Mi riferisco ai commenti del 25 Novembre riguardanti la mia rubrica sul Mercantile pubblicata il 24 Novembre 2013. In modo diverso Rosellina, Enrico e Giorgio mi danno ragione recuperando quel che c’è stato di buono nell’Italia del dopo guerra sino, grosso modo, al terribile 1968 (da cui, in buona parte, provengono alcuni dei nostri mali peggiori; ma questo è un altro discorso). Enrico rievoca il goal di Rivera in Italia-Germania 4 a 3 del 17 Giugno 1970. Per snobismo vorrei ricordare anche il cross decisivo, rasoterra, di Boninsegna che consegnò il pallone al “piattone” di Rivera. Sembra che fosse l’undicesimo passaggio di quella incredibile azione.
Passiamo ai commenti del 27 Novembre riguardanti il mio brano sul Blog inteso a ricordare con affetto e con rimpianto la figura di “Chicco” Pavolini detto Francesco Savio.
Grazie a Rosellina, a Anonimo, a Giorgio ed a un altro anonimo ancora, i quali, tutti e quattro, mi elogiano! Mi fa molto piacere che Simone Starace scriva che Francesco Savio “per i cinefili che amano e hanno amato il cinema italiano classico, resta ancora oggi una frequentazione quasi quotidiana, di quelle che arricchiscono ogni volta”. Non sono dunque solo e questo mi conforta.
Ringrazio Giulio Fedeli e la sua citazione del vecchio amico torinese Baldo Vallero che, a suo tempo, gli imposero la “conoscenza obbligatoria” di “Ma l’amore no”. Sono contento che Fedeli ricordi i due nomi fondamentali di Henri Langlois e di Maria Adriana Prolo. Forse molti non sapranno più chi sono, ma chi conosce un po’ il tema non dimentica che i due sono stati decisivi nel creare una consapevolezza “cinetecaria” nel mondo che amava il cinema ma assisteva indifferente alla sua quotidiana distruzione. Il romanzesco Langlois è l’uomo che ha letteralmente inventato la “Cinémathèque Française”, creando un precedente che ha rivoluzionato il mondo.
In quanto alla signorina Prolo credo che vi siano state poche persone, non solo in Italia, a compiere un’opera equivalente alla sua. Nata a Romagnano Sesia nel 1908 e ivi deceduta nel 1991 essa ha avuto, credo indipendentemente da Langlois (con il quale, però, intrattenne poi una fittissima corrispondenza) l’idea, e diciamo pure la vocazione, di salvare tutto quello che poteva del cinema, che fluiva ogni giorno sugli schermi. Non solo i film in senso stretto (di cui essa cominciò a impedire la distruzione per fini commerciali, impegnandosi disperatamente a riacquistarli) ma tutto ciò che concerne il cinema: “camere” da ripresa, apparati di proiezione, ausili tecnici di ogni tipo, copioni, sceneggiature, manifesti, eccetera. Tutto quello che essa riuscì con i suoi mezzi a mettere da parte ed a salvare dalla distruzione e dall’oblio costituì la base di una struttura essenziale. E cioè quella del Museo del Cinema di Torino, che da tempo ha trovato una splendida sede nella Mole Antonelliana. E che ogni anno riceve centinaia di migliaia di visitatori entusiasti.
All’origine tutto risale a “tota” Prolo, che era anche una valente studiosa di cinema, autrice di testi tuttora validissimi. Io ho avuto il privilegio di conoscerla abbastanza bene e di apprezzarne sia la passione cinefilica che la naturale signorilità di alto-borghese piemontese. Nel 1989 il geniale e diseguale Daniele Segre, documentarista di talento, le ha dedicato un ritratto, “Occhi che videro”, che resta un omaggio significativo ad una delle grandi figure (se non dimenticate certo in parte ignorate) della storia del cinema italiano. Considero tuttora un privilegio di aver potuto condurre, insieme a Steve Della Casa, una cerimonia di omaggio in suo onore a Torino.
