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13 marzo 2009

Prove di funzionamento del sottogoverno


(Nella foto qui sopra: il Palazzo della Mostra del Cinema, al Lido di Venezia)

Mi è venuta in mente una cosa di cui non mi pare di aver fatto menzione nell’autobiografico “Clandestino in galleria”, pubblicato da “Le Mani” nel 2003. E cioè della mia riluttante ma disciplinata presenza all’interno di una commissione di critici (non so più se si chiamasse “commissione di consulenza” o “commissione di selezione”) che lo statuto dell’epoca prevedeva a fianco del Direttore della Mostra di Venezia e che avrebbe dovuto esercitare un compito preciso nell’individuazione dei film in concorso al Lido. Era il periodo in cui la carica era ricoperta da Guglielmo Biraghi, che era stato curatore della Mostra nel 1987 per poi subentrare come direttore a tutti gli effetti dal 1988 al 1991, vale a dire per quattro anni. Siamo dunque nel 1988 quando i partiti (che allora in Italia si occupavano di tutto, cosa che forse accade ancora oggi) decisero di nominare i membri della commissione di esperti che, appunto, doveva operare insieme a Biraghi. Scattò un meccanismo complesso di designazioni per cui dal Partito Liberale mi fecero chiedere se la nomina mi avrebbe interessato. E io, ignaro, risposi di sì. Di tutta l’operazione si occupò Ludina Barzini, figlia di Luigi Barzini Junior, e pertanto inserita in una famiglia che ha sempre avuto il suo peso nel mondo giornalistico italiano. Con Ludina diventammo amici e lei mi ha sempre dimostrato grande gentilezza e simpatia. Credo di aver capito che per inserirmi nella commissione dovette anche alzare la voce con Biraghi, che io conoscevo da anni perché da molto tempo era il critico cinematografico de “Il Messaggero”, giornale il cui peso e la cui incidenza sono estremamente dilatati per il fatto di essere redatto e stampato a Roma, sicché l’importanza di quel che vi è scritto è comunque decisiva perché proviene dalla Capitale. Il risultato finale fu che la commissione di esperti risultò composta, oltre che da me, da Giorgio Tinazzi, ordinario di Storia del Cinema a Padova, da Adriano Aprà, una delle figure storiche della cinefilia capitolina, da Michel Ciment, grande critico cinematografico francese ancora oggi direttore di “Positif” (una delle migliori riviste del mondo), e da Fernaldo Di Giammatteo. Quest’ultimo era un vecchio amico che ha avuto anche grandi meriti nella divulgazione libresca e televisiva di un suo antico amor di cinema. Vorrei ricordare qui il suo “Dizionario universale del cinema”, scritto insieme a Cristina Bragaglia, pubblicato nel 1984 da Editori Riuniti, e successivamente aggiornato dieci anni dopo con il titolo di “Nuovo dizionario universale del cinema”. Ed anche il fatto che fondò e diresse per molti anni la fondamentale collana monografica sui registi “Il Castoro”. Fernaldo aveva un pessimo carattere. Perciò non mi stupii molto che cominciasse a litigare con la Mostra non appena entrato in funzione. Di fatto, fu in disaccordo totale fin dal primo giorno e credo che, alla fine, abbia dato le dimissioni. Non sono mai riuscito a capire perché avesse accettato. Per la verità, rinunciare all’incarico è la cosa che avremmo dovuto fare noi altri quattro, perché Guglielmo, un gentleman di buona famiglia abituato sin da piccolo a parlare diverse lingue, sembrava fragile ma in realtà era sagomato nell’acciaio (ho scoperto adesso che era laureato in Chimica, cosa che nessuno di noi aveva mai sospettato). Non tornava mai sulle sue decisioni e nei nostri confronti adottò sin dall’inizio un atteggiamento molto preciso: non aveva nessuna intenzione di utilizzarci nella selezione dei film per la Mostra e in ogni altra possibile direzione. L’unica cosa in cui avremmo potuto aiutarlo era quella di dedicarci ai cosiddetti “Progetti Permanenti”, e cioè ad oscure e fumose iniziative che