Blog - Crediti


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23 gennaio 2013

L'ENIGMA DI VITTORIO EMANUELE III VISTO DAL LEGIONARIO BOTTAI


Si può dire che è da tutta una vita che io mi interrogo su Vittorio Emanuele III (o almeno sin da quando, ragazzo, appresi la mattina del 26 Luglio 1943 della caduta di Mussolini). Personaggio assolutamente enigmatico il penultimo Re d'Italia (come è noto l'ultimo fu suo figlio Umberto, per poche settimane "Re di Maggio") stette sul trono 44 anni, se si guarda alla sostanza dei poteri, e 46 se ci si limita a un formale calcolo di competenze. Un periodo lunghissimo durante il quale egli fu tutto e il contrario di tutto. Salito al trono nel 1900 nell'onda clamorosa dell'assassinio di suo padre Umberto I, egli fu, sino all'ottobre del 1922 ovvero all'avvento del fascismo, un pignolissimo Re costituzionale, formalmente attento alle competenze degli organi deputati ed all'equilibrio dei partiti e dei poteri. Con il fascismo egli, pur sempre formalista, giorno per giorno cedette all'aggressivo movimento mussoliniano frammenti sempre più importanti di quella Costituzione elargita da suo nonno Carlo Alberto, sino ad arrivare a due firme tragicamente decisive: quella sulla legge che varò i provvedimenti cosiddetti razziali, vale a dire contro gli ebrei, e quella che autorizzò la catastrofica entrata in guerra del 1940. Nel primo caso Casa Savoia smentiva un atteggiamento molto esplicito al riguardo, visto che lo Statuto di Carlo Alberto aveva totalmente liberato gli ebrei piemontesi e addirittura concesso molti titoli nobiliari a molti israeliti. Nel secondo, prodotto di una dinastia squisitamente militare o militarizzata, Vittorio Emanuele sapeva benissimo di avere fra le mani un esercito profondamente inadatto a qualsivoglia atteggiamento offensivo e probabilmente mediocre anche all’ interno di una struttura propriamente difensiva. Anche in piena dittatura egli ricevette, sia dalla parte di civili che di militari, infinite richieste di non lasciarsi trascinare ad una dichiarazione di guerra che avrebbe travolto sia l’Italia che la Monarchia, come puntualmente avvenne. Al tempo stesso è fuori di dubbio che questo uomo cauto e diffidente, profondamente ulcerato dalla sua pochezza fisica, era anche una persona di larghissima cultura nozionistica, in grado di parlare correntemente diverse lingue ed in possesso di una massa impressionante di informazioni storiche e geografiche. Basti pensare che per commentare il “Corpus numorum italicorum”, in cui egli raccolse una straordinaria collezione numismatica, scrisse di suo pugno, per ogni moneta si badi, la storia della moneta stessa e del periodo in cui era stata concepita e fabbricata. Nulla era più lontano da lui della retorica pseudo-romana di cui si ammantò quasi furiosamente il Fascismo. La sopportò per due decenni sino a quando, in modo imperdonabilmente tardivo, egli entrò in scena per abbattere Mussolini, valendosi, con esplicito scrupolo formalistico, di una pronuncia di un organismo pur raramente riunito e consultato come il Gran Consiglio.
Insomma, su di lui non sono mai riuscito a farmi un’opinione decisa e decisiva. Il problema è sorto ancora una volta quando pochi giorni fa, e del tutto per caso, ho riletto il “Diario 1944-1948” di Giuseppe Bottai (1895-1959), pubblicato da Rizzoli nel 1988, a cura di Giordano Bruno Guerri. Anche Bottai è, seppur in altro modo, un personaggio inquietante: nato e cresciuto in una famiglia proletaria romana, mazziniana e sostanzialmente atea (ma, con la maturità divenne credente e osservante) studiò, andò in guerra a vent’anni diventando un Tenente degli Arditi varie volte decorato, si iscrisse nel 1919 al Fascio di Roma, ne divenne uno dei leader più moderati ma tuttavia intransigenti, e partecipò ora, da protagonista, ora da autorevole testimone, a tutta l’avventura del fascismo. Fu ministro delle Corporazioni, persuaso di dare alla dittatura un’esplicita coloritura “sociale”, fu governatore di Roma e di Addis Abeba, fu per sette anni Ministro dell’educazione Nazionale operando riforme notevoli, fra cui l’istituzione della scuola media che regge tuttora. E fu anche creatore di alcune riviste, fra cui “Primato”. In previsione della decisiva riunione del Gran Consiglio del Fascismo, nell’avanzato Luglio 1943, fu insieme all’altra personalità rilevante del Regime, Dino Grandi, l’effettivo ideatore di quella esplicita presa di posizione nei confronti di Mussolini, che per la verità quest’ultimo era venuto a conoscere prima del dibattito e che il dibattito non impedì (come è noto alla “congiura” aderì anche Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, il quale pagò con la vita, insieme ad altre quattro persone fra cui il Quadrumviro De Bono, l’aver dato un voto favorevole ad una mozione ufficialmente messa ai voti). Bottai fu un uomo sensibile, colto, dotato di notevoli doti letterarie, che tuttavia ebbe diverse colpe precise: fra l’altro accettò senza discutere le leggi razziali e come ministro le fece applicare severamente. E’ difficile capire come un uomo della sua sensibilità e della sua cultura possa aver fatto una cosa simile, mentre bisogna riconoscere che nel 1944, ricercato dai fascisti e dagli anti-fascisti, ebbe il coraggio di arruolarsi nella Legione Straniera e con il “chepì” bianco combatte poi contro i tedeschi sia in Francia che in Germania (per una curiosa combinazione egli prestò servizio nel I° Reggimento di Cavalleria della Legione stessa, cioè il famoso “Premier Étranger de Cavalerie”, già allora divenuto un reggimento carrista, che è stato ora il primo reparto francese ad intervenire in Mali nel corrente gennaio 2013). Il suo fu un gesto unico fra i tanti esponenti fascisti fuggiaschi, compiuto evidentemente per mettersi al sicuro durante la sua difficile sopravvivenza in Italia, ma anche come coraggiosa scelta nell’affrontare pericoli e rischi per punirsi dell’adesione che aveva dato alla fase finale del Fascismo. Sulla sua esperienza egli ci ha lasciato sigificative testimonianze (si pensi a “Legione è il mio nome”, che prende il titolo da un famoso avvenimento dei Vangeli) e, appunto un suo minuzioso diario che va dal 1935 al 1948. Ho trovato un brano da lui scritto mentre era legionario, il 2 Giugno 1946, in cui ci sono riflessioni varie sull’Italia e in particolare un ritratto, al tempo stesso toccante e spietato, proprio di Vittorio Emanuele III. La commossa violenza mentale e verbale di un testo di rara eleganza stilistica, a momenti quasi feroce ed a momenti quasi patetico, mi ha talmente colpito che ho deciso di proporlo ai lettori del Blog.