Per terminare con i quesiti posti da Fedeli, lo rassicuro. Di Franco Scarmiglia mi è rimasto un ottimo ricordo. Era (lo dico perché credo che ormai quasi nessuno lo ricordi) un romano romanissimo, appassionato di cinema, che se ne occupava all’interno di strutture vaticane e, comunque cattoliche. Son contento che Fedeli si ricordi delle illustrazioni di mia moglie Elena Pongiglione. In quanto a Corrado Gaipa (1925-1989) l’ho conosciuto abbastanza bene. Era un eccellente attore di carattere ed un grande doppiatore, uno di quelli di cui la voce non si dimentica. Va detto che era costretto a camminare con le stampelle (o con il bastone) perché barcollava a causa di una ferita nel corpo che si era inflitta lui stesso (non vorrei sbagliare ma, come si diceva all’epoca, nel tentativo di uccidersi). Era un personaggio indubbiamente bizzarro. Mi ricordo che una volta mi confidò che ormai viveva in albergo. Dopo le brutte esperienze subite con le amministrazioni del fisco aveva deciso che era il solo modo in Italia per sopravvivere alle tasse. In albergo, mi diceva, “non c’è nulla di tuo, salvo forse i vestiti e gli oggetti personali, e perciò non ti possono pignorare niente e non ti possono portare via niente”. In effetti, se uno ci pensa, è vero. E se non gli secca vivere senza una casa in un Grand Hotel, il problema è risolto.
Infine mi fa piacere che Andrea Napoli ricordi, cosa che io non avevo fatto, due libri di “Chicco”: “Visione privata” e la raccolta delle recensione pubblicate su “Il Mondo”. Credo che si debba assolutamente aggiungere a questi due titoli “Cinecittà anni ‘30” in cui Savio raccolse e provocò 116 interviste a protagonisti e comprimari del cinema italiano dal 1930 al 1943. Un altro tassello fondamentale in un’ immensa e appassionata opera di ricerca.
Veniamo ai due commenti del 3 dicembre 2013 (“I Calciatori costeggiano tutta la nostra vita”). Il brano calcistico di Enrico mi pare impeccabile. In particolare lui parla de “I ritratti meravigliosi di Peppin Meazza dalla penna di Joàn Brera”. Vorrei aggiungere che io Meazza l’ho visto giocare: non quando io ero bambino e lui un asso di valore mondiale, ma nel dopoguerra, durante il campionato 1946-1947. In quell’anno l’Inter aveva assunto come allenatore Nino Nutrizio, un giornalista che doveva diventare poi famoso come inventore e direttore de “La notte”. Nutrizio aveva voluto con se come consigliere e aiutante proprio Meazza che era un simbolo dell’Inter.
In quell’anno Carlo Masseroni presidente dal 1942 al 1955, aveva voluto riprendere le vie del Sud-America da cui il calcio italiano aveva importato tanti campioni prima della guerra. Smantellò la squadra e prese di colpo due argentini e tre uruguaiani. Se ricordo bene quattro erano attaccanti (Bovio, Cerioni, Volpi e Zapirain) ed uno mediano, Pedemonte. L’inverno fu freddissimo, pieno di neve, l’Italia era ancora segnata in modo crudele dalla guerra: macerie, palazzi distrutti, eccetera. E si respirava ancora un’atmosfera di odio politico. Fatto stà che quattro dei cinque sudamericani decisero di scappare. Fecero le valige di nascosto e a Genova si imbarcarono su una nave diretta in Sudamerica. Rimase solo Zapirain (alla sinistra, bravo ma anziano: era calvo e giocava col basco per non farlo vedere; allora non usavano, non so perché, i giocatori senza capelli). Nutrizio dovette allestire una squadra con quello che rimaneva. E lo stesso Meazza venne forzatamente richiamato in servizio, malgrado avesse il “piede gelato” di cui parlavano tutti i giornali. Dovette tornare in campo anche lui, con la pancetta e, appunto, il piede fuori uso. Si schierò all’ala destra (all’ala, in quel tempo, venivano collocati i giocatori feriti) e io lo vidi giocare a Marassi, non so più se contro il Genoa o contro la Sampdoria. Era quasi immobile, ma il suo tocco di palla era ancora squisito e in qualche modo riuscì a cavarsela. Ne ho conservato un ricordo straordinario, come di un frammento ineguagliabile del passato.
Soliti ringraziamenti a Rosellina, lettrice fedelissima e minuziosa.
