Blog - Crediti
28 luglio 2011
Per piacere, intercettate! - Audio - Giulio Anselmi
26 luglio 2011
A DOMANDA RISPONDE (PRECISAZIONI CON SCADENZA IMMEDIATA)
Per quel che riguarda i lettori, ringrazio volentieri Ivana O. e condivido la sua nostalgia per alcune trasmissioni dei tempi trascorsi (non sono sicuro ma ho l'impressione di avere partecipato una volta ad "Harem", nella parte di un ospite nascosto). Per venire a Davide Barranca ed alle sue curiose memorie di zucchero caramellato legate alle trasmissioni di Gloria ed Oreste, credo proprio di ricordare anche io che "Diritto di replica" di Sandro Paternostro - i quattro animatori erano Oreste De Fornari, Fabio Fazio, Stefano Magagnoli e Enrico Magrelli , ed una volta partecipai anche io alla trasmissione - si concludesse con il canto di "Gaudeamus igitur" (il titolo esatto dell'inno è, mi pare, "De brevitate vitae" ma nessuno se lo ricorda mai-)di cui per sua comodità ricopio qui la quartina più famosa:
« Gaudeamus igitur iuvenes dum sumus. Post iucundam iuventutem post molestam senectutem nos habebit humus! » |
Grazie a tutti ed arrivederci alla prossima telefonata, che dovrei registrare entro mercoledì 27/07/2011.
25 luglio 2011
RISPOSTE E CONSIDERAZIONI VARIE MA NON EVENTUALI: FESTIVAL DEL DOPPIAGGIO, SERIALI TELEVISIVI, EMANUELE FILIBERTO DI SAVOIA E INDRO MONTANELLI
Veniamo a noi. Mi occupo di nuovo di programmi televisivi. Dopo l'"Ispettore Barnaby", vorrei dedicare un po' di spazio a due seriali americani: "Law & Order" e il bizzarro "Numbers", che purtroppo negli Stati Uniti è terminato da poco e che è prodotto dagli ingegnosi fratelli Scott, inglesi di nascita. Uno è Ridley (nato nel 1937), quello de " I duellanti", "Blade Runner", "Thelma & Luise" ,"Soldato Jane", "Il Gladiatore", "American Gangster", eccetera. L'altro è Tony (1944), quello di "Top Gun", "Allarme rosso", "Spy Game", "Domino", eccetera. Basato su una complessa ipotesi matematica (che sembra essere verosimile e attendibile) il seriale ha un intonazione tecnologica sofisticata e purtroppo è già terminato negli Stati Uniti, seppure da poco. Infatti la CBS lo ha cancellato dai programmi il 18 maggio 2010, quando ormai aveva raggiunto il 6° anno consecutivo. In quanto a "Law & Order" dura da circa 20 anni ed è uno dei più longevi seriali polizieschi americani. Riparleremo dell'uno e dell'altro.
Volevo approfittare di questo breve intervallo discorsivo per fare cenno di due notizie recentissime apparse in questi ultimi giorni nei quotidiani l'una riguarda Emanuele Filiberto di Savoia che (vedi il Secolo XIX di giovedì 21 luglio) ha presentato a "Pontremoli Summer nights" il romanzo "Mi fai stare bene" edito da Rizzoli e firmato solo con i nomi propri e senza l’altisonante cognome. Confesso che Emanuele Filiberto mi reca un certo imbarazzo. Non riesco a capire, al di là del fatto che ha modi garbati, che specie di educazione abbia ricevuto, ammesso che il padre e la madre siano in grado di educare qualcuno. Da quando è venuto in Italia il suo italiano, che era già molto corretto per uno nato e cresciuto all’estero, è indubbiamente migliorato. Ma ciò che non è migliorato è il tono dell’immagine che egli intende e riesce a dare di se. Ha completamente rinunciato, sembra di capire, ad essere il figlio di un teorico pretendente al trono? Ma in caso affermativo che cosa vuol fare e chi è veramente ? Non vi è dubbio che utilizza il pur deteriorato nome della Ditta di famiglia (pur omettendolo sulla copertina del libro) per farsi notare e per proporsi all’attenzione della gente in tutti i modi immaginabili: si è proposto come candidato politico, se ricordo bene alle elezioni europee. Si è esibito sul palcoscenico di Sanremo, è andato all’Isola dei Famosi, se ricordo bene in passato ha fatto anche il commentatore sportivo a favore della Juventus. Adesso ha pubblicato un romanzo, che francamente non ho intenzione di comprare e di leggere, ma che testimonia ancora una volta della sua incessante intenzione di mutarsi per