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11 febbraio 2009

Misteriosa e inspiegabile Margherita

Girovagare in Internet è uno dei piaceri sottili che la tecnologia ci ha offerto. L’altro giorno, e non saprei dire come, sono capitato su una voce dedicata a Margherita Sarfatti, a cura di una istituzione intestata a Don Milani. Francamente credevo che fosse un ente cattolico di sinistra. Invece era il Blog (www.donmilani.it) di una scuola superiore di una cittadina meridionale. Perché si sia dotata di un periodico culturale non saprei dire, ma quel che è sicuro è che la voce sulla Sarfatti era ampia e ben redatta. E ancora una volta ha stimolato la mia curiosità su un personaggio che resta uno dei più inquietanti fra i protagonisti della cultura italiana fra le due guerre. Evidentemente nel riproporne i dati biografici fondamentali mi rivolgo a persone sostanzialmente ignare o troppo giovani, perché chiunque abbia un minimo di conoscenza di quel che accadde in Italia fra i ‘20 e i ‘40 sa chi era la Sarfatti. Da ragazzo mi ricordo di aver letto la sua famosa biografia di Mussolini in Italia intitolata “Dux”, scritta per istigazione di Prezzolini e, come ho poi scoperto, venduta in tutti i paesi del mondo (solo in Giappone 300.000 copie). La Sarfatti è stata indubbiamente un personaggio romanzesco, ormai dimenticato per la rapidità sempre più incalzante con cui la nostra società accumula, ma anche annulla, ricordi e personaggi di rilievo. Senza farla troppo lunga, vorrei rammentare che, nata come Margherita Grassini a Venezia nel 1880 in una ricca famiglia ebrea divenuta fin da quando Margherita era piccola proprietaria di Palazzo Bembo sul Canal Grande, era stata allevata con i privilegi dovuti a una principessa. Ad esempio non andò a scuola ma ebbe tre precettori, tutti personaggi notissimi nella cultura italiana dell’epoca: Pietro Orsi, storico importante e senatore, Pompeo Molmenti, giornalista e deputato, e Antonio Fradeletto, intellettuale e ministro. Questo per situare Margherita all’interno di una collocazione sociale equivalente a quella di una nobildonna dell’epoca (si ricordi che proveniva da una famiglia probabilmente soggetta, solo qualche generazione prima, alla discriminazione del ghetto). Imparò ad amare Ruskin e Carducci, conobbe un noto scrittore inglese di origine ebraica, Israel Zangwill, che, colpito dallo scampato suicidio di Marco, fratello maggiore di Margherita, centrò su di lui un romanzo, individuandolo come il prototipo del giovane ebreo dell’inizio del secolo che, partecipe di un’antica tradizione religiosa, non riusciva a vivere nell’epoca della modernità. Abbastanza estranea alle tradizioni religiose della famiglia israelita (Margherita, come vedremo, più tardi si convertì al Cattolicesimo) e avvicinata al Socialismo da un professore quarantenne conosciuto al mare, cedette alla corte di un penalista ebreo - Cesare Sarfatti - anch’egli socialista, il quale riuscì a sposarla nonostante la posizione contraria della famiglia di lei. Al momento del matrimonio Margherita aveva solo diciotto anni. Sembra che durante il viaggio di nozze a Parigi la ragazza abbia dato prova della sua competenza artistica e del suo occhio di collezionista comprando ben due Toulouse-Lautrec. A Milano il marito divenne l’avvocato di punta del Partito Socialista e lei stessa si mise in luce fra le donne più importanti che militavano nel partito, quasi alla pari con le due famose russe Anna Kuliscioff e Angelica Balabanov, anch’esse ebree (non ho ancora capito se sono state entrambe, in qualche bizzarro momento della loro vita, amanti dell’insaziabile Mussolini) a testimonianza della decisiva presenza dell’ “intelligentzia” israelita, soprattutto femminile, fra gli intellettuali socialisti dell’epoca. Nel 1909 la Sarfatti divenne responsabile della critica d’arte dell’ “Avanti!” e cominciò ad esercitare un notevole peso in una città che all’epoca era all’avanguardia in Italia non solo dal punto di vista industriale-commerciale ma anche da quello giornalistico e artistico. La sua lussuosa abitazione al n. 93 di