Come d'abitudine solita pubblicazione della mia rubrica domenicale sul "Corriere Mercantile". Mi fa piacere che sia stata l'occasione per pubblicare una fotografia di Daniele Varé, diplomatico e scrittore ormai largamente dimenticato, ma famoso quando io ero un ragazzo. Le sue testimonianze sulla Cina (una Cina totalmente d'altri tempi sono godibilissime ancora oggi, soprattutto se si tiene conto di che cosa era quel paese un tempo, quando appunto Varé gli dedicò il romanzo "Il creatore di celesti pantaloni"). Buon Feste a tutti.
VISTO CON IL MONOCOLO
PER SCRIVERE IN FRANCESE UNA BOTTIGLIA COL TAPPO
La maggior parte delle
grandi società non ha più un amministratore delegato ma un CEO (Chief Executive
Officer). Perché per delle ditte italiane, venga usato un termine strettamente
americano non è detto. Ma è implicito del fatto che quel che viene citato in
inglese sembra automaticamente più credibile che in italiano. Un atteggiamento
su cui si sono gettati tutti voracemente, con i politici in primo piano. Perché
dire “Election Day” invece di “Giorno delle Elezioni”? Perché “Spending Review”
invece di “Esame della Spesa”? Rimando al futuro un elenco delle assurdità
bilingui che ci infettano. Le ho evocate per ribadire il passaggio definitivo,
in Italia, di una lingua straniera di cauzione. Un secolo fa il francese era da
noi quel che è ora l’inglese. E andava bene per tutte le occasioni (un elegante
negozio genovese si chiama da sempre “Montres & Bijoux”. Significa “Orologi
& Gioielli”). Uno straordinario e precedente storico è stato ricordato da
Daniele Varè ne “Il diplomatico sorridente”: ai primi del maggio 1915 al
Ministero degli Esteri si pose il problema urgente di preparare un’accettabile
dichiarazione di guerra. La quale doveva essere, ovviamente, redatta in
francese (era impensabile dichiarare la guerra all’Austria in italiano o in
tedesco: sarebbe stato un gesto sconveniente e maleducato). Ma al Ministero ci
si chiese: chi era in grado di maneggiare il francese in modo adeguato? Tutti
risposero: “il Marchese Fassati di Bàlzola”, ormai in pensione (mi sembra fosse
lui e se no era un altro Marchese: in carriera all’epoca erano quasi tutti
nobili). Una sera Fassati venne convocato, e gli fornirono i necessari
documenti informativi. Lui accettò e poi disse: “Voglio una bottiglia”, “Una
bottiglia?”. “Si, col tappo”. Il personale di servizio trovò la bottiglia col
tappo e il Marchese andò dal caffè Aragno a farsela riempire di caffè caldo.
Poi andò a casa e per tutta la notte redasse la dichiarazione di guerra. Al
mattino un usciere venne a ritirarla. “L’Italia” scrisse Varè “andò in guerra e
il Marchese andò a letto”.
Vent’anni dopo tutti si
dichiararono guerra nella lingua che preferivano. Il francese di Luigi XIV era
morto. In un angolo c’era l’inglese.
7 commenti:
Interesante e divertente (per quanto possa esserlo una dichiarazione di guerra) l'episodio del Marchese Fassati (meglio se si fosse addormentato, quella notte).
Ne approfitto per farle gli auguri e per ringraziarla di un anno di post come al solito illuminanti e di pregevole qualità.
...merry Christmas, of course!
Da anni mi scaglio contro le coglionerie dei britannicismi forzati imperanti, ma temo non esistano più speranze. E' giusto dare atto all' anglo-americano come lingua internazionale delle tecnologie, ma per il resto la situazione è disastrosa ; e Lei nemmeno ha citato quei casi ben oltre il ridicolo per il quale termini latini vengono ...anglicizzati in pronuncia ( ! ) da persone che non conoscono la lingua dell' Impero per eccellenza. Prima fra tutte : tutor.
