(Nella foto qui sopra: il regista Richard Brooks insieme a Maria Schell durante la lavorazione di "Brother Karamazov", "I fratelli Karamazov", del 1958)
Da tempo mi ronzava per il capo (scrivo come un minore toscano dell'Ottocento) la tentazione di scrivere un brano meditato su un regista che ho molto amato in passato e per il quale continuo a provare una profonda tenerezza: Richard Brooks. Ho cominciato a raccogliere materiale, ad analizzare i giudizi di Morandini e le recensioni contenute in "Internet Movie Database", ed a fare ricerche di un suo prezioso romanzo - "Hollywood nuda", in originale "The Producer" - di cui possedevo un raro esemplare (uscì in Italia nel 1956, inserito nella preziosa collana "I romanzi del Corriere", dove vennero pubblicati, molti anni prima di Garzanti, alcuni dei romanzi di Fleming della serie "James Bond) che non riesco più a trovare. Infine decisi di dare un'occhiata alle enciclopedie che ho in casa. Nell'Enciclopedia del cinema della Treccani - ho compilato diverse voci nella sezione diretta da Gianluca Farinelli - non esiste la voce "Richard Brooks". In compenso c'è nel "Dizionario dei registi del cinema mondiale", pubblicato dal Einaudi nel 2005, diretto da Gian Piero Brunetta, affiancato alla "Storia del cinema mondale", e articolato in tre tomi. Ho cominciato a consultarla, compiacendomi per l'ampiezza del testo ed anche per la fondatezza delle ragioni critiche, con cui mi sentivo di concordare al 100%. Pieno di buona volontà sono andato a controllare la firma ed ho scoperto che il brano lo avevo scritto io! Mi ricordavo di aver collaborato all'iniziativa ma avevo totalmente dimenticato quella voce specifica. Naturalmente ho rinunciato (almeno per ora) all'idea di scrivere un testo che, almeno in parte, sarebbe ineluttabilmente una ripetizione di quello apparso nell'enciclopedia. In compenso ho deciso di pubblicarlo nel Blog. Penso di poterlo fare senza danneggiare né l'editore né Brunetta (avviserò quest'ultimo via e-mail). Per scrupolo ripropongo qui i dati editoriali: "Dizionario dei registi del cinema mondiale" (Tre tomi), Torino, Einaudi, 2005-2006. Volume A-F: 78€, Volume G-O: 78€, Volume P-Z: 85€.
Mi auguro che l'eventuale lettore voglia apprezzare se non l'attendibilità del mio testo, almeno l'affetto che lo permea.
Mi auguro che l'eventuale lettore voglia apprezzare se non l'attendibilità del mio testo, almeno l'affetto che lo permea.
RICHARD BROOKS
(Filadelfia, Pennsylvania, 18 maggio 1912// Beverly Hills, Los Angeles, 11 marzo 1992). Frequenta la West Philadelphia High School poi la Temple University. Giornalista sportivo all’ “Atlantic City Press Union”, al “Record” di Filadelfia ed al “World Telegram” di New York. Qui lavora anche alla stazione radio WNEW e viene infine assunto nel “writing pool” del network NBC. Dopo un anno come direttore di un teatro, il New York Mill Pond Theatre, ecco l’inevitabile trasferimento “cinematografico” a Los Angeles ove scrive drammi radiofonici e sceneggiature per film di serie B e per seriali. C’è la guerra e dopo due anni di servizio nei Marines, Brooks esordisce nella narrativa con “The Brick Foxhole”, un romanzo che sarà poi la base di Crossfire (Odio implacabile,1947) di Dmytryk. (ne scriverà altri, fra cui “Il produttore”, interessante affresco di vita hollywoodiana al centro del quale un personaggio che ricorda molto Mark Hellinger). Dal 1942 al 1950 cresce come “writer” per il cinema: fra l’altro Brute Force(Forza bruta, 1947) di Jules Dassin e Key Largo (L’isola di corallo,1948) di John Huston. La buona fama che si è procurato grazie alle sceneggiature, gli consente nel 1950, con l’intercessione di Cary Grant (sarà il protagonista), di esordire nella regia con un piccolo film ingegnoso: Crisis (La rivolta). Complessivamente nel corso di 35 anni dirigerà 24 film, quasi tutti su sue sceneggiature. (nel corso della scheda indicherò solo le sceneggiature in cui Boooks è assente, dando per scontato che in tutte le altre il testo sia suo). Negli anni ’50 e ‘60 la sua carriera è in netta ascesa e sul suo nome c’è convergenza di attenzione dei critici e dei produttori: è considerato un” indipendente” anche se continuerà ad essere inserito nello “studio system” sino al 1965. E’ il suo periodo di maggior fortuna. Si può dire che dal 1956 al 1968 la gente di Hollywood gli riconosca una sicura preminenza: in dodici anni ben 5 volte entra nelle “nominations” per gli Oscar. Tre implicano addirittura una duplice candidatura per la migliore regia e la migliore sceneggiatura. E cioè nel 1959, Cat on a Hot Tin Roof (La gatta sul tetto che scotta), per il testo insieme a James Poe, nel 1967 The Professionals (I professionisti), nel 1968 In Cold Blood (A sangue freddo) dal libro di Truman Capote. Due, invece, le candidature solo per la miglior sceneggiatura: nel 1956 Blackbord Jungle (Il seme della violenza). E infine nel 1961 quella che gli frutta il premio pieno per Elmer Gantry (Il figlio di Giuda). Due statuette toccano anche a Shirley Jones ed a Burt Lancaster, i due protagonisti.