apparire. Evidentemente è libero di fare quello che vuole, e non vorrei che le mie parole potessero suonare offensive o spregiative. Tuttavia confesso che quando lo vedo o sento parlare o scrivere di lui provo un senso di tristezza e di imbarazzo. Penso a suo nonno, Umberto II, le cui immagini sono facilmente controllabili in internet (ad esempio c’è un intervista con lui del mio amico Nicola Caracciolo oppure la cronaca visuale con migliaia di italiani commossi in un ampio giardino di Beaulieu, in Francia. E basta pigiare sui tasti per trovare probabilmente molte altre immagini di Umberto). Il quale non fu certo esente da errori, pagando duramente come Principe di Piemonte, la sua eccessiva acquiescenza al volere del padre Vittorio Emanuele III che ribadiva sempre: “I Savoia regnano uno alla volta” . Pur essendo non incolto e non impreparato egli pagò un duro prezzo alla compromissione famigliare con il fascismo e, a quel che si dice, alle tonalità particolari della sua vita privata su cui sembra che Mussolini avesse un ampio incartamento. Ma tuttavia resta il fatto che dopo le elezioni del 2 giugno 1946 si allontanò dall’Italia con molta eleganza e la stessa eleganza dimostrò nei 37 anni successivi, prima della morte (se ricordo bene lo colse in un letto di ospedale alla sola presenza di un infermiera). Io ho visto da vicino la fedeltà e l’entusiasmo di tanti monarchici, giovani e meno giovani, nei mesi convulsi che precedettero il referendum istituzionale del 1946. Lo dico con la lucidità con cui rivedo il mio passato, quando, nella mia classe di liceo al “Vittorino da Feltre” (Istituto scolastico dei Padri Barnabiti, ora scomparso, tipico di una certa Genova, ci aveva studiato anche Montale) scopersi di essere l’unico repubblicano. Tutti i miei compagni di classe, almeno una ventina, erano apertamente o tacitamente monarchici. E almeno due di essi facevano aperta propaganda e tenevano comizi o incollavano manifesti. Scrivo questo per restituire il clima di un epoca, che era vivo anche in una città tendenzialmente rossa e storicamente poco savoiarda come Genova (una volta, in pieno fascismo, parlando di una visita genovese di Vittorio Emanuele III, Mussolini disse: “l’altro giorno, pur di farmi dispetto, hanno applaudito perfino il Re”). Nella primavera del 1946 Umberto di Savoia fece molte apparizioni in diverse città italiane. Visite che spesso erano salutate da manifestazioni di favore dei monarchici ma ancor più di appassionate dimostrazioni contrarie dei repubblicani. In occasione di una sua visita a Genova uno di quei due compagni di classe di cui parlavo prima andò a rendergli omaggio nel palazzo dove ancora oggi ha sede la prefettura, praticamente in piazza Corvetto. Riuscì a parlargli e gli disse: “Sono un desperado di Vostra Maestà” E Umberto scrisse con la sua calligrafia ordinata su un biglietto: “A un mio desperado”. E lo firmò. (Si badi: Umberto conosceva molte lingue e sicuramente sapeva che la parola “desperado” è un errore italiano e francese. Infatti in spagnolo “disperato” si dice “desesperado”. Ma venne incontro all’errore di quel suo fedele). Molti anni dopo seppi che un mio amico, armato dell’asta di una bandiera, aveva partecipato ad una carica contro la prefettura per protestare contro la visita di Umberto. Il mio amico era Enzo Tortora.
A quei momenti difficili fecero seguito, per motivi che posso immaginare su cui non ho dati sicuri, decenni di incomprensione famigliare. Con Umberto che viveva a Cascais, in Portogallo, e la moglie Marie José, via via con le figlie ed il figlio Vittorio Emanuele, che vivevano a Ginevra. Una lunga separazione che non mi pare abbia fatto bene a nessuno dei due, visto che da un lato alimentò le malignità sulla presunta omosessualità di Umberto, e che dall’altro vide la pure intelligente e sensibile Marie José occuparsi molto di storia, dedicando diversi libri a dei Savoia scomparsi nei secoli e, a giudicare dai risultati,consacrare molto meno tempo all’educazione dei Savoia vivi.
