibile.
Critico cinematografico con responsabilità della programmazione televisiva…
Beh, oggi l’attività pratica di un critico, in certi casi, si limita a gestire la programmazione di un cineclub. Se lei pensa che all’epoca per me era come decidere per un cineclub con dieci milioni di persone… non c’era dignità critica più enorme. Se anche qualcuno dormiva mentre parlavo, avevo sempre tre o quattro milioni di persone ad ascoltarmi! (ride)
Sentiva la responsabilità come programmatore televisivo e come critico, nell’influenzare il pubblico?
Bisogna tenere conto del veicolo che si utilizza. Il pubblico di Raiuno e quello di Raidue sono profondamente diversi. Raiuno lavorava molto con repliche, per un pubblico conservatore che voleva rivedere il vecchio film di Gary Cooper o Marlon Brando. La terza rete consente più raffinatezza, o anche snobismo, se vuole. Mi sono sempre proposto di non perdere il contatto col grande pubblico. Cose decorose, anche molto belle, ma che mantenessero un contatto con lo spettatore medio che non si riesce mai a capire bene chi sia, idolatrato o disprezzato secondo il comodo. Se esiste, è quello che determina il successo della tua scelta. Non ho mai capito perché se la maggioranza vota DC, PCI o PSI ha ragione, ma se vede un film commerciale ha torto… sono gli stessi, il 70 % del pubblico! O hanno sempre torto o sempre ragione! Per altro io non andavo d’accordo con loro in tutti i sensi: ho sempre votato il Partito Liberale, col due per cento. Non sapevo ci fosse De Lorenzo!
Comunque: c’erano tre preoccupazioni: dare roba decorosa, lavorare con ciò che si aveva in magazzino e quella di non sbagliare troppo la programmazione rispetto agli ascolti. Tutti sono puristi a parole, poi quando arrivano gli ascolti… all’epoca avevo la capacità di prevedere, vedendo il palinsesto, quanto avrebbe potuto fare un film in termini di audience. Non so se l’Auditel è giusta, ma siccome tutti la ritengono tale, mi adeguo. È come il metro di Sevres… una convenzione utile. Io ho una personale convinzione: serve ai pubblicitari e probabilmente è esatto nei grandi numeri, molto poco su quelli piccoli. Al tempo del “cinema di notte” vedevo risultati che non erano confermati dal riscontro che avevo nella vita di tutti i giorni. C’è stato un periodo in cui, grazie al cinema di notte, ero omaggiato in ogni ristorante. Mi chiedevo: ma perché? E poi realizzavo che chi lavorava nei ristoranti guardava la televisione a notte fonda! Ero più popolare di Piero Angela!
E come critico, sui quotidiani, quali battaglie ha combattuto?
Non credo molto alle battaglie critiche. All’inizio mi battei molto per la nouvelle vague. Mi rimproveravano l’eccessiva francofilia cinematografica. Come Morandini ero sensibile ai Cahiers e non casualmente avevamo la stessa simpatia che sui Cahiers avevano per un certo cinema americano. Non ho mai smentito la fede rosselliniana e mi sono sempre battuto per Fellini, nella disfida tra viscontiani e felliniani, anche se l’ultimo Visconti era molto più toccante del primo, quello filoproletario… il Visconti della maturità che mette in scena Il Gattopardo o i tedeschi de Il crepuscolo degli dei è cresciuto nella famiglia di Modrone, e si vede. Era comunista ma i camerieri lo chiamavano “signor conte”. Ho chiamato qualche volta a casa sua e mi rispondeva o un compostissimo cameriere che diceva di prendere nota della telefonata oppure qualcun altro, magari in romanesco. Chissà, un giovinetto reclutato pasolinianamente…
Passioni estetiche o anche politiche hanno influenzato i suo giudizi?
