(Nell'immagine qui a fianco il simbolo de "L'Union Valdôtaine")
Da molti anni ricevo regolarmente il settimanale “Le peuple valdôtain”, organo ufficiale de “L’Union Valdôtaine”, la formazione politica che ha il massimo dei consensi in Valle d’Aosta (data la struttura del voto europeo, nelle elezioni passate si era alleata con il Partito Democratico; per le elezioni del 6-7 Giugno 2009 si è invece alleata con il PDL, brusco cambiamento di indirizzo che però tiene conto delle peculiari caratteristiche del voto all’interno di una piccola regione autonoma; com’è noto, i collegi delle votazioni europee sono ampi e se non mi sbaglio in Liguria si può votare per “L’Union Valdôtaine”,). Debbo dire che il “Peuple valdôtain” io me lo leggo in genere dalla prima all’ultima riga, compresi i notiziari di ogni tipo, gli annunci delle recite teatrali in franco-provenzale, che i valdostani chiamano “Patois”, e perfino gli esiti degli sport locali che hanno nomi misteriosi e di cui non so assolutamente niente: Fiolet, Tsan, Rebatta. Questo per dire lo scrupolo con cui studio una pubblicazione ove cerco di individuare le caratteristiche minute e collettive di un movimento politico il quale nasce da una rivendicazione etnica e linguistica, ma che dopo 60 anni mi sembra sia divenuto un automatismo ed una civetteria locali.
Perché dico questo? Perché il giornale da un lato risponde ad un preciso richiamo culturale ribadito dall’uso del francese. In italiano si ritrovano soltanto frammenti di discorsi politici generali, ricopiati pari pari, o i flani pubblicitari di ditte valdostano-piemontesi, che evidentemente non possono concedersi variazioni bilingui e che perciò annunciano “Fornitura e posa in opera di serramenti esterni” oppure “Produzione tubi e raccordi in PVC e PE”. Tutto il resto è in francese, in una lingua scrupolosamente rispettata ma in qualche modo inamidata con delle piccole infiltrazioni italiane (ad esempio gli assessori regionali e comunali si chiamano “assesseurs” e non “adjoints”, “du maire” per quelli comunali, e via variando). Leggendo il giornale si ha la sensazione, forse errata, di una puntigliosa consultazione di vocabolari italo-francesi per non includere erroneamente italianismi e modi di dire locali, in italiano o in dialetto. C’è stato un periodo in cui regolarmente io venivo invitato (adesso mi muovo meno) al “Noir in Festival”, consolidata manifestazione sul cinema e sul romanzo gialli, di cui sono stato consulente già quando si svolgeva prima a Cattolica (il “MystFest”) e poi a Viareggio. Il “Noir in Festival” ha sede a Courmayeur, antica località montana prediletta dai Savoia, dove, a parte qualche albergo e qualche ristorante con il nome francese, tutto è italiano: dalle insegne alla lingua di ogni giorno. L’italiano è totalmente prevalente anche sulla bocca di quelli che teoricamente dovrebbero essere francofoni: a me è capitato nel principale hotel di Courmayeur di cenare con un gruppo di influenti politici locali. Quando arrivavano si stringevano la mano dicendo “Bonsoir, Bonsoir”, e poi proseguivano il discorso in italiano. Del resto la Francia dista non più di una ventina di km, compresa la lunga galleria di confine, ma è come se fosse situata in un’altra parte del mondo. Ad esempio dai giornalai, mentre c’è un’ampia scelta di quotidiani italiani e di lingua inglese come in tutte le stazioni turistiche eleganti, non c’è un solo giornale francese: né “Le Monde”, né “Le Figaro”, per non parlare dei locali come il “Dauphinée Liberé”. Non faccio cenno della lingua che si ode per strada, che è l’italiano per gli indigeni e l’italiano con forte accento milanese per i turisti.