Insomma una ribadita apparizione di Emanuele Filiberto, destinata a stupire molti dei fedeli di Umberto di un tempo, e perfino me che fedele non sono mai stato ma che ho sempre conservato molto rispetto per suo nonno. Penso sempre al suo perenne sorriso, faticosamente ostentato e stereotipato, di quando sale sull’aereo che lascia l’Italia nel giugno del 1946; sorriso consegnatoci da un breve ma toccante frammento di cinegiornale dell’epoca (sia detto incidentalmente, per una curiosa combinazione, l’aereo venne pilotato dal fratello maggiore di Carlo Lizzani.) E’ curioso rilevare che la decisiva apparizione italiana di Emanuele Filiberto- egli vive nel nostro paese mentre la moglie e i due bambini vivono a Parigi – è contrassegnata da una dichiarata spaccatura all’interno dei superstiti sostenitori dei Savoia. Una parte è rimasta fedele a suo padre Vittorio Emanuele, mentre un’altra parte, capitanata da Sergio Boschiero fedelissimo di Umberto, ha optato, in base ad una pronuncia dell’associazione fondata in ricordo del Senato Regio, per i cugini Savoia-Aosta. E’ curioso rilevare come sovente queste spaccature avvengano fra i sostenitori di famiglie reali che hanno perso il trono da tempo. E’ accaduto in Francia con i sostenitori del ramo Orleans dei Borboni discendenti da Luigi Filippo, rappresentato dal conte di Parigi e dai suoi figli, e con i sostenitori dell’altro ramo che discende direttamente da Luigi XV. E’ accaduto in Brasile con un’aperta controversia tra due rami degli Orleans-Braganza e perfino, un’altra volta in Italia, dove i discendenti dell’ultimo Re delle due Sicilie, Borbone di Napoli, sono divisi in due rami, uno che vive in Spagna, riconosciuto dall’attuale re Juan Carlos e l’altro incarnato dal Duca di Noto che vive in Italia. Anche in questo si respira un sapore malinconico che, però, attinge a stimoli secolari molto più antichi dell’isola dei famosi.
L'altra notizia (vedi Corriere della Sera di venerdì 22 luglio), a firma di Antonio Carioti concerne una manifestazione (intitolata "Musiche nel giardino dei ciliegi") nel decimo anniversario della morte di Indro Montanelli. Il tutto avviene nel suo paese natale, Fucecchio, a cura della Fondazione Montanelli-Bassi, e all'interno di una serie di manifestazioni e celebrazioni che in questi anni hanno riguardato lo scrittore. A testimonianza di un interesse tenuto vivo dalla passione e dal ricordo di migliaia di suoi lettori. Rimando all'articolo per approfondire il tema e la figura di Montanelli, nei confronti del quale e della sua mirabile capacità di sintesi giornalistica, intessuta di sapiente semplicità toscana, io ho sempre provato grande ammirazione. Confesso tuttavia che vorrei sapere qualche cosa di più sul suo periodo giovanile di totale devozione al fascismo. Di cui lo stesso Montanelli ha fatto cenno, specificando una volta che era lieto di aver scritto certe testimonianze fasciste tipiche dei suoi anni perché se no le avrebbe scritte dopo. In certe note prese in funzione di una mia ricerca sullo spionaggio (a cui accudisco da qualche tempo e di cui non intendo far cenno sino a quando non l’avrò terminata) ho rinvenuto tracce precise riguardanti Indro Montanelli venticinquenne che andò a Parigi per collaborare all'"Italie Nouvelle - Nuova Italia", giornale fascista scritto in francese e in italiano (era stato fondato negli anni ‘20 redatto, completamente in francese; fra i primi collaboratori vi fu Giuseppe Ungaretti e il direttore dell’epoca, Nicola Bonservizi, venne ucciso in Francia da un anarchico italiano). Il direttore degli anni ‘30, colà inviato da Ciano e da Bocchini, Italo Sulliotti (che ho conosciuto bene perchè a Genova è stato mio direttore a "La Gazzetta del Lunedì"), ne fece cenno diverse volte. Ad esempio ne parla Mauro Canali in "Le spie del regime" (Il Mulino, Bologna, 2004). In una nota rivolta appunto al senatore Bocchini (potentissimo capo della polizia e dell'OVRA) Sulliotti inizialmente cita la "schietta anima fascista del Dott. Indro Montanelli”. Successivamente, però, è costretto a scrivere una lettera al Ministero degli Esteri