Blog - Crediti


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29 aprile 2011

MOVIOLA PERSONALE (E LIBRARIA): LA GUERRA E LA SCIENZA POLITICA

Il Professore Giorgio Fedel, ordinario nell'Università di Pavia, aggiunge ai suoi compiti d'insegnante del Dipartimento di Studi Politici e Sociali, anche quello di Direttore della rivista quadrimestrale "Quaderni di Scienza Politica", giunta ormai al 18° anno ed edita a cura del Centro Interuniversitario di Analisi di Simboli e delle Istituzioni Politiche (CASIP) "Marius Stoppino". La rivista si pubblica con il contributo dell'Università degli Studi di Pavia. Direzione e Redazione hanno sede a Pavia presso il Dipartimento prima menzionato, Sezione di Scienza Politica, Strada Nuova 65, 27100 Pavia. Il telefono della direzione è: 0382.98.43.69. quello della Redazione è 0382.98.43.63/65, l' e-mail è: quaderni@unipv.it, il website è: www.unipv.it/quasp.


Il professore Fedel ha avuto l'estrema gentilezza d'invitarmi a collaborare alla rivista, proponendo io stesso articoli a mia scelta. In attesa di elaborare qualcosa di più organico e articolato gli ho inviato il brano seguente sul cinema di guerra e le implicazioni che il tema ha avuto per me: un libretto sul tema, e una conferenza a Palazzo Ducale di Genova. Il professore Fedel mi ha anche autorizzato a riportare il brano in questo blog, indicando i dati riguardanti la sua pubblicazione nella rivista. Cosa che faccio ben volentieri. Il testo apparirà nel n.2 di Agosto 2011 di "Quaderni di Scienza Politica", al quale mi auguro non arrechi troppo danno.


Ecco il testo:



RIFLESSIONI SUL CINEMA DI GUERRA
Fra il 14 e il 17 aprile 2011 ha avuto luogo nel Palazzo Ducale di Genova un’ampia edizione de “La Storia in Piazza” dedicata questo anno a “L’invenzione della Guerra”, durante la quale moltissimi convenuti, storici, filosofi, antropologi, hanno parlato di “come la guerra sia una chiave di lettura dei processi di modernizzazione, della costruzione dell’immaginario collettivo e della memoria pubblica”, giusto per ripetere le frasi dell’opuscolo introduttivo. Per i non genovesi ricordo che Palazzo Ducale è l’antica sede dei “Dogi” di Genova: intorno si apre la piazza centrale della città, Piazza De Ferrari. Da diversi anni l’edificio è stato completamente recuperato e riattato, con l’obbiettivo di riportarlo alla struttura di un tempo e nel giro di questi ultimi anni è diventato una delle sedi principali dell’attività museale e culturale della città. Almeno di quella ufficiale, visto che la manifestazione (la ritengo abbastanza costosa dato l’amplissimo numero di convenuti) è stata finanziata, mi è parso di capire, dal Comune di Genova e presumibilmente da altri enti pubblici. All’interno di quest’amplissima iniziativa ha avuto un piccolo spazio anche il cinema. Per l’organizzazione ci si è rivolti ad Antonella Sica e Cristiano Palozzi che da molti anni mandano avanti, sempre con meno aiuti ma con grande tenacia e capacità di invenzione, il Genova Film Festival, vale a dire la manifestazione specializzata più importante in Liguria. Poiché entrambi sono amici che mi vogliono bene mi hanno riservato, fra l’altro, mezz’ora di tempo per parlare di un mio recente libretto intitolato “Guerra in cento film” edito da Le Mani. La mezz’ora successiva era stata riservata ad un regista, Enzo Monteleone, autore fra l’altro di ”El Alamein- La linea del fuoco”, il più recente dei diversi film centrati sulla tragica battaglia che dalla fine di ottobre e l’inizio di novembre 1942 vide l’Armata Italo-Tedesca di Rommel e Bastico schiantata e distrutta dalle forze armate inglesi in quegli avamposti del deserto egiziano che erano stati occupati con eccessivo ottimismo. Gli organizzatori hanno deciso all’ultimo momento di fondere il mio spazio con quello di Monteleone, dando vita ad un incontro di un’ora che, debbo ammettere, è stato salutato da un grande successo di pubblico. Va anche detto che nell’ora precedente è stato proiettato un commovente documentario girato dallo stesso Monteleone e centrato su alcuni superstiti della battaglia. Tutti inquadrati nella Divisione Pavia che, anche se se ne parla meno, è stata distrutta a El-Alamein come altre Divisione più note: la “Folgore”, L’”Ariete”, la “Trieste”, eccetera. La Divisione Pavia discende dalla brigata omonima costituita nel 1860 e che ha combattuto in tutte le guerre, da quella data sino alla Prima Guerra mondiale. Nell’ agosto 1939 diventa, con l’ordinamento binario, la 17° Divisione di Fanteria “Pavia”, sempre centrata sui due tradizionali Reggimenti di Fanteria, il 27° e il 28°, insieme al 26° Reggimento di Artiglieria ed ai diversi reparti di servizi collaterali. In Libia la Divisione venne dislocata nel 1940 prima sul confine Libico-Tunisino e poi nella zona ad ovest di Tripoli. Nel 1941 vi rimase sino all’aprile per essere poi trasferita, tra l’altro, nella zona di Tobruk, contenendo fra novembre e dicembre gli assalti inglesi. Successivamente venne spostata in diversi luoghi, fra cui alcuni spesso citati ora con la rivolta in Libia. Ad esempio Bengasi e Agedabia. Nel 1942 infine, dopo diversi spostamenti fra Tobruk, Bardia e Sollum, la “Pavia” fini con l’arrestarsi davanti ad El-Alamein. In ottobre e sino al 3 novembre la Divisione dovette arretrare verso la cosiddetta depressione di El Qattara. Qui le retroguardie, raggiunte dalle unità corazzate inglesi, furono annientate. Successivamente tutti gli altri reparti vennero accerchiati e sopraffatti. Il 25 novembre la Divisione, che in patria aveva sede a Ravenna, venne sciolta e non mi risulta che sia stata più ricostituita. Alcuni dei superstiti intervistati da Monteleone nel frattempo sono morti (i più giovani erano ultra ottantenni) e la loro testimonianza risulta al tempo stesso decisiva e terribile. Un esercito di reclute spedite con fucili modello ’91, fasce mollettiere, scarpe da tennis e pesantissimi caschi coloniali (quelli inglesi erano saggiamente leggerissimi) a morire nel deserto, con poco cibo scadente e pochissima acqua. Io mi sono commosso diverse volte nel vedere il documentario- credo sia allegato al DVD del film- anche perché la lucida consapevolezza dei protagonisti sulla terribilità della guerra si sposava anche ad una sorta di rattenuta dignità: quei vecchi spesso ribadivano che non si erano mai arresi formalmente e che avevano cessato la resistenza quando non avevano più munizioni, viveri e rinforzi di fronte ad un nemico ricco e organizzato, splendidamente armato e rifornito di ogni ben di Dio, dalla frutta sciroppata ai liquori ed all’acqua che giungeva spesso in prima linea direttamente grazie a tubature (gli italiani, quando la ricevevano, dovevano accontentarsi di un liquido disgustoso contenuto nelle taniche inizialmente destinate alla benzina e alla nafta).
A parte il fatto che ho dovuto superare il giusto imbarazzo e l’amarezza di Monteleone perché il suo film non era stato menzionato nel mio libro (mi sembra poco probabile che ci sia una seconda edizione, ma in questo caso farò il possibile per ovviare alla mancanza) dalle immagini e dalle nostre parole è balzato fuori ancora una volta il problema di fondo del cinema di guerra. E cioè la sostanziale impossibilità di ricreare nei volti degli attori – i protagonisti come le comparse – quel gelido sapore di paura che la guerra crea nel volto e negli occhi di chi deve sopportarla. So di cosa parlo perché, pure essendo nato nel 1929 (ero bambino all’inizio del conflitto ed entravo nell’adolescenza alla sua fine) ricordo lucidamente quel che si vedeva nei visi delle persone che mi stavano intorno durante i bombardamenti. Sia quelli aerei, che furono così intensi negli ultimi tempi del conflitto, sia quello navale del 9 febbraio 1941, quando la flotta inglese sparò almeno per tre quarti d’ora bordate su bordate di grossi calibri contro la mia città, Genova, totalmente incapace di difendersi (casa mia, nel centro della città, venne tagliata come una torta da un 305). Il paradosso dei film centrati sulla guerra, o che della guerra in qualche modo risentono, è tutto qui. Ed è straordinario il talento di alcuni grandi registi (a volte famosi, a volte dimenticati o per sempre sconosciuti) nel ritrovare nelle inquadrature almeno il sapore lontano di quella paura, così come dello sconvolgimento creato in un medio essere umano dalla necessità di uccidere (o di essere uccisi).