Al contrario, tutta la politica de “L’Union Valdôtaine” ribadisce una commovente fedeltà, non so se formale o sostanziale, al francese come lingua e come cultura. La regione fa orgogliosamente parte della comunità mondiale francofona e partecipa con suoi inviati ufficiali alle periodiche riunioni in giro per il mondo, ovunque ci sia una minoranza etnica o anche solo culturale di lingua francese. Un esame attento del settimanale consente molte piccole scoperte parziali. Ad esempio la maggioranza dei politici de “L’Union Valdôtaine” ha cognomi francesi ma spesso nome proprio italiano (si vedano Alberto e Italo Cerise, Giuseppe Jocallaz, Carlo Grosjaques, eccetera). Mentre c’è tutta una generazione il cui nome proprio francese figura orgogliosamente a fianco del cognome (Jean-Pierre Lillaz, Joel Farcoz, Laurent Brunodet, Laurent Dunoyer: che son tutti giovani e che si direbbe abbiano recuperato il suono interamente francofono dell’identità al di là delle convenzioni dello Stato Civile). Altrettanto dicasi delle nascite e dei decessi, dove le spinte si intersecano. La nascita di Ronny Pongan e la morte di Pierina Bordet veuve Pasquettas, come quella del signor Carlo Rolland, ex partigiano, ovvero “ancien maquisard”. E ben’inteso, salto a piè pari i nomi e i cognomi italiani largamente presenti fra i politici in generale ed i militanti di base. Da tutti questi dati si deduce una risicata politica locale apparentemente assai simile nelle strutture formali alle venature esplicitamente tedesche della provincia di Bolzano e dell’Alto Adige in genere, che rispondono all’esistenza di due gruppi etnici e linguistici che non si fondono e che, semmai, si tengono d’occhio furbescamente. Qui, rispetto alla zona “tedesca” dell’Italia, la fusione operata prima e soprattutto durante il Fascismo, con la scrupolosa italianizzazione dei nomi francesi delle località (quando Courmayeur era diventata “Corte Maggiore” e le barzellette locali dicevano che “Prés Saint Didier” sarebbe stato traslato in “Prete senza didietro”), è ben maggiore e ben diversa. Si ha spesso la sensazione che il bilinguismo formale, riscontrabile nelle scritte ufficiali, non corrisponda ad una realtà oggettivamente presente nella vita di tutti i giorni.
Rimane soltanto la rispettosa lettura de “Le peuple valdôtain”, a cui mi concedo con devozione ogni settimana, come di fronte ad un piccolo miracolo linguistico ebdomadario.
Claudio G. FAVA
Perché dico questo? Perché il giornale da un lato risponde ad un preciso richiamo culturale ribadito dall’uso del francese. In italiano si ritrovano soltanto frammenti di discorsi politici generali, ricopiati pari pari, o i flani pubblicitari di ditte valdostano-piemontesi, che evidentemente non possono concedersi variazioni bilingui e che perciò annunciano “Fornitura e posa in opera di serramenti esterni” oppure “Produzione tubi e raccordi in PVC e PE”. Tutto il resto è in francese, in una lingua scrupolosamente rispettata ma in qualche modo inamidata con delle piccole infiltrazioni italiane (ad esempio gli assessori regionali e comunali si chiamano “assesseurs” e non “adjoints”, “du maire” per quelli comunali, e via variando). Leggendo il giornale si ha la sensazione, forse errata, di una puntigliosa consultazione di vocabolari italo-francesi per non includere erroneamente italianismi e modi di dire locali, in italiano o in dialetto. C’è stato un periodo in cui regolarmente io venivo invitato (adesso mi muovo meno) al “Noir in Festival”, consolidata manifestazione sul cinema e sul romanzo gialli, di cui sono stato consulente già quando si svolgeva prima a Cattolica (il “MystFest”) e poi a Viareggio. Il “Noir in Festival” ha sede a Courmayeur, antica località montana prediletta dai Savoia, dove, a parte qualche albergo e qualche ristorante con il nome francese, tutto è italiano: dalle insegne alla lingua di ogni giorno. L’italiano è totalmente prevalente anche sulla bocca di quelli che teoricamente dovrebbero essere francofoni: a me è capitato nel principale hotel di Courmayeur di cenare con un gruppo di influenti politici locali. Quando arrivavano si stringevano la mano dicendo “Bonsoir, Bonsoir”, e poi proseguivano il discorso in italiano. Del resto la Francia dista non più di una ventina di km, compresa la lunga galleria di confine, ma è come se fosse situata in un’altra parte del mondo. Ad esempio dai giornalai, mentre c’è un’ampia scelta di quotidiani italiani e di lingua inglese come in tutte le stazioni turistiche eleganti, non c’è un solo giornale francese: né “Le Monde”, né “Le Figaro”, per non parlare dei locali come il “Dauphinée Liberé”. Non faccio cenno della lingua che si ode per strada, che è l’italiano per gli indigeni e l’italiano con forte accento milanese per i turisti.
