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31 agosto 2010

COMMOZIONE PER FORD E SPENCER TRACY


L’altro giorno davo un’occhiata distratta, come spesso accade, a Sky, e di colpo vidi materializzarsi le immagini di un film che ho molto amato, “L’ultimo urrà” di John Ford. In America entrò nel circuito nel novembre del 1958, in Italia forse l’anno dopo. In ogni caso ho fatto a tempo a recensirlo (ero da poco tempo il critico cinematografico del “Corriere Mercantile”, dove sono poi rimasto sino all’inizio degli anni ’80) e a rimanerne affascinato. Non so quanti se lo ricordino. Personalmente lo ritengo una dei risultati più toccanti di uno dei più grandi registi della storia del cinema (1895 / 1973), Appunto John Ford, che per decenni ha arricchito di capolavori il cinema americano, per il quale ha fatto così tanto da restarne un simbolo ed un’immagine incancellabili. Per mezzo secolo egli contribuì in modo decisivo a fare del cinema una componente insostituibile della cultura del suo paese. Si può immaginare il mio dolore, essendomi imposto, nello scrivere il mio libretto “Guerra in 100 film”, la regola di “non” utilizzare film ambientati prima del XX secolo, nel dover rinunciare a dei capolavori assoluti come “Il massacro di Fort Apache” (1948) e “Cavalieri del nord ovest” (1949). Ove Ford riesce ad elevare un piccolo monumento alle tradizioni, alle ostentazioni ed alle compiaciute manie dell’Arma di cavalleria, tipiche dell’Europa ma avvertibili anche nelle più democratiche forze amate americane. Non è qui il caso di ribadire gli estremi di una fedeltà che riassume tutta la mia esistenza e per la quale ebbi amici e sodali di grande valore. Mi ricordo Tullio Kezich che nella Venezia degli anni ’60 mi diceva: “a casa ho un grande armadio, e tutto quello che trovo su Ford lo butto lì dentro”. Ed eravamo in molti che avrebbero voluto possedere un armadio come il suo. E’ chiaro che qui non posso ricapitolare i termini di un affetto larghissimamente articolato che riguarda titoli apparentemente assai differenti fra di loro, i quali affondano le radici nell’humus di cui è fatta l’America. Mi limiterò a tornare a parlare de “L’ultimo urrà”, opera decisiva nella filmografia dell’autore, ma poco ricordata, e forse anche poco apprezzata, in Italia. Ricordo che è tratto da un libro omonimo di Edwin O’Connor che noi non conosciamo per nulla, ma che evidentemente in America ha avuto un suo periodo di notorietà. Nato a Providence, nel Rhode Island, il 29 luglio del 1918, morì di emorragia cerebrale il 23 marzo 1968. Nel corso di una vita relativamente breve, fu protagonista di rubriche radiofoniche, giornalista e romanziere. Vinse anche un Premio Pulitzer per la “fiction”. Nella sua opera si occupò spesso dell’ambiente da cui lui stesso proveniva, e cioè degli americani di origine irlandese. E scrisse appunto questo “Ultimo urrà”, da cui lo splendido film di Ford (il romanzo è dello stesso anno del film), in qualche modo ispirandosi ad un personaggio realmente esistente, e cioè James Michael Curley (20 novembre 1874 – 12 novembre 1958) che fu quattro volte sindaco di Boston (dal 1914 al 1918, dal 1922 al 1926, dal 1930 al 1934 e dal 1946 al 1950) ed anche il 53° governatore del Massachusetts. Inoltre nel 1902 e nel 1903 fu membro della “House of Representatives” del suo stato. E, cosa più importante, fu almeno due volte rappresentante del Massachusetts al Congresso di Washington e, per anni, il naturale delegato della comunità irlandese-americana che nel corso dei decenni aveva mutato le caratteristiche “wasp” dei vecchi abitanti di Boston, facendo diventare i “papisti” il gruppo etnico più importante della città. Ancora oggi gli irlandesi rappresentano più del 20% del totale degli abitanti del Massachusetts, percentuale che, sommandosi al 14% degli italoamericani ed all’8% degli ispanici, fa dei (teoricamente) cattolici più del 40% del totale. Si ricordi che inizialmente il Massachusetts era uno Stato a carattere prevalentemente protestante e, in una città come Boston, dominata dalle antiche famiglie dei primi immigrati, erano palesi le stesse caratteristiche. Curley fu probabilmente il rappresentante più significativo dello sconvolgimento etnico e religioso conosciuto dalla città, che consentì appunto a tanti oriundi irlandesi di acquistare peso politico e finanziario (accadde con i Fitzgerald e con i loro parenti Kennedy, che non a caso fornirono agli Stati Uniti il primo, e per ora unico, presidente cattolico della nazione).