Corso Venezia divenne un punto di attrazione di scrittori come Massimo Bontempelli e Ada Negri, di scultori come Medardo Rosso e Arturo Martini e del gruppo tumultuoso dei futuristi, cappeggiato da Filippo Tommaso Marinetti. Non è un caso se Margherita insieme al gallerista Lino Pesaro, anch’egli ebreo, sia stata l’iniziatrice di un movimento inteso a mettere in luce il primo nucleo di pittori del novecento, fra cui Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppo e Sironi. Il 1912 fu un anno decisivo per Margherita perché il 1 Dicembre tale Benito Mussolini, a capo della sinistra del partito, si stava avviando ad impadronirsi del socialismo italiano e in questa ottica divenne in quel giorno direttore dell’ “Avanti!”. La Sarfatti, che faceva capo alla corrente moderata di Filippo Turati, squisita figura di intellettuale travolto dai fascisti e dai comunisti, il giorno della nomina si presentò in redazione per rassegnare le dimissioni dall’incarico di critico d’arte. Quel che successe è diventato palese per le conseguenze. Fra l’aggressivo e contadinesco giornalista romagnolo di sinistra e la raffinata e ricca signora veneziana di ottima famiglia ebrea, scoccò la scintilla di Eros. Mussolini si vantava della sua fama di donnaiolo a tutto tondo (amava dire: “Io gli uomini li giudico dalla cintola in su”) e quindi si prese anche Margherita, che non seppe o non volle resistere, iniziando così una relazione che doveva andare avanti per molti anni. Infatti per un lungo periodo sopravvisse anche ai continui tradimenti dell’uomo, il quale non volle mai accettare la fedeltà a cui Margherita avrebbe tenuto. Non sappiamo esattamente quale era il tipo di rapporto che la legava al marito, dal quale ebbe tre figli: Roberto, Amedeo e Fiammetta. L’avvocato Sarfatti morì, poi, nel 1924 e non sembra che ignorasse la relazione della moglie con Mussolini. Tuttavia, rimasta vedova, la Sarfatti si legò sempre più profondamente a quegli che si accingeva a diventare Duce, e che essa seguì fedelmente nel complesso passaggio (non solo di loro due ma anche di tanti socialisti) dal pacifismo di sinistra all’interventismo di destra. Che si riassunse, sotto un profilo politico e personale, nell’espulsione dal Partito Socialista nel 1918, anno in cui essa entrò apertamente a far parte della redazione de “Il Popolo d’Italia”, e via via nell’invenzione post-bellica del movimento fascista che, dopo una nascita furbesca e ammiccante (ne fecero parte anche Toscanini e, si dice, Pietro Nenni, vecchio amico di Mussolini dal tempi della lotta nel 1911 contro l’intervento dell’Italia in Libia) si avviava a diventare lo strumento di potere totale di un uomo che non era più il “compagno Benito” ma tout-court “Il Duce”. La Sarfatti apportò alla definizione del nuovo personaggio un testo decisivo e cioè la già citata abilissima, scaltra e benevolente biografia di Mussolini, che appunto non a caso in Italia si chiamava “Dux”, come si è detto prima. Divenuto Mussolini Presidente del Consiglio, anche la Sarfatti si trasferì a vivere a Roma alla fine del 1926 in un lussuoso appartamento di Via dei Villini, dopo il trauma della morte in guerra del primogenito Roberto, diciassettenne, decorato di medaglia d’oro e sepolto nel Sacrario di Asiago, situato sul colle Leiten. Qui, giacciono le spoglie di 34.286 militari italiani caduti nella grande guerra, di cui solo 12.759 sono identificati, mentre 21.491 sono rimasti ignoti. In un articolo di “Moked”, portale dell’ebraismo italiano, ho trovato la testimonianza di un certo Federico Steinhaus, il quale ha scoperto che, nel settore del sacrario riservato alle 11 medaglie d’oro, gli ebrei decorati sono 2, cioè oltre a Roberto Sarfatti anche il sottotenente triestino Guido Brunner, e ha iniziato una lunga battaglia burocratica con il Ministero della Difesa. Ottenendo nel 2008 che i simboli cristiani, i quali comprendono tutti i caduti, fossero nella fattispecie sostituiti dalla stella di David e da una lapide commemorativa, “ulteriore prova” – scrive Steinhaus – “del forte patriottismo che ha sempre animato gli ebrei”.
