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29 aprile 2011

MOVIOLA PERSONALE (E LIBRARIA): LA GUERRA E LA SCIENZA POLITICA

Il Professore Giorgio Fedel, ordinario nell'Università di Pavia, aggiunge ai suoi compiti d'insegnante del Dipartimento di Studi Politici e Sociali, anche quello di Direttore della rivista quadrimestrale "Quaderni di Scienza Politica", giunta ormai al 18° anno ed edita a cura del Centro Interuniversitario di Analisi di Simboli e delle Istituzioni Politiche (CASIP) "Marius Stoppino". La rivista si pubblica con il contributo dell'Università degli Studi di Pavia. Direzione e Redazione hanno sede a Pavia presso il Dipartimento prima menzionato, Sezione di Scienza Politica, Strada Nuova 65, 27100 Pavia. Il telefono della direzione è: 0382.98.43.69. quello della Redazione è 0382.98.43.63/65, l' e-mail è: quaderni@unipv.it, il website è: www.unipv.it/quasp.


Il professore Fedel ha avuto l'estrema gentilezza d'invitarmi a collaborare alla rivista, proponendo io stesso articoli a mia scelta. In attesa di elaborare qualcosa di più organico e articolato gli ho inviato il brano seguente sul cinema di guerra e le implicazioni che il tema ha avuto per me: un libretto sul tema, e una conferenza a Palazzo Ducale di Genova. Il professore Fedel mi ha anche autorizzato a riportare il brano in questo blog, indicando i dati riguardanti la sua pubblicazione nella rivista. Cosa che faccio ben volentieri. Il testo apparirà nel n.2 di Agosto 2011 di "Quaderni di Scienza Politica", al quale mi auguro non arrechi troppo danno.


Ecco il testo:



RIFLESSIONI SUL CINEMA DI GUERRA
Fra il 14 e il 17 aprile 2011 ha avuto luogo nel Palazzo Ducale di Genova un’ampia edizione de “La Storia in Piazza” dedicata questo anno a “L’invenzione della Guerra”, durante la quale moltissimi convenuti, storici, filosofi, antropologi, hanno parlato di “come la guerra sia una chiave di lettura dei processi di modernizzazione, della costruzione dell’immaginario collettivo e della memoria pubblica”, giusto per ripetere le frasi dell’opuscolo introduttivo. Per i non genovesi ricordo che Palazzo Ducale è l’antica sede dei “Dogi” di Genova: intorno si apre la piazza centrale della città, Piazza De Ferrari. Da diversi anni l’edificio è stato completamente recuperato e riattato, con l’obbiettivo di riportarlo alla struttura di un tempo e nel giro di questi ultimi anni è diventato una delle sedi principali dell’attività museale e culturale della città. Almeno di quella ufficiale, visto che la manifestazione (la ritengo abbastanza costosa dato l’amplissimo numero di convenuti) è stata finanziata, mi è parso di capire, dal Comune di Genova e presumibilmente da altri enti pubblici. All’interno di quest’amplissima iniziativa ha avuto un piccolo spazio anche il cinema. Per l’organizzazione ci si è rivolti ad Antonella Sica e Cristiano Palozzi che da molti anni mandano avanti, sempre con meno aiuti ma con grande tenacia e capacità di invenzione, il Genova Film Festival, vale a dire la manifestazione specializzata più importante in Liguria. Poiché entrambi sono amici che mi vogliono bene mi hanno riservato, fra l’altro, mezz’ora di tempo per parlare di un mio recente libretto intitolato “Guerra in cento film” edito da Le Mani. La mezz’ora successiva era stata riservata ad un regista, Enzo Monteleone, autore fra l’altro di ”El Alamein- La linea del fuoco”, il più recente dei diversi film centrati sulla tragica battaglia che dalla fine di ottobre e l’inizio di novembre 1942 vide l’Armata Italo-Tedesca di Rommel e Bastico schiantata e distrutta dalle forze armate inglesi in quegli avamposti del deserto egiziano che erano stati occupati con eccessivo ottimismo. Gli organizzatori hanno deciso all’ultimo momento di fondere il mio spazio con quello di Monteleone, dando vita ad un incontro di un’ora che, debbo ammettere, è stato salutato da un grande successo di pubblico. Va anche detto che nell’ora precedente è stato proiettato un commovente documentario girato dallo stesso Monteleone e centrato su alcuni superstiti della battaglia. Tutti inquadrati nella Divisione Pavia che, anche se se ne parla meno, è stata distrutta a El-Alamein come altre Divisione più note: la “Folgore”, L’”Ariete”, la “Trieste”, eccetera. La Divisione Pavia discende dalla brigata omonima costituita nel 1860 e che ha combattuto in tutte le guerre, da quella data sino alla Prima Guerra mondiale. Nell’ agosto 1939 diventa, con l’ordinamento binario, la 17° Divisione di Fanteria “Pavia”, sempre centrata sui due tradizionali Reggimenti di Fanteria, il 27° e il 28°, insieme al 26° Reggimento di Artiglieria ed ai diversi reparti di servizi collaterali. In Libia la Divisione venne dislocata nel 1940 prima sul confine Libico-Tunisino e poi nella zona ad ovest di Tripoli. Nel 1941 vi rimase sino all’aprile per essere poi trasferita, tra l’altro, nella zona di Tobruk, contenendo fra novembre e dicembre gli assalti inglesi. Successivamente venne spostata in diversi luoghi, fra cui alcuni spesso citati ora con la rivolta in Libia. Ad esempio Bengasi e Agedabia. Nel 1942 infine, dopo diversi spostamenti fra Tobruk, Bardia e Sollum, la “Pavia” fini con l’arrestarsi davanti ad El-Alamein. In ottobre e sino al 3 novembre la Divisione dovette arretrare verso la cosiddetta depressione di El Qattara. Qui le retroguardie, raggiunte dalle unità corazzate inglesi, furono annientate. Successivamente tutti gli altri reparti vennero accerchiati e sopraffatti. Il 25 novembre la Divisione, che in patria aveva sede a Ravenna, venne sciolta e non mi risulta che sia stata più ricostituita. Alcuni dei superstiti intervistati da Monteleone nel frattempo sono morti (i più giovani erano ultra ottantenni) e la loro testimonianza risulta al tempo stesso decisiva e terribile. Un esercito di reclute spedite con fucili modello ’91, fasce mollettiere, scarpe da tennis e pesantissimi caschi coloniali (quelli inglesi erano saggiamente leggerissimi) a morire nel deserto, con poco cibo scadente e pochissima acqua. Io mi sono commosso diverse volte nel vedere il documentario- credo sia allegato al DVD del film- anche perché la lucida consapevolezza dei protagonisti sulla terribilità della guerra si sposava anche ad una sorta di rattenuta dignità: quei vecchi spesso ribadivano che non si erano mai arresi formalmente e che avevano cessato la resistenza quando non avevano più munizioni, viveri e rinforzi di fronte ad un nemico ricco e organizzato, splendidamente armato e rifornito di ogni ben di Dio, dalla frutta sciroppata ai liquori ed all’acqua che giungeva spesso in prima linea direttamente grazie a tubature (gli italiani, quando la ricevevano, dovevano accontentarsi di un liquido disgustoso contenuto nelle taniche inizialmente destinate alla benzina e alla nafta).
A parte il fatto che ho dovuto superare il giusto imbarazzo e l’amarezza di Monteleone perché il suo film non era stato menzionato nel mio libro (mi sembra poco probabile che ci sia una seconda edizione, ma in questo caso farò il possibile per ovviare alla mancanza) dalle immagini e dalle nostre parole è balzato fuori ancora una volta il problema di fondo del cinema di guerra. E cioè la sostanziale impossibilità di ricreare nei volti degli attori – i protagonisti come le comparse – quel gelido sapore di paura che la guerra crea nel volto e negli occhi di chi deve sopportarla. So di cosa parlo perché, pure essendo nato nel 1929 (ero bambino all’inizio del conflitto ed entravo nell’adolescenza alla sua fine) ricordo lucidamente quel che si vedeva nei visi delle persone che mi stavano intorno durante i bombardamenti. Sia quelli aerei, che furono così intensi negli ultimi tempi del conflitto, sia quello navale del 9 febbraio 1941, quando la flotta inglese sparò almeno per tre quarti d’ora bordate su bordate di grossi calibri contro la mia città, Genova, totalmente incapace di difendersi (casa mia, nel centro della città, venne tagliata come una torta da un 305). Il paradosso dei film centrati sulla guerra, o che della guerra in qualche modo risentono, è tutto qui. Ed è straordinario il talento di alcuni grandi registi (a volte famosi, a volte dimenticati o per sempre sconosciuti) nel ritrovare nelle inquadrature almeno il sapore lontano di quella paura, così come dello sconvolgimento creato in un medio essere umano dalla necessità di uccidere (o di essere uccisi).