(Nella foto qui sopra: Burt Lancaster e Shirley Jones ne "Il figlio di Giuda", "Elmer Gantry", del 1961)
Da quel momento, pur proseguendo in modo abbastanza soddisfacente, la carriera di Brooks ha una sorta di incrinatura. Il cinema via via gli cambia intorno e così, si può dire, in fondo degli stessi Stati Uniti d’America ulcerati dalla crisi del Vietnam. Al momento della morte non v’è dubbio che Brooks, un tempo al centro dell’attenzione, si trovi ormai, ingiustamente, alla periferia degli interessi del pubblico mondiale e della critica (non ovunque: ad esempio, in Francia “Positif” continuerà ad interessarsi della sua carriera). Dal 1960 al 1977 Brooks è stato sposato all’attrice Jean Simmons (già moglie di Stewart Granger)da cui ha avuto una figlia, Kate.
Come molti intellettuali, giornalisti e scrittori americani cresciuti con la Depressione , Brooks aveva un fondo “liberal” ed una gran voglia di raccontare l’America con una senso di partecipazione ma anche di polemica E’ tipico il caso del suo primo romanzo, “The Brick Foxhole”, ove si narrava dell’assassinio di un omosessuale ad opera di un soldato fanatico. Nel film già ricordato (sceneggiato da John Paxton) l’omosessuale diventa un ebreo, soggetto anch’esso all’epoca quasi tabù, ma non completamente: non è un caso che nello stesso anno Elia Kazan porti sullo schermo “Gentleman’s Agreement” (Barriera invisibile) ove un giornalista si finge ebreo per capire a quali discriminazioni andrà appunto incontro nella società americana del secondo dopoguerra. Al tempo stesso Brooks possedeva un naturale talento per il racconto in qualche modo avventuroso, inteso a recuperare antiche tradizioni del cinema nazionale centrate su figure di coraggiosi e spesso spavaldi difensori se non della legge e dell’ordine quantomeno della libertà dentro la legge. Articolato, da uomo di scrittura e di libri, dentro un rapporto fisiologico con il romanzo, da cui quasi tutti i suoi film prendono le mosse. Lo si vede assai bene nel già ricordato e rivelatore film d’esordio “Crisis” (da un romanzo del versatile George Tabori) ove un noto chirurgo americano - Cary Grant - in vacanza con la moglie in un piccola nazione dell’America Latina è catturato da un feroce dittatore (Mel Ferrer, la cui origine ispano- portoricana qui ha un senso) che deve essere operato d’urgenza per un tumore al cervello. Si ritrovano intorno molti volti latino-americani anche troppo credibili e un tempo famosi: Ramon Novarro, Gilbert Roland. Antonio Moreno). E, soprattutto, si coglie la secondaria ma non trascurabile vocazione parapolitica del regista e insieme la sua esatta intenzione avventurosa, da vecchio giornalista pratico delle reazioni del pubblico e capace di intuirle tempestivamente. Il secondo film, The Light Touch (L’immagine meravigliosa) è una variazione ovvia e dignitosa su un tema classico: il ladro in guanti gialli che si innamora della pittrice di cui ha rubato un quadro (con Stewart Granger e Anna Maria Pierangeli, qui ribattezzata, come è noto, Pier Angeli). Ma già al su terzo film Brooks dimostra quali sono le sue qualità: di colpo il suo nome diventa famigliare a tutti gli appassionati dell’epoca. “Deadline U.S.A” (“L’ultima minaccia”) è in assoluto uno dei più bei film americani sul giornalismo ed i giornalisti ed un prova della maturità già raggiunta da Brooks. Il meccanismo del racconto è complesso e lineare al tempo stesso. Le frivole sorelle Garrison, figlie del famoso fondatore del quotidiano “The Day”, progressista e raffinato, sono ben decise ad accettare la rilevante offerta del proprietario del maggior giornale concorrente, vogare e populista, che vuole liberarsi di un antagonista fastidioso. Si battono per evitarlo solo Ed Hutchinson, l’abilissimo direttore, che per amore del giornale ha distrutto anche il suo matrimonio (in assoluto una delle migliori interpretazioni di Humphrey Bogart), aiutato nell’inutile lotta dalla vedova del proprietario Margaret Garrison (Ethel Barrymore: ancora una volta straordinaria, meno celebrata ma forse migliore dei più celebrati fratelli). Non riesce ad impedirlo ma porta a buon fine la lotta contro un gangster che avvelena la città. Come antologia di situazioni di un quotidiano americano (curiosamente manca solo la fase dell’impaginazione, determinante ai tempi del piombo) è un classico: la vita di redazione, le ricerche d’archivio, le inchieste, il brano famoso della veglia funebre del “Day” a cui partecipano, fra il tragico ed il comico, i redattori un poco ebbri. Il finale del film è ricordato da molti perché venne usato anche dalla pubblicità: il gangster (nell’originale si chiama Rienzi; il pudico doppiaggio italiano d’epoca lo ha mutato in Rozick) minaccia Hutchinson per telefono e chiede che cosa è questo “racket”(il rumore delle rotative). Il direttore tende il microfono verso le enormi macchine e risponde: ”E’ la stampa, Bellezza (nell’originale: “Baby”) e non puoi farci niente”. (Si dice che il tema della vendita forzosa rispecchi la fine del grande giornale di Pulitzer: il “New York World”).