Il periodo di Roma fu quello in cui da un lato si consolidava il rapporto fra la Sarfatti e Mussolini, che pure la tradiva quotidianamente e apertamente, e dall’altro si ribadiva l’importanza che aveva assunto la donna nel campo delle arti figurative e della pubblicistica specializzata. Al tempo stesso, si mettevano le basi per un progressivo distacco fra i due, concretatosi poi nella fascinazione esercitata su Mussolini dal Nazismo e nella subitanea accettazione delle teorie naziste da parte del Fascismo. Via via che le cose progredivano ne risentiva anche la relazione fra i due, finché nel 1938 essa non riparò in Uruguay, a Montevideo. Qui, grazie all’aiuto di Raffaele Mattioli, notissimo banchiere che alla testa della Comit era diventato in Italia una vera autorità intessendo rapporti d’ogni colore politico, era già riuscito a sistemarsi il figlio di Margherita, Amedeo. La Sarfatti continuò ad occuparsi intensamente di critica d’arte e rientrò a Roma nel 1947. Ma la società italiana preferì di fatto ignorarla, poiché la sua presenza era imbarazzante. Se da un lato essa riproponeva buona parte della storia figurativa e perfino uniformologica del Fascismo (si diceva che fosse stata lei ad ispirare fregi e orpelli tipici delle divise del Regime), dall’altro era difficile dimenticare che molti dei movimenti che avevano ispirato la pittura italiana durante il Ventennio risalivano a lei. Essa morì nel 1981 in una villa, comprata prima della prima guerra mondiale, chiamata “Il Soldo”, a Cavallasca in provincia di Como, dove si era rifugiata da tempo.
In realtà la Sarfatti rimane un enigma. Così come sua presenza di creatrice e divulgatrice culturale resta fondamentale, così egualmente la sua conversione al Cattolicesimo non fu un modo per sfuggire alle persecuzioni antiebraiche (anche se il realtà non sarebbe servito a nulla), ma risale ai primi rapporti avuti da bambina a Venezia con una istitutrice cattolica incaricata di insegnarle il tedesco. Contribuì molto, sino a metà degli anni ‘30, al “lancio” del Fascismo nel mondo e probabilmente portò dentro di sé questa dolorosa consapevolezza, insieme all’imbarazzo che forse provò sempre confrontando la sua eleganza intellettuale con la furbesca astuzia e l’improntitudine contadinesca che furono essenziali, in Italia ma non solo in Italia, nella formazione del mito mussoliniano.
Fra le testimonianze indirette ma significative sul personaggio-Sarfatti vi sono il romanzo “La notte italiana” di Nicole Fabre, in cui la giovane protagonista, Giulia, diverrà l’amante di Italo Balbo, presentato alla ragazza da Margherita Sarfatti, direttrice di un giornale in cui essa ha trovato lavoro. Altra inattesa testimonianza è quella contenuta nel film “Il prezzo della libertà” (“Cradle Will Rock”, 1999) diretto da Tim Robbins, ambientato nell’Estate del 1937 a New York. In esso, oltre a una miriade di personaggi storici, si ritrova anche, impersonata da Susan Sarandon, la “contessa” Margherita Sarfatti, che vende quadri di contrabbando per finanziare Mussolini…

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