Qualche tempo fa il mio amico Renato Venturelli, da qualche numero valente direttore di "Film Doc" , mi ha chiesto, in funzione di una programmazione di film sottotitolati previsti al cinema "City" di Genova, un pezzo appunto sui sottotitoli nel cinema. Come molti genovesi sanno "Film Doc" è una rivista pubblicata a cura dell'Agis (redazione di Genova, Via Santa Zita 1/1 sc.sin. telefono: 010/56.50.73) fondata molti anni fa e validamente diretta sino ad epoca recente dal predecessore di Venturelli, un altro vecchio amico, Piero Pruzzo, al quale mi lega un legame professionale che risale al dopoguerra. Lavorando in fretta e furia mi sono lasciato trascinare dai ricordi ed ho buttato giù un breve elzeviro (esattamente di 3.573 battute) profondamente dominato da gli echi di un mondo scomparso in cui mi accorgo, ogni giorno con un certo stupore, di essere vissuto. Con il permesso di Venturelli ho deciso di pubblicarlo nel Blog, ricordandovi anche che quello di "Film Doc" è il numero 94 di Settembre-Ottobre 2011.
Mi auguro che qualche amatore di cinema possa trovarlo interessante.
E’ un avvenimento minimo ma, non so perché, me ne sono ricordato per tutta la vita (che ormai è lunghetta). Nell’estate del 1945 ero ormai sfollato in campagna vicino a Novi Ligure da almeno due anni e in quei primi mesi di fine della guerra assorbivo tutto a doppia velocità: soprattutto il sapore inebriante di miele delle sigarette americane (del danno mi sono accorto cinquanta anni dopo !) e, senza paura di bombardamenti, l’andar liberamente in bicicletta a Novi, con i suoi giornali nuovissimi ed i suoi ghiotti cinematografi (ora tutti scomparsi). Un pomeriggio vado appunto a Novi ed entro in un cinema, forse l’Iris. Mentre sono ancora mezzo dentro e mezzo fuori dalla sala, scosto una di quelle tende pesanti che usavano allora e odo una voce soffocata ripetere una strana parola: “Tughedèr, Tughedèr”. Entro e vedo sullo schermo un attore che parla in una lingua che non conosco (allora il “mio” idioma straniero era il francese) e leggo una parola sovrascritta: “Insieme ! Insieme !”.
Fu quello il mio primo, indimenticabile incontro con i sottotitoli al cinema. L’attore era Charles Boyer, la parola che diceva era “Together, Together!” che suonava vagamente milanese così come l’ho prima trascritta perché la pronunciava Charles Boyer, interpretando con il suo accento francese un avventuriero rumeno in cerca di una zitella americana da sposare per entrare negli Stati Uniti. Il film era “La porta d’oro” (Hold Back the Dawn, 1941) di Mitchell Leisen, al fianco di Boyer Paulette Goddard e Olivia De Havilland, il Morandini 2011 del mio amico Morando gli dà ben tre stellette, elogiando il protagonista e gli sceneggiatori Billy Wilder e Charles Brackett. Dopo quasi 70 anni, eccetto la trama, ricordo tante cose e soprattutto l’emozione di quei sottotitoli mai visti prima, che mi aprirono un universo cinematografico ancora ignoto e che in Italia furono importati sino a tutto il 1945 dal benemerito PWB, il Psychological Warfare Branch anglo-americano (nel 1946 a Roma erano ripresi i doppiaggi ed, ovviamente, con la fine dell’occupazione l’esperimento non ebbe seguito).
Scopersi così il duplice piacere del cinema sonoro. Da un lato l’ingegnosa sovrapposizione delle voci nostrane a quelle originali, intarsiate in un altro corpo da attrici ed attori di straordinaria duttilità. Dall’altro il gusto letterario dell’immagine originale animata, se così si può dire, dal fiato primigenio di ogni personaggio, insieme alla voce, componente irrinunciabile della personalità di ognuno di noi. Affiancando così al piacere della lettura quello delle battute e dei rumori della presa diretta. Che è la regola per il cinema anglosassone e per quello di molte altre nazioni.