Sono sempre stato considerato un critico di destra, in un epoca in cui la critica cinematografica italiana era molto divisa. C’era una critica di gusto, quella di Pietro Bianchi, e poi la critica ideologica, che faceva capo ad Aristarco e a Cinema Nuovo, con una serie di straordinari collaboratori come Guido Fink o Adelio Ferrero. Istintivamente fui sempre dall’altra parte, non mi piaceva l’astio che avevano nei confronti del cinema americano, se non quello progressista. Oggi sembra tutto molto ridicolo: chi parla con più amore del cinema americano sono il Manifesto e L’Unità… Ricordo una dichiarazione di Elio Petri, diventato poi regista tutt’altro che trascurabile: disse che i film di Ford all’Unità andavano stroncati, perché era un fascista. Uno che ha fatto un film come Furore… ebbi anche delle scadenze precise: nel 1977 facemmo a Genova un esperimento unico in Italia, cioè un cinema di prima visione programmato dai critici. In senso stretto ciò avveniva già a Milano, al Ritz del marchese Incisa, con Morandini e Casiraghi. Noi lo facemmo col genero di Incisa, Saltamerenda; però con un accordo scritto, non un gentlemen’s agreement. Lui fu coraggioso e ci diede il Ritz dove c’era il monumento dei mutilati, cosa non incoraggiante… eravamo liberi di scegliere e organizzare. Non demmo Lontano dal Viet Nam: nella commissione ero con Tullio Cicciarelli, Mauro Manciotti, Claudio Bertieri e Umberto Rossi. Tre votarono no e due sì… a me, dare questo film contro gli americani, non so… senza di loro saremmo stati tutti funzionari del partito fascista! Possono avere tutti i difetti del mondo, però avevano anche Marshall che ci salvò due volte, prima con le truppe di liberazione e poi con quell’assegno da un miliardo di dollari di allora…
Avevo certo una diffidenza verso il cinema ideologicizzante dell’epoca. Essere comunista oggi come Bertinotti è quasi romantico, ma allora il mondo era diviso in due e o stavi da una parte o dall’altra, bisogna essere onesti. E accettavi il bene e il male di una delle due parti. Diffidavo di certo cinema sovietico, anche se c’erano film sicuramente toccanti come Quando volano le cicogne, Il destino di un uomo. Oggi su questi film sono diffidenti i critici di sinistra… era un periodo in cui un brutto film come I berretti verdi suscitava reazioni incredibili, con i picchetti fuori dai cinematografi mentre Pol Pot ammazzava qualche milione di connazionali… tra un secolo si chiederanno che cosa è successo in questo secolo folle.
Quale cinema ha comunque difeso?
Mi sono sempre battuto per un cinema che non fosse preda dell’ideologia, dove la politica degli autori avesse un suo giusto risalto e poi per un sostanziale rispetto per la fatica di fare cinema. Truffaut quand’era giovane stroncava tanti film. Poi, quando diventò regista capì le difficoltà.
Mi sono battuto anche per i generi popolari, quando c’era la consapevolezza di fare un film di genere. Oggi anche un funzionario ministeriale usa il termine “d’autore”, ma cosa vuol dire? Tutti i film sono d’autore o “di autori”, perché collettivi. Pensi ai produttori, che scelgono e ci mettono i soldi: e loro non sono autori? Poi è stranissima questa idea che solo il cinema non dovrebbe essere commerciale…
Cosa la irritava da spettatore?
Io conosco i gradi e se vedo delle imprecisioni mi secca subito. Se ha sbagliato i gradi, che li decide un costumista con due libri che costano trentamila lire, come faccio a dar retta a un regista? Come per la Wehrmacht, che tutti credono che sia la fanteria, mentre è l’insieme delle forze armate tedesche… Ora: non dico di arrivare alle pretese di von Stroheim che voleva il monogramma dell’imperatore sulle mutande dei militari dei suoi film, però un po’ di precisione… Melville ebbe un ex capitano dell’esercito per controllare le divise de L’armata degli eroi - film tagliato in Italia, ma straordinario: io l’ho fatto vedere in Rai in un ciclo memorabile. Il film era in presa diretta e per fare interpretare dei militari tedeschi Melville sui Campi Elisi, prese degli studenti tedeschi a Parigi, perché il rumore dei tedeschi che marciano è diverso da quello degli italiani o dei francesi…
Ha mai studiato il cinema, sui libri? E cosa pensa delle generazioni di critici più recenti?