in cui riteneva pericoloso "per se e per il ruolo di cauto propagandista del fascismo che egli andava svolgendo”, il comportamento di Montanelli orientato a far circolare in Francia L'Universale di Berto Ricci e , soprattutto, a ospitarne gli scritti sulla “Nuova Italia". Come è noto Berto Ricci fu un anarchico convertito al fascismo e fece parte di quel folto gruppo di intellettuali, fra cui Guido Pallotta e Niccolò Giani, che dettero vita alla cosiddetta "Scuola di Mistica fascista". Fra tanti gerarchi cinici e fra i numerosi allievi di una scuola dal nome grottescamente religioso, Ricci, Pallotta e Giani le cose le prendevano sul serio e, a testimonianza del loro impegno, una volta dichiarata la guerra andarono volontari in guerra e vi morirono tutti, uno sul fronte greco-albanese e gli altri due in Libia, fra il 1940 e il 1941. In particolare nei confronti di Berto Ricci Montanelli non ha mai rinnegato una certa sua ammirazione. Non è un caso che, al tempo del suo impegno fascista, sia stato lui a farlo ricevere da Mussolini a Palazzo Venezia e Mussolini ne fece un collaboratore del “Popolo d’Italia”. Ripeto non c’è niente di polemico in quel che scrivo ma solo un desiderio di chiarire meglio quel momento di “emballment” fascista del giovane Montanelli, che lo portò ad andare volontario per la guerra di Etiopia da cui nacque poi “XX° battaglione eritreo”, il suo primo libro che lo fece notare. E che gli permise di seguire come inviato speciale la guerra civile di Spagna, dove cominciò ad affiorare nel suo animo una crisi di sfiducia nel fascismo, che lo portò poi addirittura ad essere escluso dal Partito. E’anche vero che, protetto da Bottai, e difeso da un direttore molto fascista ma anche molto coraggioso come Aldo Borelli, egli, dopo una parentesi universitaria a Tallin, poté poi approdare al Corriere della Sera distinguendosi via via come uno dei migliori inviati speciali del giornalismo italiano di tutti i tempi. La sua rimane una fondamentale testimonianza di un anarchico conservatore e nella già citata pagina del Corriere della Sera sono stati riprodotte molte delle sue fulminanti definizioni. Mi permetto di riprodurne qualcuna qui, a testimonianza di un talento straordinario di paradossale testimone del suo tempo e di molti altri tempi, che condivideva con pochi altri intellettuali, fra cui paradossalmente due anche essi ricchi di trascorsi fascisti, durati molto di più di quelli di Montanelli: Mino Maccari e Leo Longanesi. Ecco dunque qualche paradosso di Montanelli: “Leo Longanesi trascorre la sua vita ad aver torto oggi per il gusto di avere avuto ragione domani” (1952). “Curzio Malaparte, morendo, ha avuto ragione. Non era fatto per invecchiare, e la dentiera gli sarebbe stata malissimo” (1959). “Pertini rimarrà indelebile nella nostra memoria e nel nostro cuore come il Presidente che ha incarnato al meglio il peggio degli italiani” (1985). “Dell’Italia non mi piace quasi niente. Ma quel poco che sono, sento di esserlo come italiano; e, se non fossi italiano, non sarei più nulla”(1997). “Certo che potremmo fare la rivoluzione Thatcheriana in Italia. Ci vorrebbero solo due cose: una Thatcher e dietro di essa l’Inghilterra” (1998). “Da quando siamo nati come nazione, il nostro atteggiamento è stato sempre lo stesso: quello di nemici dell’amico e di amici del nemico” (1999).
Io mi fermo qui anche se l’antologia potrebbe proseguire all’infinito.
19 luglio 2011
Per piacere, intercettate! - Audio - Oreste De Fornari
Grazie anticipate e buon ascolto a tutti.
PARTICOLARI (A RICHIESTA DI ANONIMO) SUL PROBLEMA DEL DOPPIAGGIO
In Italia si doppia praticamente tutto, ma il doppiaggio è prevalente, anche se non esclusivo come da noi, in Francia, in Spagna e in Germania (meno nelle nazioni multilingue o molto piccole, come i paesi Scandinavi). Indubbiamente il doppiaggio falsa il suono rivelatore e la natura complessa delle voci e dei dialoghi originali. In compenso può offrire, ma non sempre lo fa, la misura intera di quel che viene detto nella lingua originale, e che i sottotitoli debbono spesso forzatamente abbreviare.