(Nella foto qui sopra: un intenso Humprey Bogart sul set de "L'ultima minaccia". Si dice che il personaggio sia stato ispirato dalla figura di Joseph Pulitzer)
Da quel momento la carriera di Brooks, con alti e bassi, prosegue con disinvoltura. Battle Circus, da un racconto di Allen Rivkin e Laura Kerr, è la descrizione di un Ospedaletto da Campo in Corea (un “Mash”!) sfondo dolciastro di amori fra Bogart e June Allyson ma anche di corretta osservazione bellica. “ Take the High Ground !” è un buon esempio di film d’addestramento militare, genere di cui un tempo Hollywood aveva il segreto (con gente come Widmark e Malden anche la naia è credibile). Mentre The Flame and Flesh ed in parte anche The Last Time I Saw Paris (nonostante la intermittente ispirazione fitzgeraldiana del secondo) rappresentano l’inevitabile tappa drammatico- sentimentale che ha quasi tutti i registi hollywoodiani è stato chiesto di percorrere. Al contrario Blackboard Jungle, da un abile romanzo di Evan Hunter (ovvero Salvatore A. Lombino, e quindi anche Ed McBain), rappresenta l’ esplosiva intrusione nel cinema degli anni ’50 del rock e della violenza studentesca sulla sfondo della tensione razziale. E’ la definitiva consacrazione dell’autore come regista di successo. A questo punto, come si è detto, Brooks conosce un periodo di ineguale ma trepida felicità creativa.. Da The Last Hunt a In Cold Blood un galleria piena di fascino: riottosi cacciatori di bisonti, crepuscolari popolani d’origine irlandese, due coloni grandi amici fra di loro ma costretti a battersi perché uno è bianco e l’altro nero, una inevitabile variazione dostojevskiana, la liturgia teatrale sulle scottanti gatte di Tennessee Williams, la grande variazione ironico - religiosa dall’”Elmer Gantry“ di Sinclair Lewis, il rinnovato ed abile incontro con la torva compiacenza di Tennesse Williams, l’omaggio riverente al Lord Jim di Conrad, il grande bianco e nero che rende omaggio al libro di Capote su una strage feroce e doppiamente insensata. Dal 1969 al 1985 ancora sei film, prima della fine: almeno tre vanno ricordati con l’ammirazione affettuosa che merita un intellettuale pieno di doti e di articolata sensibilità che al cinema ha chiesto troppo, o forse troppo poco: $ (leggi: Dollars) nei film “da colpo grosso”è un piccolo classico, da giallista nato,; “Bite the Bullet” un insolito western di classe in un periodo dove il genere affrontava già la decadenza; “Looking for Mr. Goodbar” un disperato apologo di solitudine in un mondo in cui l’autore si avverte sempre più solo.
(c.g.f.) Claudio G. Fava
Filmografia:
Crisis (La rivolta, 1950), L’immagine meravigliosa (The Light Touch, 1951), L’ultima minaccia (Deadline U.S.A., 1952), Battle Circus (Essi vivranno, 1953), Take the High Ground ! (Femmina contesa, 1953), The Flame and the Flesh (La fiamma e la carne, 1954), The Last Time I Saw Paris (L’ultima volta che vidi Parigi, 1954), The Blackboard Jungle (Il seme della volenza, 1955), The Catered Affair (Pranzo di nozze, 1956), The Last Hunt (L’ultima caccia, 1956), Something of Value (Qualcosa che vale), Cat on a Hot Tin Roof (La gatta sul tetto che scotta, 1958), Brothers Karamazov (I fratelli Karamazov, 1958), Elmer Gantry (Il figlio di Giuda, 1960), Sweet Bird of Youth (La dolce ala della giovinezza, 1962), Lord Jim (idem, 1965), The Professionals (I professionisti, 1966), In Cold Blood (A sangue freddo, 1967), Happy Ending (Lieto fine, 1969), $ (Il genio della rapina, 1972), Bite the Bullet (Stringi i denti e vai !, 1975), Looking for Mr. Goodbar (In cerca di Mr. Goodbar, 1977), Wrong is Right (Obbiettivo mortale, 1982), Fever Pitch (Febbre di gioco, 1985).
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