avrebbero dovuto contraddistinguere la Mostra da un anno all’altro, e che non riuscimmo mai ad avviare perché nessuna delle ipotesi da noi avanzate fu accettata da Guglielmo. In realtà, oltre che dal prima ricordato “amor di cinema”, che lo spinse ad essere per più di trent’anni il critico de “Il Messaggero” ed a dirigere, prima di Venezia, il Festival di Taormina, egli era animato da un’irresistibile passione: la malacologia. E cioè lo studio e la collezione delle conchiglie, di cui fu un inarrivabile raccoglitore e per cui in casa sua dovette far costruire appositi mobili da esposizione. Ogni tanto, in viaggio, me ne parlava con un misto di ostentazione e di vergogna, come probabilmente accade a tutti i cultori maniacali di raffinate e insospettabili specializzazioni periferiche. In realtà sembrava distratto e volubile nell’esercitare il suo mestiere di organizzatore ma, come giustamente ricordava Giuseppina Manin in un articolo scritto il 24 Aprile 2001 in occasione della sua morte (Guglielmo aveva 74 anni), operò scelte furbesche ed applaudite nel selezionare i film della Mostra. Con qualche approssimazione sembra sia dipesa da lui la scelta dell’Almodòvar di “Donne sull’orlo di una crisi di nervi”, della Jane Campion di “Un angelo alla mia tavola”, del Kieslowski del “Decalogo” e del Reitz di “Heimat”, per non parlare di opere come “Un pesce di nome Wanda”, “L’attimo fuggente”, “Indiana Jones e l’ultima crociata”. Questo a testimonianza della sua capacità di valutare desideri del pubblico e snobismi della critica. Di sicuro fu lui a portare a Venezia un potenziale film scandalo come “L’ultima tentazione di Cristo” di Martin Scorsese. Lo incontrai in giro per la città e mi parve eccitato dalla prospettiva di fare un colpo di mano cinematografico. Andare in serata a Parigi e lì prendere un volo per New York a bordo dell’allora famosissimo “Concorde”, che arrivava in America in poche ore. Una volta arrivato, abilmente utilizzando una serie di affannosi appuntamenti automobilistici, da New York sarebbe andato in provincia a vedere il film, per tornare poi subito a Parigi (o a Londra) con un altro volo “Concorde”. Era felice come un ragazzino e si apprestava, senza paura, ad affrontare le violente polemiche che poi ci furono veramente (a più di vent’anni distanza si fa fatica a ricordarle).
In sostanza, rimanemmo quattro anni a far parte di quella commissione fantasma, vergognosamente usufruendo degli svantaggi e dei piccoli vantaggi della situazione: i due o tre viaggi annuali a Venezia, ospitati all’eccellente Hotel Europa, con sala da pranzo sul Canal Grande; i complicati, inconcludenti incontri con Guglielmo, con noi che chiedevamo di fare qualcosa di utile e lui che tortuosamente giungeva a negarcelo; le cene a base di pesce in qualche ristorante caratteristico; le lettere a Biraghi in cui formalizzavamo il nostro scontento, e le sue risposte evasive; il ritorno a Roma con le pive nel sacco durante i lunghi e fascinosi trasferimenti in vagone letto (i “Wagon lits”, con i loro rituali amministrati dai conduttori in divisa e con berretto a pentolino, furono fino a pochi anni fa le ultime toccanti testimonianze della “Belle epoque”).
Per far mente locale e rievocare qualche particolare ho telefonato a Giorgio Tinazzi ed egli mi ha ricordato le lettere a Biraghi e gli scrupoli contabili del nostro amico Ciment, che ad ogni viaggio a Venezia chiedeva puntualmente se c’era un “jeton”, per ricompensarci in quella particolare occasione (e naturalmente non c’era mai).
Non so perché questo minimo accadimento televisivo e cinematografico degli anni ’80 mi sia tornato in mente. Ma è certo che rimane come un minuscolo tassello delle assurdità periferiche e delle piccole perdite finanziarie dovute al “sottogoverno all’italiana”.
È, per caso, ancor significativo anche oggi?

Claudio G. FAVA

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