Per ora direi che basta. Mi riservo, se esplicitamente richiesto, per chiarire tanti problemi al doppiaggio connessi: le tecniche dell'adattamento (che non è una mera traduzione) da una lingua ad un' altra, le competenze e le responsabilità dei direttori di doppiaggio e degli adattatori, le verità e le falsità implicitamente rapportabili al doppiaggio stesso. Ma, ripeto, è un complesso di argomenti vari su cui ho intenzione di ritornare soltanto, come ho scritto prima, se mi si richiede esplicitamente di farlo.
ULTERIORI PRECISAZIONI SU TREMONTI E SIMENON
18 luglio 2011
TREMONTI CRITICO LETTERARIO
Nel “Corriere della sera”di sabato 16 luglio ho trovato due citazioni riguardanti il ministro dell’Economia Giulio Tremonti che mi hanno molto divertito ed interessato; entrambe inattese, anche se di peso diverso. La principale, ed anche la più sorprendente fra le due, è quella che riguarda una inaspettata confidenza letteraria del ministro. Così la rievoca Paola Di Caro: ”Ieri, mentre sorseggiava alla buvette un cappuccino con Gianfranco Fini, con freddo sorriso, ai cronisti che l’assediavano per avere un commento (uno qualunque, a scelta) sui problemi che assillano il governo e lui personalmente (….) Tremonti ha dato solo un consiglio: leggetevi Simenon. Tre camere a Manhattan, per esempio. O Il Presidente, è bellissimo……”Al “Corriere” hanno giudicato la battuta così straordinaria da collocare l’inizio del pezzo addirittura in prima pagina (poi “gira” a pagina 6, con a fianco un brano di chiarimenti letterari e diverse precisazioni storiografiche). Confesso che Tremonti mi è sempre stato simpatico, con quella sua ostentata e compiaciute pignoleria tributaria innestata su un secco, provinciale accento di Sondrio. Ma adesso che ha citato Simenon mi è diventato ancor più simpatico. Perché , tuttavia, quella citazione? In particolare, perché Tre camere a Manhattan ? Come è noto è un romanzo (Marcel Carné ne trasse un film nel 1965 con Annie Gerardot, Maurice Ronet, Geneviéve Page e Gabriele Ferzetti) in cui Simenon rievoca e trasfigura una furibonda storia d’amore personale con una franco-canadese, Denyse Ouimet, assunta come segretaria bilingue. Essa diventerà poi la seconda moglie di Simenon, legata a lui da un sofferto rapporto romanzesco. La conosce nel Quebec, prima tappa “fissa” del suo complicato girovagare nel nuovo mondo, iniziato nel 1945 e di fatto terminato 10 anni dopo. Per Denyse Simenon lascerà la prima moglie, Régine Renchon detta Tigy, di Liegi come lui, da cui avrà un figlio, Marc. Da Denyse – nel 1950, a Reno nel Nevada, nel giro di soli due giorni riuscirà a divorziare da Tigy ed a sposare la segretaria – avrà poi tre figli, Jean detto Johnny, Marie-Jo (tormentata ragazza che finirà suicida) e Pierre Nicholas Chrétien. Questo matrimonio, contrariamente al primo, finirà in modo tempestoso e Denyse scriverà, credo, due libri per attaccare l’ex-marito.