Si vede di qui quanto fu importante la presenza di Curley (finì anche in prigione per cinque mesi, ma poi fu “pardoned” dal presidente Truman, premuto dalla delegazione parlamentare del Massachusetts), il quale seppe per anni accontentare i suoi elettori con favori d’ogni genere, credo in qualche caso oltre i limiti del codice. Il romanzo di O’Connor ne disegna, chiamandolo Frank Skeffington, un ritratto forse un poco addolcito ma in certo modo esplicito per quel che riguarda le caratteristiche di base del personaggio. Non stupisce quindi che John Ford (molto sensibile alle sue origini irlandesi, basti pensare a “Un uomo tranquillo” del 1952) abbia attinto al testo. E lo abbia fatto sceneggiare da Frank S. Nugent, rispettato “script doctor” nel mondo del cinema: ha avuto una nomination per gli Oscar, ha vinto due volte il premio della WGA, Writers Guild of America, e per lo stesso premio ebbe anche due nominations. In particolare autore di fiducia del regista, tant’è vero che dei ventun film da lui sceneggiati fra il 1948 e il 1965, ben undici sono diretti da Ford, e mi limiterò a ricordare “La nave matta di Mister Roberts”, “Cavalcarono insieme”, il fondamentale “Sentieri selvaggi”, oltre a titoli già citati per motivi diversi (“Il massacro di Fort Apache”, “I cavalieri del nord ovest” e “Un uomo tranquillo”). Come si vede un interprete di talento del mondo fordiano. E lo si vede assai bene qui, dove il traliccio del racconto offre al regista un meccanismo straordinario per rievocare un frammento di quell’America provinciale ed “etnica” che fu uno dei suoi cavalli di battaglia. E poi, ovviamente, c’è un’altra cosa. E cioè quella forza della natura rappresentata da Spencer Tracy. In cui ritrovo la profonda fascinazione che su tutta la generazione a cui appartengo esercitò il grande divismo americano (dev’essere un problema mio di età, perché non avverto nulla di simile per gli attori del giorno d’oggi). Tracy – nome e cognome erano suoi, il secondo nome era Bonaventure – riuscì a dar vita ad una carriera assolutamente affascinante, pur invecchiando precocemente e morendo (il 10 giugno 1967) a soli 67 anni: nel corso di 37 anni lavorò in 78 film nella maggioranza dei quali ebbe parti di rilievo se non da protagonista. Tracy fece in tempo ad essere un attor giovane, un uomo di mezza età ed un vecchio, riuscendo in ognuna di queste apparizioni (inizialmente fu attivo anche in teatro) a lasciare una traccia decisiva nella storia del cinema americano. Fu successivamente “l’interprete ideale di giovani onesti e grintosi, pronti a rimboccarsi le maniche per sbarcare il lunario nell’America della Depressione” (Francesco Costa). Ma fece in tempo anche ad essere un sacerdote contrapposto a Clark Gable in “San Francisco” e via via ad allineare una serie di personaggi (il direttore di un giornale scandalistico, un coraggioso pescatore portoghese, il torbido eroe di “Dottor Jekyll e Mr. Hyde”, eccetera) senza contare la sua determinante presenza a fianco di un’attrice determinante come Katharine Hepburn. Che recitò al suo fianco una parte decisiva. Per molti anni fu la sua compagna affezionata (Tracy era sposato ma per motivi religiosi non volle mai divorziare, anche se la moglie non era cattolica come lui, ma Episcopale) e al tempo stesso la sua inarrivabile collega di lavoro. La coppia dette vita ad un inarrivabile prodigio di umorismo e di abile tristezza, in una serie di film che fanno parte di una delle più godibili pinacoteche del cinema americano. E che trovò, dopo decine d’anni di straordinari incontri, la sua crepuscolare conclusione nell’affascinante duetto che è alla base di “Indovina chi viene a cena” (curiosamente il personaggio “liberal” tocca a Tracy, che in realtà fu un cattolico conservatore, mentre nella vita reale fu Katharine il personaggio politicamente più avanzato). Non voglio aver l’aria di scoprire qui Spencer Tracy e la sua mostruosa sottigliezza di recitazione (in “Indovina chi viene a cena” fu doppiato dal grande Corrado Gaipa e non v’è dubbio che da questa estrema accoppiata si sprigioni un sapore di tristezza) ma è certo che egli fu mille personaggi diversi ed in ognuno di essi acquistò una coloritura particolare e in certo modo insuperabile: si ricordi che il doppiaggio ci toglie il gusto di udire la sua voce, ampiamente celebrata nelle cronache americane. Ne ”L’ultimo urrà” il suo sindaco Frank Skeffington è un miracolo di composizione: nel personaggio si alternano la paesana astuzia irlandese, la furbizia “papista”, la sapiente indulgenza politica filtrata dalla convivenza proletaria, l’uso spietato ma sorridente delle infinite possibilità offerte all’umana sagacia dal sistema politico della periferia americana ed intorno a lui Ford riesce a creare una strepitosa antologia di scaltre convenzioni narrative: si vedano gli uomini di fiducia del sindaco ed i suoi nemici, di politica e di classe, che sono i classici “bramini” bostoniani. Vale a dire la classe politica aristocratica e protestante che risale ai Padri Pellegrini e che fu costretta a vedere il suo mondo sconvolto dalla fastidiosa immigrazione cattolica degli irlandesi e degli italiani. Fu dei “bramini” che si disse una frase famosa, e cioè che i Lowell parlavano solo con i Cabot e i Cabot solo con Dio. Nell’originale è una poesia di J.C. Bossidy, che dice letteralmente: ”And this is good old Boston, The home of the bean and the cod, Where the Lowells talk to the Cabots, And the Cabots talk only to God".
Guardate la faccia di Spencer Tracy mentre si confronta con i suoi nemici “bramini” (c’è anche un vescovo protestante che in fondo gli vuol bene) e capirete che cos’è il volto di un grande attore.


2 commenti:

Anonimo ha detto...

Splendido ritratto di Spencer Tracy.

Anonimo ha detto...

Caro Fava, come mai la rivista Divi&Vegeti (il primo numero era dedicato proprio a Spencer Tracy) non è più stata fatta?
Matteo