Ho letto tutti i testi sacri - Balasz, Aristarco, Pudovkin - ma… non so, per il cinema ho sempre avuto una passione tattile. Sono poco sensibile alla teorizzazione. Probabilmente l’impressione che ho di capire direttamente dallo schermo è illusoria, frutto di demenza precoce. Apprezzo anche i critici più giovani, che scrivono in maniera più difficoltosa, forse più ricca, ma deve pensare che noi siamo andati a scuola prima della guerra… siamo troppo diversi: ci gridavano “braccia conserte”, si scriveva con il pennino… (ride) mettevamo il luogo e la data, dell’era fascista… siamo diversi dalle generazioni di critici venute dopo, non c’è niente da fare.
Abbiamo avuto letture diverse: io sono stato un grande lettore di polizieschi, di gialli… tutto questo influisce nell’esercizio critico, forse più dei testi teorici. E poi non ho avuto una formazione di sinistra… si scrive come i libri che si leggono. Parliamo in modo diverso, non dico “cioè”, né “niente”: ha presente quei discorsi assurdi tipo “cos’è successo?” - “Oh, tre morti, niente!”. Si parla secondo quello che si legge e magari qualcuno legge libri sperimentali che scimmiottano la lingua parlata: si entra in un vortice di anacoluti senza fine! O la musica: non influisce forse? Se non fosse per Lester io non avrei mai incontrato i Beatles… e tuttora non ne so nulla. Saranno importanti evidentemente… comunque mi sta antipatica Yoko Ono.
E il gusto cambia?
Sì: cambiamo noi, cambiano i gusti. Ogni generazione ha i suoi idoli e le passioni infantili diventano inestinguibili. Il calcio, come il cinema… io da bambino rischiavo di avere un infarto quando i giocatori del Genoa entravano in campo. Oggi no, ma forse per colpa del Genoa (ride). Le passioni infantili sono brucianti: mio padre mi regalò il tesserino per la tribuna numerata e per me fu una gioia incredibile. Oggi un bambino ti risponderebbe con un calcio negli stinchi: “voglio la cocaina!”. E tornando al cinema: sicuramente il mito dell’America ha influenzato molto il modo di vedere il cinema. Il fascismo, per intelligenza o miopia, lasciò arrivare molta letteratura americana “di sinistra”, come il primo Dos Passos, e da quelle letture fummo colpiti. Poi arrivò il loro esercito… gli italiani erano con le fasce, le mollettiere, scalcagnati, e ti arrivano questi, tutti sbarbati, eleganti come turisti, con le camicie stirate… io non so che servizio di lavanderia avessero, perché il soldato semplice era più in ordine di un nostro ufficiale. Erano sempre su queste jeep - chissà cos’avevano da girare - fumando sigarette dal sapore dolcissimo. Un esercito che veniva per andarsene… e da parte nostra la riconoscenza per la liberazione: un ricordo indelebile. Io ero a Novi Ligure e arrivò il 442esimo Combat Team: erano giapponesi d’America, con i genitori nei campi di concentramento… si batterono come disperati per dimostrare il loro patriottismo e furono decoratissimi. Dietro la stupidità dell’americano medio, la volgarità di molti loro atteggiamenti, io sento sempre un’affinità, una riconoscenza.
Una riconoscenza che è rimasta nei suoi gusti cinematografici, tutto sommato…
Sì, sì, le dirò: invecchiando, se non ci sono dei poliziotti, io m’annoio. Se non c’è un commissariato a Los Angeles, con la gente che passa, i due delinquenti in un angolo e il travestito che strepita da un’altra parte, non mi diverto!