Come ho già scritto non ho capito bene il rinvio ai giornalisti del romanzo di Simenon, mentre invece è complessivamente meno oscura la citazione de “Il Presidente”. E’ un romanzo del 1958 in cui il talento di Simenon si esercita magistralmente nel disegnare la figura di un famoso uomo politico francese, che ha avuto un passato splendido e vive un presente di frustrazione e isolamento, rinchiuso nella sua villa di provincia ed accudito da una segretaria, da domestici e gendarmi, tutti apparentemente fedelissimi. Molti hanno voluto vedere nel protagonista una esplicita allusione alla figura di Georges Clemenceau (1841-1929) che fu per decenni uno degli uomini più importanti della politica francese ed europea. Vandeano ma non “chouan”, fu anticlericale e repubblicano. Dopo un soggiorno in America di 4 anni, intraprese decisamente una carriera politica che lo portò ad essere, nel 1870, l’anno della guerra contro i prussiani, sindaco di Montmartre e poi, via via, deputato, senatore, ministro dell’interno nel 1906 e due volte Presidente del Consiglio, dal 1906 al 1909 e, soprattutto, dal 1917 al 1920. Questo vecchio uomo di sinistra – si battè senza risparmio nella difesa di Dreyfus - divenne poi, spostato a destra, un simbolo dell’unità nazionale e della guerra vittoriosa, per cui fu soprannominato “Père- la- Victoire” con un modo di dire francese in cui esiste una sfumatura non traducibile in italiano. Temuto e rispettato per la durezza del carattere e la testardaggine nell’azione, fu sconfitto due volte, nel 1920, nella corsa alla presidenza della Repubblica (era stato accettato all’ “Academie Française nel 1918) dopodichè si ritirò dalla vita politica scrivendo anche due libri di memorie. Pur privo di potere la sua presenza simbolica rimase decisiva nella politica francese. Per cui interpretare il romanzo di Simenon come un’ allusione a Clemenceau non è sicuro ma è un’ipotesi difendibile. Nessuno discute i meriti del libro mentre meno celebrato è risultato il film che Henry Verneuil ne ha tratto nel 1960. Forse perché il regista (vero nome Achad Malakian, un armeno fuggito a Marsiglia con i genitori all’età di 4 anni) è sempre stato passato sotto silenzio e mal compreso dalla critica. In realtà era un uomo di talento, colpevole solo di aver realizzato molti film dal grande incasso. In particolare “Il Presidente” ci offre non solo una splendida interpretazione di Jean Gabin (Emile Beaufort) ma anche di Bernard Blier (Philippe Chalamont) nella parte di un suo ex-capo di gabinetto, divenuto importante uomo politico, a cui viene addirittura offerta la Presidenza del Consiglio. Beaufort, che ha nelle mani una lettera in cui Chalamont ammetteva le sue colpe in un affare losco, riesce ad impedirgli di accettarla. Il film – a fianco dei due protagonisti ci sono anche Louis Seigner, che è il Governatore della Banca di Francia, Renée Faure, segretaria e governante di Beaufort e Alfred Adam, il fedele autista – è delizioso a vedersi per chi ama la politica, spicciola e grande, ed il cinema francese degli anni ’50 e ’60. Con i suoi attori collaudatissimi e la presenza nella sceneggiatura di un dialoghista di grande talento come Michel Audiard. Perché Tremonti l’abbia consigliato rimane un piccolo mistero, ma non v’è dubbio che la struttura del racconto ed il livello della realizzazione (si veda e si ascolti il significativo discorso di Gabin all’Assemblea Nazionale) potrebbero riuscire utili a dei politologi in erba come i giornalisti parlamentari.
Devo aggiungere che in questa occasione Tremonti ci obbliga comunque a pensare. Nel suo intervento alla camera egli ha dichiarato: “siamo come sul Titanic, neanche la prima classe è al sicuro” (questo è il senso della frase anche se la formulazione stilistica mi sembra, per quel che mi ricordo, diversa). Dato che il mondo è pieno di osservatori esatti, anche se vagamente maniacali, ecco che nello stesso numero del 16 luglio del “Corriere della Sera”, in una delle lettere indirizzate a Sergio Romano, un lettore (arnaldo.alberti@katamail.com) fa rilevare che sul Titanic i passeggeri della prima classe si salvarono al 60%, quelli della seconda al 40%, e quelli della terza al 25% come l’equipaggio. Ho tenuto e tengo da decenni rubriche di corrispondenza con i lettori e so che non bisogna mai sottovalutare né la loro preparazione né il loro implacabile ma esatto gusto per le minuzie.