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Mussolini e il Re, che ora ha lasciato il trono, hanno avuto vent'anni di tempo per dare un nuovo assetto alla Monarchia, per creare monarchia del nuovo secolo, il quale, dicasi repubblicano o non, sarà, nel significato letterale del termine, "monarchico".
Unità di classe-unità di partito-unità di comando: ecco la triade unitaria del secolo. Una trinità ideologica e istituzionale, da incarna in un uomo. Incarnazione elettiva o incarnazione dinastica: alternativa, che un Paese senza tradizioni storiche monarchiche risolverà, senz'altro, a favore della prima istanza: ma che un Paese storicamente munito d'una dinastia, "può" risolvere a favore della seconda.
È di questa possibilità, di questa "chance", che il Re e Mussolini hanno saputo o voluto profittare. Il "voluto" riguarda il doppio-gioco che l'uno e l'altro s'illudevano di menare a proprio vantaggio; il "saputo" la loro comune impotenza a tirar conseguenze organiche da un'idea data. Empirismo personalistico, in Mussolini; scetticismo "costituzionale" in Vittorio Emanuele. Giocavano con un mazzo di carte nuove in cui fosse rimasta per caso una vecchia carta, lo statuto albertino, che falsava tutta la partita. Nessuno dei due poteva, con un trucco simile, rispettare le regole del nuovo gioco. Donde l'incapacità del ventennio a connettere in sistema gl'innumerevoli "motivi" felicemente intuiti, dal "fascio", quale nuovo organismo politico, al "sindacato" quale unitario strumento formativo d'un nuovo assetto sociale: per non ricordare che i due maggiori, intorno a cui tutto il sistema avrebbe po¬tuto "girare".
A Corte si rideva di tutto ciò. Il corporativismo, che, difeso da un Re antiveggente avrebbe, "costituzionalizzando" il Regime su una nuo¬va base di libertà, ridotto il potere esorbitante di Mussolini entro i li¬miti della sua stessa dottrina, il corporativismo, dico, era motivo di motti, di divertita curiosità. Nessuno dei consiglieri del Re gli mostrò che una concezione e una prassi di monarchia "corporativa" erano non meno perseguibili, che una concezione e una pratica di monarchia "so¬cialista", teorizzata in Italia da un Missiroli, e attuata nei Paesi del Nord-Europa.
Il torto del Re non fu d'accogliere il Fascismo. Egli intuiva la serie¬tà del fenomeno, che i cinque minuti di fuoco d'un Badoglio avrebbe¬ro, forse, deviato, nell'ottobre '22, da Roma, ma non estromesso dalla storia d'Italia. Il suo torto fu di subirlo senza amarlo, di sopportarlo senza comprenderlo, giovando più alle correnti torbide, ch'esso porta¬va in sè, che a una rettificazione costante, metodica, del suo corso. Si vide un Re "mussoliniano", pellegrinante a Predappio; non s'ebbe un Re "fascista", risalente al vero significato dell'intrapresa esperienza sto¬rica.
"Posso avere commesso degli errori", ha scritto nella lettera di con¬gedo al figlio. Ne ha commesso uno solo, costante: di non avere com¬preso la politica del suo lungo Regno. Nè socialismo, nè nazionalismo, nè democrazia cristiana, nè Fascismo hanno per un attimo interessato la sua intelligenza, pur grande e acuta, ma irretita in una vecchia trama di famiglia, nè il suo arido cuore.
Non ha nè capito, nè amato, fino a lordarsi le mani col sangue di Mussolini, ch'egli ha consegnato ai suoi assassini, dalla soglia stessa della sua casa. Errore umano, orribile; errore politico, imperdonabile, che era assumendo a viso aperto la responsabilità intiera del venten¬nio, ch'egli poteva presentarsi al tribunale della storia. Rispetto al giu¬dizio, che a questa spetta di pronunciare, non è un Re abdicatore, ma un Re contumace.