Veniamo ai commenti del 17 di dicembre per l’articolo “Quando Genova era grande”, ringrazio Enrico, Giulio Fedeli, Rosellina e Giorgio. Per quel che riguarda in particolare Enrico mi dispiace che questo lento sfacelo delle città italiane abbia investito anche Parma, dove io sono stato poche volte ma che mi era parso molto simpatica. Dei nomi che lui cita conoscevo abbastanza bene il solo “Pietrino” Bianchi, ormai ignoto ai più, ma che fu famoso come critico cinematografico su varie testate, dal “Candido” al “Giorno”. Era nato a Roccabianca, in provincia di Parma, nel 1909 e morì a Baiso, in provincia di Reggio Emilia, nel 1976 quando avrebbe potuto dare ancora moltissimo al giornalismo italiano. Inizialmente insegnò storia e filosofia nei licei ma si accostò assai giovane al giornalismo. Nel 1928, a 19 anni, firmò il suo primo articolo come critico cinematografico sulla Gazzetta di Parma, recensendo “Il circo di Charlie Chaplin”. Nel 1946 si trasferì a Milano e da allora cominciò una prestigiosa carriera di giornalista. Fra l’altro diresse anche una testata molto autorevole come “l’Illustrazione Italiana” e successivamente “Settimo Giorno”. In un panorama critico molto spesso ideologicamente di sinistra, dominato dalla tirannica presenza di Guido Aristarco, “Pietrino” come lo chiamavano gli amici (sembra che sia stato lui a trascinare al cinema Attilio Bertolucci) si distinse per l’eleganza del tocco, il gusto dell’informazione letteraria e l’attenzione alle grandi correnti letterarie sotterranee che, ovunque, hanno ispirato e sospinto il cinema. Gli piacevano tanti scrittori francesi (per molti usava spesso l’espressione “Enfants de la balle”) e tanti registi americani. Mi ricordo che fu proprio un suo pezzo da Cannes, in cui lamentava che in un cinema di Rue d’Antibes si vedesse tranquillamente “Il grande sonno” del 1946, famoso film di Howard Hawks (con Humphrey Bogart nei panni di un indimenticabile Philip Marlowe) tratto dall’altrettanto celebre romanzo di Raymond Chandler, 1939. Il film era invece invedibile da noi perché di fatto introvabile in edizione italiana. Mi ricordo che fu proprio quell’accenno di Bianchi a stimolarmi freneticamente. Stavo preparando in televisione un grande ciclo su Bogart (ottenne molto successo) e decisi che ad ogni costo che avrei recuperato “Il Grande Sonno”. Per le solite misteriose ragioni le colonne originali con l’edizione italiana del 1947 (Bogart era doppiato da Bruno Persa e Lauren Bacall da Clelia Bernacchi) non si trovava più.
Ne fece allestire un'altra dove Bogart venne doppiato molto bene da Paolo Ferrari (che si costruì una voce curiosa, molto diversa da quella sua abituale) e la Bacall da Ada Maria Serra Zanetti. È la versione che circola, o circolava, oggi o in tempi recenti. Come si vede i meriti di “Pietrino” non sono pochi…Per restituire comunque il clima dell’epoca mi ricordo che, intorno al 1960, chiamammo con Gianni Amico a presentare “Intrigo internazionale” (North by Northwest) al pubblico del Cineforum Genovese (che aveva sede in un fortilizio della borghesia armatoriale dell’epoca, e cioè l’istituto dei gesuiti “Arecco”) proprio Bianchi. E la cosa sollevò un certo scandalo perché egli era un critico definito “di gusto” e quindi alieno dagli espliciti impegni biologici della maggior parte della critica militante. E poi dare, come inaugurazione dell’anno sociale, un film di Hitchcock non era sicuramente nella linea di “Cinema Nuovo”…
Veniamo ai commenti apparsi il 24 Dicembre e stimolati dall’aneddoto riguardante la dichiarazione di guerra del 1905, obbligatoriamente in francese. Ci sono ben sette contributi, di sei autori diversi, in molti dei quali (penso a Luigi Luca Borrelli e al duplice commento di Enrico) c’è materiale per tornare sull’argomento. Ringrazio tutti per gli auguri, in particolare quelli di Rosellina dedicati non solo a me ma anche a Elena ed a tutti i lettori del Blog.
Veniamo ai contributi del 31 dicembre motivati dal mio brano su Walter Mitty.