14 luglio 2011
A DOMANDA RISPONDE
Ringrazio Pier Luigi Ronchetti per le parole affettuose, e saluto sua moglie che è all'origine di tutto il pezzo su "l'ispettore Barnaby". Per quel che riguarda gli altri post mi pare curiosa e significativa la testimonianza di Enrico, con precisazione finale sul "Theremin", che evoca i cortesissimi poliziotti inglesi. Mi riservo di rispondere al più presto ad "Anonimo" a proposito del "CSI". Sono anche io un fruitore abbastanza sistematico dei telefilm polizieschi americani, sin dal momento in cui comprai in America "Miami Vice", insieme a Fuscagni che dal canto suo aveva già comprato a suo tempo "Murder She Wrote", che in Italia si chiamò la "Signora in Giallo". Credo che una parte della grande tradizione poliziesca del cinema americano si sia da tempo parzialmente trasferita nella produzione televisiva. "CSI" ne è un esempio tipico, anche perchè il successo di questa serie iniziale, ambientata a Las Vegas, ha dato vita a due "Spin Off", quello di "Miami" e quello di "New York". Uno dei due ha avuto ed ha un successo ancora maggiore. Cercherò di approfondire il tema in una prossima occasione, avvertendo sin da adesso che tutte e tre le serie ,con un numero molto alto di interpreti, tendono a creare una certa confusione nella memoria dello spettatore, anche se i sistemi di analisi criminali conservano la loro fascinazione tecnica. Infine per quel che riguarda il problema del doppiaggio sollevato da "Anonimo (ms)" ho bisogno di spazio per una risposta approfondita. Si tenga conto del fatto che da 14 anni sono il direttore artistico del primo, e forse più importante, Festival Italiano appunto dedicato al doppiaggio ("Voci nell'Ombra"), e perciò mi sono molto occupato dell'argomento, dopo aver fatto larga esperienza in materia alla Rai. Chiarirò tutto nel mio prossimo intervento proprio su questo tema.
12 luglio 2011
MOVIOLA PERSONALE (ED ANCHE TELEVISIVA)
La moglie di Pier sarà senz'altro un bel mistero senza fine, ma in questo caso mi pare che non sia misteriosa per niente e che abbia ragione. Se è un argomento a favore faccio osservare che anche mia moglie guarda volentieri la serie, e credo che ci sia per questo una ragione fondata. Si tratta in effetti, fra quelle prodotte nell'ultimo quindicennio, di una delle migliori fiction poliziesche di origine inglese. Il suo successo è molto forte non solo in patria ma anche in moltissimi altri paesi dove è stata venduta: ad esempio in Canada, in Francia, in Israele, in Sud Africa, in Spagna, in Svezia, negli Stati Uniti e in molte nazioni dell America Latina. E interrompo qui un elenco ancora lunghissimo. Il che significa che la fascinazione in qualche modo avvertita dalle nostre mogli ha un ampio fondamento internazionale e rispecchia un moto assai diffuso dell'animo. di molti Quali possono esserne le ragioni? Innanzitutto il nitore tutto britannico della confezione e dell'ambientazione. Gli esterni sono infatti girati nelle contee inglesi del Berkshire, del Buckingamshire, dell'Hertfordshire, dell'Oxfordshire e del Surrey. In modo decisivo la serie campa proprio sull'impeccabile vocazione figurativa della campagna inglese: belle ville fra gli alberi, prati verdi in modo splendente, piccole case civettuole tenute con larga cura, strade solitarie ma curate sulle quali le automobili, che tengono rigorosamente la sinistra, scorrono veloci ma correttissime.
Al centro di tutte le vicen

Credo che valga la pena di precisare un particolare , di cui non sapevo nulla e del quale ho ritrovato i dati in Internet. Per la colonna sonora della serie, composta da Jim Parker , è stato utilizzato uno strumento curioso e da me insospettato

Questi alcuni dati essenziali sulla trasmissione. Quali sono i pregi e i difetti? Fra i primi senz'altro l'esattezza inglese della recitazione (secondo me gli attori britannici sono i migliori del mondo), il nitore dell'ambientazione già da me ricordato, la bellezza degli sfondi e l'esattezza, anche essa molto inglese, della sceneggiatura, in quella che è tutto sommato la patria di Conan Doyle e di Eric Ambler. I difetti sono quelli della serialità televisiva poliziesca di successo (si pensi alla "Signora in giallo"). E cioè l'ossessiva presenza di uno o più morti in ognuna delle puntate. Un paesino delizioso e le ville vicine sono ad ogni volta contraddistinte da almeno uno o più morti (un errore che Simenon probabilmente non avrebbe mai fatto in questa misura). Gli autori sono pertanto costretti a scandagliare continuamente famiglie aristocratiche e famiglie proletarie, tutte egualmente viziate da colpe profonde e nascoste. Probabilmente se la serie avesse avuto un carattere più agiatamente poliziesco e meno criminogeno ne avrebbe guadagnato in resa globale. Ma forse avrebbe scontentato milioni di spettatori...