Come è noto il doppiaggio di fatto totale in uso in Italia è anche frutto, oltreché di una profittevole concessione ai gusti del pubblico, anche della legislazione fascista che di fatto proibì in modo esplicito di far udire al cinema lingue che non fossero l’italiano (decisione doppiamente paradossale in un mondo ancora largamente dialettofono: si spiega così la famosa battuta di Ennio Flaiano secondo cui l’italiano è la lingua in cui parlano i doppiatori).
Professionalmente ho diviso le due passioni: alla Rai ho commissionato migliaia di ore di doppiaggio e da 14 anni sono il direttore artistico del più noto Festival italiano del doppiaggio. Come cinefilo ho sempre gustato l’emozione di cogliere insieme la parziale o totale traduzione scritta di un dialogo che contemporaneamente mi scaturisce nelle orecchie.
E tutto per merito di Charles Boyer e del cinema “Iris”.
(battute: 3.573)
CLAUDIO G. FAVA
2 commenti:
Ahimè, non c'è davvero scampo, per colui il quale non parli la lingua in cui il film è stato giurato, che ricorrere al doppiaggio.
Non parlo solamente dell'inglese, lingua che sempre più persone conoscono, ma anche altre lingue, seppure parlate abbondantemente in altri paesi, come il francese, il tedesco, il russo, il cinese, lo spagnolo, il giapponese e così via.
Quali opere del cinema avremmo apprezzato nel nostro paese senza doppiaggio? Nessuna, credo.
Eppure, una volta riusciti se non a padroneggiare la lingua ostica, almeno a masticarne qualche parola, è divertente paragonare la versione originale e quella doppiata.
Solo così sarà possibile accorgersi delle acrobazie che i doppiatori debbono compiere per dare un barlume di verosimiglianza a giochi di parole spesso intraducibili in italiano.
Tra quelli divertenti che ho trovato:
FINDING NEMO (ALLA RICERCA DI NEMO)
Nemo e i suoi amici del primo giorno di scuola si sfidano a nuotare coraggiosamente oltre il "reef," ovvero la barriera corallina, dove si arriva al mare aperto, notoriamente pericoloso perché habitat dei grossi predatori. Nella scena, si vede un motoscafo.
Nemo e i suoi amici si sfidano a toccare il "motoschifo" (sic!) che è una decente e divertente interpretazione dell'originale "boat," male interpretato dagli amici del Nemo inglese come "butt," che gioca sul suono simile della parola "boat" (barca) a "butt" (sedere,) una parola che non c'entra niente ma che è perfetta per suscitare, nell' innocente equivoco, l'ilarità.
Così mentre il doppiaggio rende "motoschifo," "grande motoschifo" e "toccare il motoschifo" -- una trovata, ripeto, niente male -- in inglese abbiamo "sedere," "grande sedere" e "toccare il sedere," ovvero una scelta più immediata e spontanea delle parole alla base dell'equivoco. Accostamento che produce, se possibile, un'effetto ilare ancora più esplosivo:
In inglese:
TAD
I know what that is. Oh, oh! Sandy Plankton saw one. He called, he said it was called a...a butt.
NEMO
Whoa.
PEARL
Wow. That's a pretty big butt.
SHELDON
Oh, look at me. I'm gonna go touch the butt.
(sneezes)
Whoa!
In italiano:
TAD
Io so cos'è quello. Oh, oh! Sandy Plankton ne ha visto uno. Lo ha chiamato, ha detto che si chiama... motoschifo.
NEMO
Whoa.
PEARL
Wow. E' proprio un gran motoschifo.
SHELDON
Oh, guardatemi. Io vado a toccare il motoschifo.
(starnutisce)
Whoa!
M.
Errata Corrige:
Linea 2 -- "girato" invece che "giurato"
M.
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