Ha detto bene : "un elenco delle ASSURDITA' bilingui che ci INFETTANO"
Studiando letteratura russa ho capito che lo stesso problema si ebbe spesso con il francese anche nel Settencento ancor più che un secolo fa; e i più acuti tra i grandi scrittori russi, che ancora non erano quelli del periodo d' oro, già se ne avvedevano mettendo in ridicolo i gallismi di mezzo mondo. E tuttavia il dominio culturale francese del secolo dei lumi (piaccia o meno) era qualcosa di differente e ben più stabile e complesso del monopolio di massa che ha portato in auge l' inglese che è , a conti fatti, la lingua che meglio esprime la necessità della contemporaneità di semplificare, semplificare sempre, semplificare tutto.
Nel mondo medico in generale e ospedaliero in particolare è un disastro .Il sottoscritto ha la qualifica in angloitaliano di "case manager esperto" e due giorni fa ha appreso (e qui ci sarebbe molto da dire sul rispetto degli esseri umani) che le persone anziane,che per malattie ed acciacchi vari necessitino di ricoveri prolungati vengono definiti nei programmi aziendali "bed blockers".Agghiacciante.Piccola nota : tempo fa ho avuto una fiera discussione sulla pronuncia della parola ora di moda "audit" : sebbene sia pari pari la terza persona del presente del verbo audire,in inglese ha preso da secoli un significato diverso (la usa Milton nel "Paradiso perduto")che è appunto quello per la quale si usa nel peraltro orrendo gergo aziendale (i famigerati audit clinici ospedalieri)e quindi andrebbe pronunciata "all'inglese" appunto perchè appartiene al vocabolario inglese.Di converso gli Inglesi inorridiscono ogni volta che un cardiologo italiano dice "flutter".
P.S. ho studiato a lungo ed amo il Lstino,ma purtroppo audit si dovrebbe pronunciare ov-dit.Poi naturalmente ognuno faccia come meglio crede...e liberiamo la nostra lingua dalle parole straniere non strettamente necessarie.
Bellissimo articolo che ancora una volta colpisce nel segno! Considerando che l'italiano è una splendida lingua piena di sfumature perchè , come dice tu ,preferire vocaboli britannici spesso molto meno esatti? mah....
Molto divertente l'episodio del Marchese Fassati!
Grazie come sempre e mi auguro che nel 2014 tu abbia finito i tuoi libri ed abbia più tempo da dedicare a noi "affamati" lettori del tuo blog. Auguri di Buon Anno a te ad Elena ed ai lettori del Blog!
Non è relativo al suo post: le segnalo questo articolo su Genova di Curzio Maltese:
http://www.repubblica.it/politica/2013/12/29/news/genova_la_nuova_polveriera_d_italia_dove_muoiono_i_sogni_e_il_futuro_non_arriva-74699040/?ref=HREC1-18
"Per tornare a Genova, shrinking city che si avvia a divenire la Detroit italiana sotto il profilo della deindustrializzazione e dello spopolamento, e in cui la crisi attuale non è altro che il prolungamento e la tarda esasperazione di una crisi urbana e di un declino cominciati già a metà degli anni Settanta, la privatizzazione completa dei trasporti potrebbe avere solo il significato di un definitivo coup de grace inflitto ad una città tutta sviluppata in lunghezza (33 km da Nervi a Voltri), in cui gli spostamenti con i mezzi pubblici rivestono un ruolo vitale per una popolazione ormai prevalentemente anziana e in via di rapida pauperizzazione."
A mia volta,tornando alla sua amata e compianta città le invio questo frammento di un articolo scritto da un mio carissimo compagno di classe (che attualmente insegna all'università e risiede a Genova).Il titolo del pezzo,un po'ironico (e conoscendo il mio amico non poteva essere altrimenti) è "Un tram che si chama desiderio" e prendeva spunto dal recente sciopero.E' apparso sui "Quaderni di San Precario"
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