11 luglio 2011
A DOMANDA RISPONDE
Rispondo volentieri ad "Anonimo" che mi chiede informazioni aggiornate su Arnaldo Bagnasco, che lui ha conosciuto come conduttore di "Mixer Cultura". Mi fa piacere farlo perché Arnaldo è una vecchia conoscenza, di cui ho seguito le diverse mutazioni come attore, sceneggiatore, programmista televisivo e, appunto, punto di riferimento di trasmissioni Tv (la domanda è originata dal fatto che nella sua intervista Giovanni Minoli cita "Mixer" fra gli infiniti titoli da lui inventati e lanciati nel piccolo schermo). Diciamo che Arnaldo Bagnasco è nato nel 1936 a Dernice, piccolo comune in provincia di Alessandria. In realtà si tratta di una delle tante località confinanti con la Liguria che da questa regione (si pensi a Novi Ligure) hanno tratto caratteristiche etno-linguistiche. Infatti Bagnasco è un cognome tipicamente legato alla nostra regione (se lei consulta in internet gens.labo.net vedrà che la zona di appartenenza è prevalentemente ligure con fitte intrusioni in Piemonte). Comunque Arnaldo si è svolto completamente a Genova iniziando una complessa carriera in cui, via via, ha indossato i panni scintillati delle diverse attività che ho sopra specificato.
Ha iniziato molto giovane come attore (credo che la prima recensione a lui dedicata sia stata la mia riguardante una interpretazione alla "Borsa di Arlecchino", piccolo teatro sperimentale reso celebre in Italia da Aldo "Dado" trionfo).Ha fatto parte della compagnia goliardica "Baistrocchi" (come Enzo Tortora e Paolo Villaggio), per il "Cut" genovese esordisce come protagonista nel "Caligola" di Camus. Dal 1962 al 1965 lavora nella compagnia dello Stabile di Genova ("Il Diavolo e il buon Dio" di Sartre, "Ciascuno a suo modo" di Pirandello, "Il processo di Savona" messo in scena da Paolo Giuranna). Dal 1966 al 1968 è regista stabile della compagnia di Tino Buazzelli. Qualche anno dopo entra in Rai come programmista- diventerà poi dirigente- collaborando poi a molti sceneggiati di successo dell'azienda, fra cui appunto "Mixer Cultura", "Aspettando...", "Tenera è la notte", "Palcoscenico", eccetera.
Da dirigente diventerà poi capo struttura di Rai Tre per la Liguria, e con la riforma che affidò alle sezioni regionali della Rai ampie competenze di produzione e programmazione (fui chiamato da Roma a comporre la giuria di Genova del concorso che l'azienda aveva indetto proprio per assumere nuovi programmisti per questa specifica necessità: al primo posto si classificò l'allora genovese Enrico Ghezzi). Come capo struttura Arnaldo lasciò una impronta importante nell' ultimo momento di autonomia di cui godettero le sedi regionali dell' azienda (mi ricordo che quando venivo da Roma mi faceva improvvisare dei soliloqui alla radio...). Andato in pensione Arnaldo fu il primo presidente della Fondazione del Palazzo Ducale di Genova, inaugurando una tradizione tuttora valida. Vale a dire che fu posto alla guida del nuovo Ente chiamato a prendere posto nell'antica e decaduta sede del Doge genovese, completamente rinnovata e riattata. Palazzo Ducale divenne perciò la maggior attrazione di piazza De Ferrari, che segna il centro della città. Ormai affermato come sede di importanti mostre d'arte, Palazzo Ducale è stato l'ultimo ma sicuramente non il meno importante dei molteplici risultati dell'esperienza artistica e professionale di Bagnasco. Proprio per rispondere compiutamente alla richiesta di "Anonimo" ho cercato Arnaldo sia al telefono di casa a Genova che a quello di campagna. Purtroppo non ho avuto risposte e non posso dare informazioni sullo stato attuale della sua salute. So che diverse volte, e in particolare due anni fa, ha attraversato difficili momenti, ma mi dicono i suoi amici che si è ripreso bene. Credo che siamo in molti a compiacercene. Divido con lui l'imbarazzante coesistenza con un anonimo, che credo sia un sociologo, e che viene spesso confuso con Arnaldo nelle informazioni in Google. E' quel che capita anche a me con il mio omonimo Claudio, giornalista e politico catanese vicino a Nichi Vendola, che a ribadire l'affinità formale è figlio di un giornalista, Giuseppe Fava, detto Pippo fondatore de "I Siciliani", ucciso, a quanto sembra, dalla mafia. Anche mio padre si chiamava Giuseppe Fava, detto Peppino, a ribadire una curiosa iterazione dell'omonimia. Per fortuna io ho la "G" che mi salva...!
