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14 maggio 2009

LA GENIALE E FRAGILE ETNOLOGIA DI GIANNI BRERA

Io seguo il calcio sin da bambino, prima della guerra dunque, sicché non è strano che a suo tempo io sia diventato un lettore accanito di Gianni Brera. La vorticosa felicità verbale e verbalistica del suo scrivere volutamente “lombardo” hanno fatto la gioia di migliaia di affezionati e non intendo riscoprirla qui. Fra le cose affascinanti di Brera c’era, fuori di dubbio, la sua posizione, come dire, “etnologica”, dettata dalla consapevolezza che gli italiani era costituzionalmente deboli e quindi forzosamente votati al catenaccio ed al contropiede. Non potevano che difendersi e cercare di colpire, una volta effettuata la parata, come nei romanzi sulla scherma. Non so quanto questa prospettiva fosse fondata, ma Brera la affermava con quella lampeggiante capacità di scoprire e rinverdire un vocabolario nazionale, dialettale e latineggiante al tempo stesso, che costituiva una delle sue fascinazioni di scrittore. In questi ultimi tempi ho pensato spesso alle toccanti ma presumibilmente fragili teorie di Brera, proprio guardando in televisione le squadre di calcio più famose al mondo. Più sono celebri, più i giocatori provengono da orizzonti totalmente diversi. Neri pienamente africani o filtrati da passaporti europei (tipici, ad esempio, i francesi e gli olandesi, con i loro oriundi del Suriname). Latino-americani di ogni estrazione, dagli argentini, spesso di sangue ligure o piemontese, agli altri, peruviani, cileni, eccetera, con le complicazioni razziali proprie di nazioni dallo storico meticciato. Per non parlare dei brasiliani che per metà sono neri o nerissimi e per il resto diventano un’antologia di due secoli di immigrazione europea. Il risultato finale è che, essendo sparita ogni colorazione propriamente “patriottica”, qualsiasi speculazione sugli “obblighi” nazionali dei calciatori è fisiologicamente scomparsa. Per fare un esempio, si prenda l’Inter attuale, dove gli italiani che giocano sonorarissimi. Dal bambino italiano Santon al semi-desaparecido Materazzi, oppresso da un carico schiacciante di tatuaggi, i due sono larghissimamente sovrastati dagli stranieri, in massima parte argentini e brasiliani, ma anche di altra origine, sino ad arrivare ad un centravanti bosniaco dal passaporto svedese (Ibrahimovic). È un po’ difficile, pertanto, che un ammonitorio allenatore portoghese, che ha imparato benino l’italiano ma che dell’Italia sembra essersi già stufato, possa rilanciare una visione “etnica” del calcio. Il “folber” caro a Brera è pertanto irrecuperabile e può avere corso unicamente nelle squadre nazionali, pur con i loro allenatori stranieri, ammesso che ci sia qualcuno nella stampa sportiva che abbia la tenacia (e la genialità) di riscoprire il gusto ottocentesco dell’invenzione parascientifica che fu di Gianni Brera. Naturalmente le sue qualità non possono essere confinate soltanto in questa paradossale e divertita teoria antropologica. Ho accennato prima al livello straordinario delle sue creazioni verbali o del suo recupero di parole divenute, nel senso breriano, di uso corrente fra i tifosi. Si pensi, tanto per fare qualche esempio, a termini come “goleador”, “melina”, “incornare”, “pretattica”, “atipico”, “centrocampista”, “cursore”, “euclideo”, “la dea Eupalla”, che apparvero fulminanti nelle pagine di Brera e che, riscoperti da stanchi imitatori, rivelano un tronfio sapore di volonterosa goffaggine cittadina, da parte di chi non ha un passato lombardamente e fluvialmente agricolo (ci sono quelli che scrivono “Non si può cantare e portar la croce”, senza poter aggiungere al proprio trascorso la vocazione paesana e religiosa di quella Padania che Brera invocò ben prima, e con maggiore eloquenza, della Lega).
Claudio. G. FAVA

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Vado cercando la piacevolezza della lettura,e raramente rimango appagato.Certamente sulle pagine di Giovannibrerafucarlo (ho un libriccino "Il calcio azzurro ai Mondiali" Campironi Editore del 1974,letto e riletto alla vigilia degli infausti Mondiali di Germania che contiene le teorie "etnocalcistiche" da lei sapientemente rievocate.Sicuramente il tempo e il benessere hanno allineato i futbolisti italiani alla prestanza fisica dei nordici.Rimane intatto tuttavia l'incanto delle pagine che descrivono il match Italia-Brasile del 1938 o la sfida fra Guillermo Stabile "El Filtrador" e Zamora "El Divino",sui campi di allora.

Claudio G. Fava ha detto...

Caro Enrico,
con il suo commento mi ha fatto venire in mente un piccolo aneddoto che riguarda Stabile. Quando da ragazzo andavo da solo in gradinata (con mio padre andavo in tribuna numerata) a vedere il Genoa (che dal 1945 aveva ripreso il suo nome inglese) c'era sempre qualche vecchietto che mi attaccava in dialetto un bottone a proposito del centravanto argentino. Glielo traduco qui: "...Quando è arrivato, sono andati col piroscafo a prenderlo a Gibilterra. A Genova è arrivato Giovedì (in dialetto si dice "Zéuggia"), al Sabato ha giocato e ha fatto due goal" - qui il vecchietto faceva una pausa e poi aggiungeva - "O ciamavan El Filtrador". E poi concludeva: "L'anno dopo gli hanno rotto una gamba e non è mai più stato lo stesso". Su questo particolare della gamba non ho informazioni precise, ma mi ricordo nitidamente la frase.
Cordiali saluti

Anonimo ha detto...

La ringrazio per intiresnuyu iformatsiyu