Al contrario, tutta la politica de “L’Union Valdôtaine” ribadisce una commovente fedeltà, non so se formale o sostanziale, al francese come lingua e come cultura. La regione fa orgogliosamente parte della comunità mondiale francofona e partecipa con suoi inviati ufficiali alle periodiche riunioni in giro per il mondo, ovunque ci sia una minoranza etnica o anche solo culturale di lingua francese. Un esame attento del settimanale consente molte piccole scoperte parziali. Ad esempio la maggioranza dei politici de “L’Union Valdôtaine” ha cognomi francesi ma spesso nome proprio italiano (si vedano Alberto e Italo Cerise, Giuseppe Jocallaz, Carlo Grosjaques, eccetera). Mentre c’è tutta una generazione il cui nome proprio francese figura orgogliosamente a fianco del cognome (Jean-Pierre Lillaz, Joel Farcoz, Laurent Brunodet, Laurent Dunoyer: che son tutti giovani e che si direbbe abbiano recuperato il suono interamente francofono dell’identità al di là delle convenzioni dello Stato Civile). Altrettanto dicasi delle nascite e dei decessi, dove le spinte si intersecano. La nascita di Ronny Pongan e la morte di Pierina Bordet veuve Pasquettas, come quella del signor Carlo Rolland, ex partigiano, ovvero “ancien maquisard”. E ben’inteso, salto a piè pari i nomi e i cognomi italiani largamente presenti fra i politici in generale ed i militanti di base. Da tutti questi dati si deduce una risicata politica locale apparentemente assai simile nelle strutture formali alle venature esplicitamente tedesche della provincia di Bolzano e dell’Alto Adige in genere, che rispondono all’esistenza di due gruppi etnici e linguistici che non si fondono e che, semmai, si tengono d’occhio furbescamente. Qui, rispetto alla zona “tedesca” dell’Italia, la fusione operata prima e soprattutto durante il Fascismo, con la scrupolosa italianizzazione dei nomi francesi delle località (quando Courmayeur era diventata “Corte Maggiore” e le barzellette locali dicevano che “Prés Saint Didier” sarebbe stato traslato in “Prete senza didietro”), è ben maggiore e ben diversa. Si ha spesso la sensazione che il bilinguismo formale, riscontrabile nelle scritte ufficiali, non corrisponda ad una realtà oggettivamente presente nella vita di tutti i giorni.
Rimane soltanto la rispettosa lettura de “Le peuple valdôtain”, a cui mi concedo con devozione ogni settimana, come di fronte ad un piccolo miracolo linguistico ebdomadario.
Claudio G. FAVA
2 commenti:
In Valle d'Aosta , ove risiedo dal 1974 , nessuno parla francese e l'etnia principale , ammesso ma per nulla concesso abbia senso parlare di etnie nel 2009 e fuori dall'Afghanistan , è costituita dai calabresi , 25000 persone tra i 120 mila residenti . Su 100 euro di tasse che lo Stato dovrebbe percepire in Valle , ben 130 vanno alla regione , caso unico al mondo . Chi volesse saperne di più , mi scriva o telefoni . azionesocialevalledaosta@hotmail.it o 3472210510 . Arch. Giancarlo Borluzzi -Aosta .
Quando in una famiglia ci sono un po' più soldi del necessario non si dice mia "no no non li voglio, buttali nella stufa", tutt'altro, si ragiona e si fanno delle scelte: si rifà il tetto, si sistema il giardino, si cambia la macchina, tutto meno che agitarsi perché i soldi sono troppi invocando l'intervento di qualche autorità superiore che tagli i fondi.
Tu, caro Giancarlo Borluzzi, in questo modo danneggi la Valle d'Aosta.
Perché invece non impegni il tuo ingegno per aiutare a spendere meglio i denari?
Ciao. Corrado
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