Varrà la pena di fare qualche titolo. Rimanendo nel discutibile ambito dei cento film citati nel mio libretto (per motivi di spazio ho rinunciato alla grande eredità del cinema muto, a tutti i film ambientati prima della Grande Guerra ed ho dedicato al massimo una scheda di film ad un regista, eventualmente evocando altre opere nel testo) vorrei menzionare alcuni dei titoli che mi sono più cari. Prima di tutto il film che in assoluto prediligo al mondo e cioè “La Grande illusione” (1937) di Jean Renoir, ove con mano magistrale sono disegnate le ascisse e le ordinate del modo in cui la guerra esplode. E cioè, nel momento stesso in cui i protagonisti cadono prigionieri, vengono alla luce, da un lato, la fraternità che si instaura fra i combattenti, e dall’altro, la sopravvivenza decisiva dei legami di educazione, di situazione sociale e di casta i quali si intrecciano fra nemici che sono molto più simili tra loro di quanto non lo siano con i camerati di combattimento. La silenziosa amicizia che nasce fra il patrizio tedesco Erich von Stroheim e quello francese Pierre Fresnay (il primo sarà costretto ad uccidere il secondo) implica una secolare affinità che supera ogni senso patriottico di appartenenza. Ancora qualche titolo: “All’ovest niente di nuovo” di Lewis Milestone (1930), “Alfa Tau!” di Francesco De Robertis (1942) e dello stesso anno “Eroi del mare” di Noel Coward e David Lean, “Casablanca” di Michael Curtiz (1943), “Prigionieri dell’oceano” di Alfred Hitchcock (1944), “I sacrificati di Bataan” di John Ford (1945), “Paisà” di Roberto Rossellini (1946), “Bastogne” di William A. Welman e “Cielo di Fuoco” di Henry King (entrambi del 1949), “Mare crudele” di Charles Frend (1953), “I ponti di Toko-Ri” di Mark Robson (1954), “Un condannato a morte è fuggito” di Robert Bresson (1956) “I dannati di Varsavia” di Andrzej Wajda,“Duello nell’Atlantico” di Dick Powell (entrambi del 1957) "Tempo di vivere" di Douglas Sirk (1958), “La Grande Guerra” di Mario Monicelli (1959), “Tutti a Casa” di Luigi Comencini (1960) “317° Battaglione d’assalto” di Pierre Schoendoerffer, “L’Armata degli eroi” di Jean-Pierre Melville (1969), “Cognome e nome: Lacombe Lucien” di Louis Malle (1974), “Apocalipse Now” di Francis Ford Coppola (1979), “U-Boot” di Wolfgang Petersen (1981), “Anni ‘40” di John Boorman (1987), “Salvate il soldato Ryan” di Steven Spielberg (1998), “The Hurt Locker” di Kathryn Bigelow (2008).
E’ un elenco lungo, e spero non troppo fastidioso, ma è anche al tempo stesso un elenco breve perché mancano forse altrettanti film. Uno dei quali è, paradossalmente, un film doppio. Vale a dire quello che rievoca la battaglia di Iwo Jima, iniziata il 16 febbraio 2005 e terminata ufficialmente il 26 marzo dello stesso anno (anche se poi ci vollero altri due mesi per eliminare tutte le disperate sacche di resistenza dei giapponesi, uno degli eserciti ove l’obbligo morale di non arrendersi diventava una sorta di forsennata vocazione semireligiosa). Come è facile capire si tratta di “Flags of Our Fathers” e di “Lettere da Iwo Jima”, una sorta di due gemelli omozigoti che risalgono a quel personaggio, al tempo stesso trasparente e misterioso, che ha pochi eguali nella storia del cinema mondiale. E cioè Clint Eastwood, un mistero glorioso della nostra epoca. L’abbiamo visto concretarsi nel nostro cinema perché era l’applaudito interprete di un serial western televisivo di successo, e perché il suo ingaggio era più basso di quello di tutti i suoi colleghi. La paradossale parodia di un genere tipicamente americano, riproposto in Europa con estrema sfacciataggine romanesca da quel personaggio geniale che fu indubbiamente Sergio Leone, lo impose come uomo dalle due espressioni, l’una con il cappello e l’altra senza. Rinfrancato dal suo ritorno in patria egli si impose anche ad Hollywood con la serie poliziesca dell’Ispettore Callaghan (nell’originale Callahan, senza la “G”) che gli attirò da molte parti l’accusa di fascismo, e che nelle sue mani ed in quelle di Don Siegel divenne in realtà uno dei veicoli di maggior importanza nel mutamento del racconto “Hard Boiled” al cinema. Dopodiché sotto i nostri occhi si mutò lentamente ma decisamente in un regista, ancor voglioso di recitare la parte del primattore, seppure man mano in grado di disegnare sottilmente personaggi sempre diversi e sempre più raffinati. E’ la storia del “fenomeno Clint”, che dura da decenni e che non dà la sensazione di doversi interrompere. In particolare questa sua incursione, mai così clamorosa in precedenza, nella rievocazione cinematografica del secondo conflitto mondiale, raggiunge probabilmente il culmine con “Lettere da Iwo Jima”, che è probabilmente l’unico vero tentativo di “fiction americana” totalmente collocato nel campo e nella psicologia dei giapponesi. Vorrei chiudere questa breve divagazione centrata su Eastwood con un frammento di una risposta da me utilizzata nella rivista “Film Doc”, ove da molti anni tengo una rubrica di corrispondenza con i lettori. Ecco il brano riguardante Clint, dove non avevo mancato di far cenno dell' ottimo libro sul cineasta americano del mio amico Alberto Castellano che lo ha recentemente ampliato ed aggiornato, arrivando ad esaminare tutti i film sino ad ora prodotti sino ad “Hereafter” compreso. Dicevo fra l’altro nella mia risposta:


”…Iwo Jima significa l’“Isola dello Zolfo”, fa parte dell’arcipelago di Ogasawara e si trova a circa 1080 km a sud di Tokyo, a 1130 km a nord di Guam ed a circa mezza strada tra Tokyo e Saipam. L’ostinazione degli americani nel conquistarla era determinata dal fatto che, insieme ad Okinawa era di fondamentale importanza strategica per ospitare i bombardieri pesanti in grado di bombardare il Giappone. Consapevole di ciò i giapponesi vi concentrarono 25.000 uomini (22.000 secondo altre fonti) agli ordini del generale Tadamichi Kuribayashi, nato il 7 luglio 1991 e morto a Iwo Jima il 26 marzo del 1945, data citata in precedenza come termine della resistenza organizzata da parte giapponese (sembra che egli si sia suicidato ma la cosa non è sicura). Complessivamente le forze assalitrici americane, comandate dal famoso ammiraglio Raymond A. Spruance, ammontavano a circa 100.000 uomini, fra cui almeno 70.000 Marines, appoggiati da una imponente forza aereonavale. Il generale Kuribayashi, che sembra fosse persona di valore (era stato vice addetto militare a Washington; per due anni viaggiò attraverso gli Stati Uniti portando a termine un’ampia ricerca militare e industriale, e fu anche per un breve periodo studente ad Harward) aveva impostato lo scontro come un’ imponente battaglia di logoramento. Allontanata la popolazione civile egli fece scavare un complesso sistema di gallerie. La battaglia durò un mese e mezzo e fu terribilmente sanguinosa: la guarnigione giapponese venne quasi completamente annientata (i prigionieri furono solo 1.083). Dal canto loro gli americani ebbero un alto numero di uomini fuori combattimento, circa 26.000. Sostanzialmente mi sembra che Clint Eastwood abbia cercato di restituire quell’immane tragedia nel modo più attendibile. Si fece tradurre dal giapponese molti libri riguardanti il generale Kuribayashi, trovando anche una raccolta di lettere dello stesso generale. Come è noto globalmente la reazione della critica italiana e straniera è stata ampiamente favorevole a questo film, forse ancor più di quanto non lo sia stata nei confronti del precedente “Flags of our fathers”, che racconta la stessa battaglia dal punto di vista degli americani e di cui “Lettere da Iwo Jima” è la logica e schiacciante conclusione…”
In questi ed in altri film che ho citato non è detto che il fondamentale senso di paura a cui ho fatto allusione in precedenza sia sempre sensibile e consapevole. Ma probabilmente in tutte queste oper si avverte almeno un brivido di quel misterioso enigma, di quella forzata e infinità crudeltà, di quella disciplinata mostruosità che resta la guerra
CLAUDIO G. FAVA
Battute 14.669