Varrà la pena di fare qualche titolo. Rimanendo nel discutibile ambito dei cento film citati nel mio libretto (per motivi di spazio ho rinunciato alla grande eredità del cinema muto, a tutti i film ambientati prima della Grande Guerra ed ho dedicato al massimo una scheda di film ad un regista, eventualmente evocando altre opere nel testo) vorrei menzionare alcuni dei titoli che mi sono più cari. Prima di tutto il film che in assoluto prediligo al mondo e cioè “La Grande illusione” (1937) di Jean Renoir, ove con mano magistrale sono disegnate le ascisse e le ordinate del modo in cui la guerra esplode. E cioè, nel momento stesso in cui i protagonisti cadono prigionieri, vengono alla luce, da un lato, la fraternità che si instaura fra i combattenti, e dall’altro, la sopravvivenza decisiva dei legami di educazione, di situazione sociale e di casta i quali si intrecciano fra nemici che sono molto più simili tra loro di quanto non lo siano con i camerati di combattimento. La silenziosa amicizia che nasce fra il patrizio tedesco Erich von Stroheim e quello francese Pierre Fresnay (il primo sarà costretto ad uccidere il secondo) implica una secolare affinità che supera ogni senso patriottico di appartenenza. Ancora qualche titolo: “All’ovest niente di nuovo” di Lewis Milestone (1930), “Alfa Tau!” di Francesco De Robertis (1942) e dello stesso anno “Eroi del mare” di Noel Coward e David Lean, “Casablanca” di Michael Curtiz (1943), “Prigionieri dell’oceano” di Alfred Hitchcock (1944), “I sacrificati di Bataan” di John Ford (1945), “Paisà” di Roberto Rossellini (1946), “Bastogne” di William A. Welman e “Cielo di Fuoco” di Henry King (entrambi del 1949), “Mare crudele” di Charles Frend (1953), “I ponti di Toko-Ri” di Mark Robson (1954), “Un condannato a morte è fuggito” di Robert Bresson (1956) “I dannati di Varsavia” di Andrzej Wajda,“Duello nell’Atlantico” di Dick Powell (entrambi del 1957) "Tempo di vivere" di Douglas Sirk (1958), “La Grande Guerra” di Mario Monicelli (1959), “Tutti a Casa” di Luigi Comencini (1960) “317° Battaglione d’assalto” di Pierre Schoendoerffer, “L’Armata degli eroi” di Jean-Pierre Melville (1969), “Cognome e nome: Lacombe Lucien” di Louis Malle (1974), “Apocalipse Now” di Francis Ford Coppola (1979), “U-Boot” di Wolfgang Petersen (1981), “Anni ‘40” di John Boorman (1987), “Salvate il soldato Ryan” di Steven Spielberg (1998), “The Hurt Locker” di Kathryn Bigelow (2008).
E’ un elenco lungo, e spero non troppo fastidioso, ma è anche al tempo stesso un elenco breve perché mancano forse altrettanti film. Uno dei quali è, paradossalmente, un film doppio. Vale a dire quello che rievoca la battaglia di Iwo Jima, iniziata il 16 febbraio 2005 e terminata ufficialmente il 26 marzo dello stesso anno (anche se poi ci vollero altri due mesi per eliminare tutte le disperate sacche di resistenza dei giapponesi, uno degli eserciti ove l’obbligo morale di non arrendersi diventava una sorta di forsennata vocazione semireligiosa). Come è facile capire si tratta di “Flags of Our Fathers” e di “Lettere da Iwo Jima”, una sorta di due gemelli omozigoti che risalgono a quel personaggio, al tempo stesso trasparente e misterioso, che ha pochi eguali nella storia del cinema mondiale. E cioè Clint Eastwood, un mistero glorioso della nostra epoca. L’abbiamo visto concretarsi nel nostro cinema perché era l’applaudito interprete di un serial western televisivo di successo, e perché il suo ingaggio era più basso di quello di tutti i suoi colleghi. La paradossale parodia di un genere tipicamente americano, riproposto in Europa con estrema sfacciataggine romanesca da quel personaggio geniale che fu indubbiamente Sergio Leone, lo impose come uomo dalle due espressioni, l’una con il cappello e l’altra senza. Rinfrancato dal suo ritorno in patria egli si impose anche ad Hollywood con la serie poliziesca dell’Ispettore Callaghan (nell’originale Callahan, senza la “G”) che gli attirò da molte parti l’accusa di fascismo, e che nelle sue mani ed in quelle di Don Siegel divenne in realtà uno dei veicoli di maggior importanza nel mutamento del racconto “Hard Boiled” al cinema. Dopodiché sotto i nostri occhi si mutò lentamente ma decisamente in un regista, ancor voglioso di recitare la parte del primattore, seppure man mano in grado di disegnare sottilmente personaggi sempre diversi e sempre più raffinati. E’ la storia del “fenomeno Clint”, che dura da decenni e che non dà la sensazione di doversi interrompere. In particolare questa sua incursione, mai così clamorosa in precedenza, nella rievocazione cinematografica del secondo conflitto mondiale, raggiunge probabilmente il culmine con “Lettere da Iwo Jima”, che è probabilmente l’unico vero tentativo di “fiction americana” totalmente collocato nel campo e nella psicologia dei giapponesi. Vorrei chiudere questa breve divagazione centrata su Eastwood con un frammento di una risposta da me utilizzata nella rivista “Film Doc”, ove da molti anni tengo una rubrica di corrispondenza con i lettori. Ecco il brano riguardante Clint, dove non avevo mancato di far cenno dell' ottimo libro sul cineasta americano del mio amico Alberto Castellano che lo ha recentemente ampliato ed aggiornato, arrivando ad esaminare tutti i film sino ad ora prodotti sino ad “Hereafter” compreso. Dicevo fra l’altro nella mia risposta:


”…Iwo Jima significa l’“Isola dello Zolfo”, fa parte dell’arcipelago di Ogasawara e si trova a circa 1080 km a sud di Tokyo, a 1130 km a nord di Guam ed a circa mezza strada tra Tokyo e Saipam. L’ostinazione degli americani nel conquistarla era determinata dal fatto che, insieme ad Okinawa era di fondamentale importanza strategica per ospitare i bombardieri pesanti in grado di bombardare il Giappone. Consapevole di ciò i giapponesi vi concentrarono 25.000 uomini (22.000 secondo altre fonti) agli ordini del generale Tadamichi Kuribayashi, nato il 7 luglio 1991 e morto a Iwo Jima il 26 marzo del 1945, data citata in precedenza come termine della resistenza organizzata da parte giapponese (sembra che egli si sia suicidato ma la cosa non è sicura). Complessivamente le forze assalitrici americane, comandate dal famoso ammiraglio Raymond A. Spruance, ammontavano a circa 100.000 uomini, fra cui almeno 70.000 Marines, appoggiati da una imponente forza aereonavale. Il generale Kuribayashi, che sembra fosse persona di valore (era stato vice addetto militare a Washington; per due anni viaggiò attraverso gli Stati Uniti portando a termine un’ampia ricerca militare e industriale, e fu anche per un breve periodo studente ad Harward) aveva impostato lo scontro come un’ imponente battaglia di logoramento. Allontanata la popolazione civile egli fece scavare un complesso sistema di gallerie. La battaglia durò un mese e mezzo e fu terribilmente sanguinosa: la guarnigione giapponese venne quasi completamente annientata (i prigionieri furono solo 1.083). Dal canto loro gli americani ebbero un alto numero di uomini fuori combattimento, circa 26.000. Sostanzialmente mi sembra che Clint Eastwood abbia cercato di restituire quell’immane tragedia nel modo più attendibile. Si fece tradurre dal giapponese molti libri riguardanti il generale Kuribayashi, trovando anche una raccolta di lettere dello stesso generale. Come è noto globalmente la reazione della critica italiana e straniera è stata ampiamente favorevole a questo film, forse ancor più di quanto non lo sia stata nei confronti del precedente “Flags of our fathers”, che racconta la stessa battaglia dal punto di vista degli americani e di cui “Lettere da Iwo Jima” è la logica e schiacciante conclusione…”
In questi ed in altri film che ho citato non è detto che il fondamentale senso di paura a cui ho fatto allusione in precedenza sia sempre sensibile e consapevole. Ma probabilmente in tutte queste oper si avverte almeno un brivido di quel misterioso enigma, di quella forzata e infinità crudeltà, di quella disciplinata mostruosità che resta la guerra
CLAUDIO G. FAVA
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1 commento:

Carlo Bernasconi ha detto...

Mi ha sorpreso non vedere citato "Orizzonti di Gloria" di Kubrick, che mi sembra l'opera in cui più di tutte "si avverte quel misterioso enigma, quella forzata e infinita crudeltà, quella disciplinata mostruosità che resta la guerra".