Ringrazio Giorgio Rita M. e Rosellina. In particolare Giulio Fedeli si chiede se il personaggio di Walter Mitty non sia stata una delle fonti ispiratrici di “Billy il bugiardo” (“Billy Liar”) secondo lungometraggio, nel 1963, di quell’eccellente regista che è stato John Schlesinger (1926-2003) a cui dobbiamo tanti film interessanti, soprattutto negli anni ‘60 e ’70, ma che è sempre rimasto nel mestiere ed ha diretto quello che credo sia il suo ultimo film “Sai che c’è di nuovo?” nel 2000. Se penso a lui, penso soprattutto a film come quello del suo esordio nel lungometraggio “Una maniera d’amare” (“A Kind of Loving”, 1962) appunto a “Billy il bugiardo” e poi, ad esempio, “Via dalla pazza folla” (“Far from the Madding Crowd”, 1967); “Un uomo da marciapiede” (“Midnight Cowboy”, 1969); “Domenica, maledetta domenica” (“Sunday, bloody, Sunday”, 1971); “Il giorno della locusta” (“The Day of the Locust”, 1975); “Il maratoneta” (“Marathon man”, 1976); “Yanks” (“Yankees”, 1979); eccetra, eccetera.
Per scrupolo ho controllato il “Castoro” su Schlesinger scritto nel 1986 da Claver Salizzato e non sono riuscito a trovare conferma dell’ipotesi che “Billy il bugiardo” costituisca un esplicito rimando a “Sogni proibiti” (“The Secret Life of Walter Mitty”, 1947). Ma forse ho sfogliato male il libro. In compenso il Morandini 2013 (vedi pg. 195) dice esplicitamente che il film è “indubbiamente ispirato al Walter Mitty dell’americano James Thurber” (ricordo che Thurber fu un eccellente disegnatore ed umorista che normalmente appariva sul “New Yorker”. Tutto quello che ho letto di lui l’ho trovato esilarante). Per essere sicuri dell’ipotesi Mitty bisognerebbe controllare la commedia di Keith Waterhous e Willis Hall, tratta da un romanzo del primo, ma mi sembra un’ipotesi assolutamente verosimile.
Ultima serie di risposte riguarda i commenti giunti 8 Gennaio 2014 motivati dalla “Signora in Giallo”, tutti e cinque gli intervenuti, forniscono giudizi e valutazioni interessanti. Rosellina si chiede in particolare dove “sono finiti i bravi dirigenti Rai…che proponevano queste belle serie televisive?” probabilmente è più in grado lei, che alla Rai ci vive ancora, di quanto possa fare io che l’ho lasciata ormai da quasi venti anni.
L’annotazione di Rita M. riguardante la presenza di Angela Lansbury, “bellissima e giovanissima” in “Angoscia” (“Gaslight”, 1944) di George Cukor, mi ha fatto venire in mente un aneddoto (non ricordo se ne ho già parlato a suo tempo nella rubrica “Salvate la Tigre” che avevo su Film Tv). Si tratta di questo: nel 1980 avevo avviato a Rai Uno - l’anno dopo passai a Rai Due - uno dei tanti cicli da me allestiti (forse riguardava la Bergman, non ricordo con esattezza). Uno dei film era sicuramente “Angoscia” dominato dalla presenza, via via più sinistra, di Charles Boyer, marito della minacciata e incolpevole Ingrid. Dovevamo andare in onda un lunedì sera. Esattamente una settimana prima apprendo che la Casa di Doppiaggio (una delle più famose; non la menzione per indulgenza professionale) come è accaduto incredibilmente molte volte nell’ambiente, si era accorta, all’ultimo momento, di non trovare più le colonne del doppiaggio originale allestito nell’immediato dopoguerra, dove spiccavano due grandi voci. La Bergman era infatti Lydia Simoneschi e Boyer e il forse ancor più grande Emilio Cigoli. Quella fu una delle volte in cui non mi arresi al disordine paraministeriale in cui si lavorava alla Rai. Chiesi l’aiuto dell’efficiente Servizio Edizioni dell’azienda, che mi trovò una Casa di Doppiaggio pronta a fornirmi, di fatto da un lunedì all’altro, una nuova edizione doppiata. Aveva accettato di curare la direzione, a patto di redigere anche l’adattamento italiano, un’eccellente doppiatrice nostrana, Gabriella Genta, che si riservò la parte di Miss Thwaites recitata nell’originale dalla famosa Dame May Whitty. Fu una settimana di