19 aprile 2011

MOVIOLA PERSONALE (E LIBRARIA)

Nei mesi scorsi ho qui radunato diverse mie dichiarazioni audio riguardante alcni film e pochi libri. I film sono, nell'ordine di pubblicazione:"Il discorso del Re"; "Vento di primavera"; "Il Gioiellino"; "Un gelido inverno"; "Il Grinta"; "The fighter"; "La fine è il mio inizio"; "Questo mondo è per te"; "Poetry"; "Boris". I libri sono: "Legionario" e "Ingrid Bergman". Per un mio errore, in cui è rimasto coinvolto Doretti, gli interventi non sono stati preceduti dall' intestazione di rubrica "Moviola personale" alla quale adesso ho aggiunto anche l'espressione, fra parentesi, "e libraria". Chiedo scusa a tutti. Da questo momento l'omissione è sanata, e mi auguro lo sia anche per il futuro.


Per ora non inserisco interventi audio (ne realizzerò alcuni prossimamente) così come sto preparando i collegamenti telefonici con alcune personalità, che avevo preannunciato e promesso ai lettori. Pongo invece qui una nuova recensione libraria riguardante un libro intitolato "I cani di Roma", scritto da Conor Fitzgerald, edito da Ponte alle Grazie e stampato nel febbraio 2011. Avendo letto che era un giallo scritto da un inglese nato a Cambridge nel 1964, il quale però abita in Italia dal 1989, mi sono incuriosito ed ho fatto qualche ricerca. Ho telefonato per informazioni al gentilissimo Capoufficio stampa di Ponte alle Grazie (Matteo Columbo, telefoni: 02/34.59.76.32 - Cel 349/126.99.03 - e-mail: matteo.columbo@ponteallegrazie.it) ed egli ha spinto la sua cortesia sino a spedirmi immediatamente il libro.

