C’è una notizia che tutti i giornali italiani hanno ripreso ieri e che il giorno prima era stata resa nota dal New York Times. E cioè che, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, nel 2011 i neonati bianchi non ispanici sono stati meno della metà dei due milioni di nuove nascite. Le“minoranze”(ispanici, neri, asiatici e figli di coppie miste) sono diventate, seppur di pochissimo, maggioranza, il 50,4%. E’ una notizia in qualche modo attesa ma pur sempre clamorosa. Poiché se questa tendenza demografica continua (e magari si amplifica) fra qualche generazione gli Stati Uniti saranno un paese completamente diverso da come li abbiamo conosciuti noi. In certo senso questa notizia ha anche un sapore di avvertimento per l’Italia, dove il numero degli stranieri continua sistematicamente ad aumentare. Anche perché gli italiani e soprattutto le italiane non hanno più voglia di praticare certi mestieri: si pensi alla decisiva presenza delle badanti latino-americane, rumene, moldave, ucraine, peruviane, ecuadoriane, eccetera, dalle quali, bene o male, dipende l’esistenza stessa di milioni di italiani sempre più vecchi e indifesi.
Ma negli Stati Uniti il “sorpasso” che ho prima menzionato cambia in modo decisivo un assetto demografico, psicologico, comportamentale che li contraddistingue dal momento stesso in cui sono nati. Erano, all’origine, e sono rimasti per generazioni, un paese W.A.S.P. (White, Anglo-Saxon, Protestant), ove la lezione dei Padri Fondatori rimase viva e ascoltata per moltissimo tempo. La compattezza etnica rispondeva ad una continuità mentale e culturale, quella che ha reso possibile il “miracolo” del passaggio nel giro di meno di due secoli da una piccola colonia di inglesi ribelli alla più importante nazione del mondo. Questa compattezza fu incrinata una prima volta con l’arrivo massiccio di poveri emigranti europei, segnati da diverse vocazioni etniche e religiose: italiani meridionali, irlandesi, polacchi, estranei o nemici fra di loro ma tutti fervorosamente cattolici (una netta eccezione fu rappresentata dall’arrivo, spesso dall’Impero russo, degli ebrei askenaziti con il drammatico carico linguistico e religioso che gravava su di essi). Ma non v’è dubbio che questa immigrazione si è sforzata in ogni modo di inserirsi nel tessuto civile e linguistico del paese “antico”. Quel che, presumibilmente, non credo sia accaduto con i milioni di immigranti latino – americani. I quali conservano la lingua spagnola con una tenacia generalizzata a tutto il paese e che, nonostante la conservazione dei dialetti nelle “isole” siciliane, non ha avuto eguali in una storia ancora articolata, almeno fino a tutti gli anni’60, da un profondissimo desiderio di inserimento e di “naturalizzazione”. Evidentemente un primo fattore di diversità lo si dovette alla presenza di migliaia di africani, cinicamente strappati al loro continente, costretti a diverse forme di schiavitù ma sin dagli inizi linguisticamente, seppur fantasiosamente, integrati. Di fatto tenuti a distanza per generazioni in una nazione che ancora oggi si articola nelle città in quartieri bianchi e neri, ma che ha conosciuto negli ultimi 50 anni una integrazione non ancora totale ma certamente ancora impensabile ai tempi di Martin Luther King, i “black”danno vita ad un altro fenomeno tutto particolare. Sicuramente diverso di quello rappresentato dall’ immensa immigrazione “messicana” (che spesso messicana non è perché è fatta da latino – americani di molti diversi paesi di lingua spagnola).
Non v’è dubbio che essi fanno parte di una America “precedente” a quella che cominciamo a conoscere adesso e che non riusciamo ancora ad immaginare quale aspetto definitivo assumerà fra 50 anni. Proprio in questi mesi, rivedendomi in Dvd tanti fondamentali film americani degli anni’40 e ’50 sono rimasto ancora una volta colpito dal fatto che essi ritraggono una nazione apparentemente compatta. Una nazione di bianchi, in cui i neri figuravano solo occasionalmente come servitori, facchini o dipendenti delle ferrovie, ed in cui i latino – americani fruivano ancor più occasionalmente di fugaci apparizioni ridanciane. Un po’ come capitava agli italiani, che, se apparivano, erano generalmente grassocci, furbeschi, servilmente ridenti, quasi strappati a forza dalla recita di una filodrammatica napoletana, evidentemente con l’eccezione dei gangster che erano invece freddamente feroci o istericamente autocelebranti.
Tutto questo mondo sparirà nei prossimi decenni. L’America che abbiamo conosciuto nel 1945 sotto forma di soldati bianchi, ben vestiti, ben rasati, ben nutriti, coccolati dalle ragazze e di qualche reparto nero, apparentemente sottomesso ma aggrappato all’esplosiva fuga del jazz, non ci sarà più.
Chi vivrà da qui al 2050 assisterà probabilmente ad una sorta di quieta ma decisiva rivoluzione all’interno di una nazione apparentemente eguale ma sostanzialmente molto diversa. Ma che è stata, e forse lo sarà ancora per molti anni, quella che ha maggiormente condizionato il mondo in cui viviamo. Per cui ogni suo cambiamento avrà conseguenze esplosive anche al di fuori delle frontiere degli Stati Uniti.
1 commento:
Come sai sono nata in Brasile dove ho vissuto i primi 10 anni della mia vita , ero perfettamente bilingue (italiano e portoghese), ma con la tata ( nera) e con mia sorella preferivo parlare il portoghese. In Brasile i neri sono più dei bianchi e quando sono venuta in Italia e sentivo parlare di differenza fra bianchi e neri ti assicuro che non riuscivo a capire di cosa si parlasse, era proprio un concetto che il mio cervello non riusciva ad acquisire , che differenza c'era fra me bionda e bianca e quel delizioso compagno di gioco nero e bruno con il quale ridevo e parlavo di tante cose? Un pò poi ho capito, ma continuo a pensare che l'essere umano si crea strani problemi. Grazie sempre dei tuoi articoli.
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