È con dolore che scrivo di lui queste righe. Venuto alla Monarchia da un vago mazzinianesimo giovanile (la prima volta che accompagnai Mussolini al Quirinale, nel 1921, portavo il cappello a larghe falde e la cravatta alla Lavallière, ch'erano, ancora in quei tempi, segni di di¬stinzione dei repubblicani), avevo imparato ad amare il piccolo Re.
L'uomo mi prendeva per quella sua desolata tristezza di nano, con quel suo acre sorriso sulla bocca, torta a dissimulare il lamento della fisica mortificazione, che il contatto con altri, sani e aitanti, sempre gli dava; con quel suo sguardo, che, di freddo e perspicace per natura, si faceva vago e spaurito ai nuovi approcci. Ogni comparsa sulla scena era per lui una scossa sgradevole. Aveva il "trac" dei commedianti, ma un trac lungo e penoso, che lo portava a recitar male la sua parte, con la voglia addosso di fuggir tra le quinte.
Nulla in lui di "sovrano", ma anzi, di sottomesso, d'umiliato; e, quindi, di rivoltoso. Legittimo rampollo della più antica dinastia d'Europa, occupava il suo seggio con l'aria d'un usurpatore, che ha da farsi perdonare. Sospettoso, e impotente a sostentare i suoi sospetti, v'era sempre nella sua cortesia un che di forzato, di stento. La sua celebrata "semplicità" era, chi l'intendeva, piena di sdegno: la sua "famigliarità" d'ombrosa gelosia formale. (Ricordo il furore da caporale, con cui, ai funerali di sua madre, redarguì un malcapitato ufficialetto che, inavvertitamente, gli era passato innanzi senza, così piccino, vederlo. Quella minima occasione faceva esplodere il suo orgoglio coni presso e misconosciuto.)
Più che il Re, s'amava in lui, a penetrar questo suo dramma interiore, la creatura umana, povera e nuda, con le sue gambine atrofiche di continuo dondolanti dagli alti scanni a lei riservati o arrancante per scalèe e festivi tappeti; col suo busto troppo lungo, duro come fosse ingessato; con le sue pallide mani dalle unghie rosicchiate: con il suo volto rugoso di tartaruga centenaria; con quella sua voce, soprattutto, in falsetto, roca e rompente in cigolìi di ruggine su vecchie molle, tremolante e pietosa, implorante. Bisognava entrare in questo suo gioco, per simpatizzare con un essere simile.
Era, allora, una delizia sentirlo dire: "mio padre", di Umberto I, "mio nonno", di Vittorio Emanuele II: "mia moglie", della Regina; "i miei nipoti": e via via. I borghesi se n'estasiavano: "parla come noi", commentando; non avvertivano quanto quella "famigliarità" stesse, a punto, a ribadire la supremazia della famiglia. E il valore della sua intelligenza, quella frase a intercalare, nelle sue conversazioni: "Già, perché io non capisco", o "non me n'intendo", o "lei capisce meglio di me" e il pregio della sua modestia, quel suo accogliervi alla buona per mostrarvi le sue monete con un fare d'antiquario.
Tutto questo stile dimesso e prezioso m'interessava, mi piaceva, suscitava in me un genuino affetto per l'uomo. Mi riposava di Mussolini che stava sempre sul leone.






1 commento:

Rosellina Mariani ha detto...

Grazie per questo bellissimo articolo che ,come al solito,riflette la tua grande cultura e la tua perfettta scrittura.
Bottai è un personaggio che mi ha molto incuriosito ai tempi dell'Università. Mi laureai in Storia e Filosofia con il Prof. Renzo De Felice discutendo una tesi : " Gli intellettuali italiani di fronte al fascismo"e durante la preparazione della tesi ( in parte pubblicata) consultai, all'Archivio di Stato di Roma molti numeri della rivista
" Primato" e mi colpì molto questa dualità della figura di Bottai : un'onestà intellettuale , oserei dire, una cultura raffinata ( come dici tu) unita a delle scelte balorde.Ma di fronte a tanti voltagabbana onore al merito di chi riconosce i propri errori!
Grazie ancora e grazie anche ad Elena