In effetti Fitzgerald (ha collaborato all'edizione italiana degli "Scritti italiani" di James Joyce, per sei anni ha curato a Roma un quotidiano bilingue francese-inglese, ha co-fondato una agenzia di traduzione ed insegna ad una scuola superiore per traduttore ed interpreti) deve essere un curioso esempio, come si diceva una volta, di "inglese italianato, diavolo incarnato". Infatti ha esordito qui con un giallo (già seguito in Inghilterra da un secondo volume con lo stesso protagonista) ambientato a Roma e curiosamente centrato su un commissario di polizia, che si chiama Alec Blume. Americano di origine (è cresciuto a Seattle) è ormai cittadino italiano. Blume è la chiave di tutto, perchè al tempo stesso è pienamente italiano nell'uso delle inevitabili furbizie e scaltrezze burocratiche implicite nella sua professione di funzionario della Repubblica italiana, ma conserva anche una sorta di originaria durezza anglosassone. Si vede benissimo come questa duplice natura sia uno strumento decisivo per consentire a Fitzgerald di fare filtrare fra le righe la sua reazione nei confronti di una nazione e di una città nella quale si è inserito da quando aveva venticinque anni, che forse non gli dispiace ma di cui vede lucidamente difetti e disfunzioni con l'occhio di un turista straniero. Si intuisce assai bene che tanti aspetti di Roma, dal traffico allo stato delle strade e dall'idea stessa di pulizia comunale, lo lasciano perplesso e forse lo innervosiscono. Al tempo stesso il fatto che il suo protagonista sia, dal punto di vista della carriera, non soltanto italiano a tutti gli effetti ma pienamente inserito in quella significativa burocrazia che è, in ogni nazione, la struttura poliziesca, rende la sua personalità egualmente insolita e rivelatrice. Fitzgerald non scrive male. Il suo gusto anglicizzante per un dialogo serrato e incalzante sorregge il libro con una robusta architettura formale che gli consente di svolgere al meglio il tema di fondo, ovviamente costituito da una complessa indagine di polizia. Qui si rilevano alcune delle sue caratteristiche principali di giallista insolito ma a tempo pieno: la malavita che egli descrive è, in tante cose, debitrice alle convenzioni correnti sulla mafia, ma non ha niente a che fare con quest ultima perchè non ha caratteristiche siciliane e semmai rivela una sorta di scorrevole struttura propriamente europea. Mentre la polizia come viene ritratta nelle sue pagine è furbescamente italiana ma anche genericamente debitrice alla presenza schiacciante di uno Stato inefficiente ma potente. Così come accade appunto sovente nei paesi latini. Insomma si tratta di un esordio tutto sommato positivo quello di Fitzgerald. E confesso che mi auguro che il suo secondo romanzo venga tradotto e pubblicato in italia proprio per capire se si tratta di un fuoco di paglia o non piuttosto, come mi auguro, dell'inizio di una brillante carriera di giallista "fuori casa".
Leggendolo mi è venuta la voglia di capire se, come mi sembrava di ricordare, vi siano altri giallisti di lingua inglese residenti in Italia. In internet alla voce "italian-mysteries.com" ho infatti trovato un piccolo studio intitolato "The definitive Website for English-language Mystery Novels Set in Italy". Vengono citati diversi autori che però, in genere, hanno la comune caratteristica di vivere in Italia ma di avere inventato protagonisti italiani di nascita. L'autore dello studio, Carlo Vennarucci, divide gli autori da lui censiti in cinque categorie contrassegnate da bandierine italiane in numero da cinque a una. La prima è quella che riscuote il massimo del suo gradimento. Infatti egli specifica che l'autore: "Capture the essence of the Italian personality and Italy's social and political culture. Well written. Interesting characters that are authentic Italian. A joy to read!". Via via il consenso di Venerucci diminuisce ma rimane per le quattro e le tre bandierine. Con due bandierine la condanna è già esplicita, perchè egli dice che il testo non è scritto bene e che le "Italian references" non sono autentiche, praticamente non vi sono "characters" italiani e la vicenda potrebbe svolgersi ovunque. Con una sola bandierina il giudizio è definitivamente negativo: "Really bad. Definitely not recommended". Fra gli autori censiti vi sono, ad esempio, Timothy Williams (quattro bandierine) nato in Inghilterra nel 1946, che ha insegnato anche nell'Università di Bari e di Pavia e che ora vive in Guadalupa. Ha pubblicato almeno cinque romanzi, che si svolgono prevalentemente a Pavia e che hanno come protagonista il Commissario Trotti. Cinque stelle riscuote addirittura Donna Leon, americana di origine spagnola e irlandese, che venne in Italia per la prima volta nel 1965 e vi ritorno diverse volte durante una vagabonda carriera accademica. Da oltre vent'anni si è stabilita a Venezia e vi ha ambientato, a partire dal 1992 più di 20 romanzi gialli centrati sul Commissario Guido Brunetti. Iain Pears, è giornalista, storico e critico d'arte ed ha ambientato in italia, fra Roma e la Toscana, sette romanzi centrati sulle investigazioni di uno storico dell'arte che si chiama Jonathan Argyll e di una Commissaria italiana, Flavia di Stefano, che si occupa appunto di furti di quadri e di sculture. La serie si chiama infatti "The Flavia di Stefano mistery series". Vennarucci gli dà cinque bandierine. Magdalen Nabb, nata nel 1947 nel Lancashere e morta nell'agosto 2007 a Firenze ove aveva ambientato , dal 1981 al 2008, 14 gialli tutti con lo stesso protagonista il Maresciallo dei carabinieri Salvatore Guarnaccia (per il terzo volume della serie, "Death of Dutchman", del 1983 sembra che la prefazione sia stata scritta da Georges Simenon). Sembra anche che la Nabb debba molte informazioni sull'Arma a un ufficiale, Nicolino d'Angelo, divenuto generale e che al funerale di Magdalen, deceduta per un colpo apoplettico, fosse presente una rappresentanza dei carabinieri. Per brevità elenco qui altri giallisti anglofoni che hanno ambientato i loro libri in Italia. Ad esempio un altro inglese, Michael Dibdin, morto anch'egli nel 2007, inventore del malinconico Commissario Aurelio Zen, oppure Christobel Kent, che vive vicino a Cambridge col marito e cinque figli e che ha collocato a Firenze l'ex-poliziotto e poi investigatore privato Sandro Cellini. Tobias Jones si è trasferito a Parma nel 1999 ed ha inventato il detectiv privato Castagnetti. A Ian Merete Weiss risale una donna, Natalia Monte, Capitano dei carabinieri, che investiga a Napoli sulla camorra. Incidentalmente non sono pochi gli scrittori famosi che hanno scelto occasionalmente l'Italia come sfondo per i loro testi. E' accaduto per Siena con Frederick Forsyth e per il Vaticano con Tom Clancy e Arturo Pèrez-Reverte. Ma qui il discorso ci porterebbe troppo lontano.