passione in cui tutta l’equipe si rivelò bravissima. Al mattino presto (abitavo in via dei Gracchi, quartiere Prati) mi arrivava in casa un fattorino che mi portava una parte dell’adattamento appena scritto da Gabriella Genta. Io, appena alzato, leggevo e controllavo velocissimamente il testo inglese e quello italiano, e se tutto andava bene (e tutto andò sempre bene) mettevo una firma di approvazione. Accadde, credo, per cinque mattine. Non appena il fattorino tornava in Ditta con il testo approvato la gente avviava il doppiaggio di quel frammento scritto. In cinque giorni tutti insieme, molto bravi, riuscirono a completare un lavoro effettuato bene, seppure a grande velocità (ricordo che la Bergman fu doppiata da Ludovica Modugno e Boyer da Antonio Colonnello: come sempre in casi del genere ho fatto ricorso al prezioso sito di Antoniogenna.net). Il lunedì della trasmissione la coppia doppiata venne consegnata alla Rai, come sempre i montatori la controllarono e alla sera il film andò in onda senza che nessuno si accorgesse che si trattava di un doppiaggio completamente nuovo.
Il doppiaggio in sé è discutibile come scelta estetica, perché nulla e nessuno possono sostituire voce e rumori originali. Ma come tecnica applicata è notevole ed ha raggiunto in Italia (soprattutto sino agli anni ’80) un livello altissimo che ha creato una scuola fra le migliori, se non la migliore in assoluto, nel mondo. Fra l’altro non ebbi più occasioni, almeno che io sappia, di collaborare con Gabriella Genta. E la incontrai soltanto una volta, con grande piacere e sempre con un senso di riconosenza, a Finale Ligure, quando le rimisi un premio, sicuramente meritatissimo, nella mia qualità di Direttore Artistico, di quello che è stato forse il miglior Festival specialistico in Italia, e cioè “Voci nell’Ombra”.
5 commenti:
Grazie per i ringraziamenti e complimenti per l'impaginazione del tuo blog!
Gentile Maestro, complimenti per il suo blog, che consente di rivivere il piacere delle sue presentazioni televisive.
Non so è lecito formularLe una richiesta... Un caro amico iersera mi chiedeva quali sono i titoli essenziali di una filmografia "noir" francese.
Mi piacerebbe conoscere se possibile il Suo verdetto, e quello dei suoi qualificati lettori!
Piacevolissima lettura,grazie,a presto
Molto interessante la parte su Walter Mitty, o meglio sui remake della novella di James Thurber. Non ho visto quelli passati, sono di difficile reperimento, ma ho avuto il piacere di vedere l'ultimo di Ben Stiller che debbo dire ha decisamente cambiato stile. E' passato dai film demenziali ma pur sempre molto ricercati (è un regista popolare tra i giovani d'oggi) a qualcosa di più... In realtà la trama è un po' lenta e in alcuni punti del film il ritmo si perde lasciando dei vuoti (un po' come nelle conversazioni tra amici quando cala il silenzio e nessuno dice nulla…l'imbarazzo regna), colmati però facilmente da una colonna sonora stupenda (Space Oddity tra le tante) e da una buona fotografia (l'Islanda offre scenari naturalistici impagabili)…Pochi effetti speciali che, invece da quanto lei racconta, molto più presenti nella versione precedente del 1947…A quanto pare è sempre vero che la fantasia supera la realtà ma anche la tecnologia!! Grazie ancora, scriva sempre!!
Sempre interessanti le Sue informazioni, in particolare quelle sul doppiaggio. Concordo interamente con Lei per quanto riguarda il giudizio espresso ("discutibile come scelta estetica"), ma anche sull'affermazione dell'altissimo livello raggiunto in Italia fino agli anni Ottanta. Ricordo la mia delusione quando ascoltai per la prima volta in originale il grande James Stewart, a me noto fino a quel momento con la calda,splendida voce di Gualtiero De Angelis: che delusione! Voci come quella hanno arricchito senza dubbio le interpretazioni di pur mitici attori.
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