Come si vede un'ampia maggioranza di anglofoni vive in Italia e inventa personaggi, come si è detto prima, rigorosamente italiani. Anche in questo Conor Fitzgerald è un' eccezione, perchè la duplice natura di Blume, totalmente a cavallo fra due nazioni e due culture, rappresenta una creativa curiosità, al tempo stesso molto snobistica e molto significativa.

1 aprile 2011

QUARTO AVVISO AI NAVIGANTI

Come avrete visto ho rallentato i miei contributi al blog per i già ricordati problemi di salute. Sperando di essermi ripreso ricomincerò a lavorare sul serio! Per ciò che riguarda gli interventi telefonici richiesti dai lettori ho già preavvisato sia Sanguineti che De Fornari. E telefonerò al più presto, anche a molti soggetti previsti nella mia precedente comunicazione.

In seguito ad una amichevole conversazione con il professore Giorgio Fedel, ordinario di Scienza Politica presso l'Università di Pavia, ho pensato di scrivere per la sua rivista, che si chiama appunto "Quaderni di Scienza Politica", un articolo che, previa sua autorizzazione, pubblicherò anche nel Blog, su un tema che mi interessa da tempo. E cioè la clamorosa compenetrazione dei problemi disparati riguardanti la figura, le competenze, i valori, le potenziali avventure personali e politiche dei Presidenti degli Stati Uniti sia nel cinema che nel romanzo popolare americani. Come è noto il rapporto che la maggioranza dei cittadini americani rivela con il presidente una mescolanza di reazioni propriamente politiche ma anche di sussulti affettivi, molto simili a quelli che legano alcuni sudditi di paesi monarchici al loro sovrano. Per dirla in parole povere la Presidenza della Repubblica è in America una sorta di monarchia a tempo determinato, con la quale si instaurano legami a volte tirannici ma, al tempo stesso, in qualche modo fuggevoli. Vale a dire con gli stessi risvolti di fedeltà che uniscono un suddito al suo Re e al tempo stesso con l'obbligatorio cinismo di un coniuge doverosamente infedele.

Questo tema interessa qualcuno? Volete mandarmi suggerimenti ed osservazioni?

Aspetterò qualche giorno prima di cominciare a scrivere e in tanto raccoglierò del materiale sul tema.

Tutti al lavoro!