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17 gennaio 2008

Alfredo il Grande

Stamane stavo controllando i cinematografi della mia città proprio per individuare un film a cui dedicare la settimanale rubrica del “clandestino” in “Emme - Modena Mondo” (ndr. la rubrica prende il nome da un libro autobiografico di Fava intitolato appunto "Clandestino in galleria"). Per una volta avevo perfino l’imbarazzo della scelta: optare per “La promessa dell’assassino” di David Cronenberg, regista compiaciutamente violento adorato dalla critica alla moda, o indulgere ai richiami etno-autobiografici del tunisino francesizzato Abdellatif Kechiche in “Cous Cous”? Curvarsi sulle mescolanze di perbenismo razziale di Cristina Comencini in “Bianco e nero” o farsi sedurre dalla femminile furberia libanese di Nadine Labari in “Caramel”? Meglio lo snobismo erotico-spionistico di Ang Lee, perduto fra ammiccamenti a Mao ed al Kuomintang in “Lussuria”, o la esplicita vocazione plebeo-ruspante di Lino Banfi all’interno de “L’allenatore nel pallone 2”? Nell’attimo della decisione hanno suonato alla porta ed è giunto una busta del “Saggiatore” con un esemplare de ”Il cinema secondo Hitchcok” di François Truffaut. (un gentile omaggio, confesso; ne ricevo ancora abbastanza in virtù di passate glorie e di supposte benemerenze. Ma è qualcosa di più della riconoscenza che mi spinge a scrivere queste righe).
Si tratta della famosa intervista – “Le cinéma selon Hitchcok” - che nel 1966 rivoluzionò i libri di similare testimonianza. Fornendo uno straordinario strumento di devota illustrazione dell’opera di “Hitch” ed al tempo stesso assicurando a Truffaut un posto di tutto riguardo nella storiografia cinematografica. E’ una edizione speciale, ricca di uno splendido corredo fotografico, appena stampata (gennaio 2008) in occasione del 50° anniversario della fondazione della casa editrice ad opera del geniale, e credo disordinato Alberto Mondadori, figlio ribelle di Arnoldo. E naturalmente integrata del materiale necessario per giungere sino alla faticata morte di Hithcock (avvenuta nel 1980, il grande regista aveva 81 anni) ed a quella di Truffaut avvenuta nel 1984, quando questi aveva soltanto 52 anni e presumibilmente nutriva la possibilità di darci ancora tante manifestazioni dl suo talento.
Visto il libro ho telefonato al direttore Ronchetti e gli ho chiesto il permesso di parlarne invece di recensire un film a scelta. Ci sono dei debiti che non si finisce mai di pagare. E i miei debiti con “Hitch” e Truffaut sono infiniti e, se così posso dire, calorosi.
Dire come ho amato istintivamente Hitchcok - almeno da “L’ombra del dubbio”, che è del 1943 e che noi vedemmo nell’immediato dopoguerra- significherebbe riproporre buona parte della mia vita di cinespettatore al di là di ogni problema di spazio (un numero intero della rivista? Forse non basterebbe). Ancor oggi mi ricordo del cinema genovese, ormai scomparso, dove vidi “L’uomo che sapeva troppo” col famoso colpo di timpani in teatro al momento dell’assassinio o il piacere infantile che provai alla serata conclusiva della Mostra di Venezia 1959 quando venne proiettato l’inedito e ignoto “North by Northwest”..
E per ciò che riguarda Truffaut, al di là di un lunga frequentazione dei suoi film e dei suoi scritti, mi rimangono tre ricordi forti. Una lunga intervista televisiva che gli feci per “Dolly” in un grande albergo romano (non l’ho mai ritrovata). Il ricordo di un pranzo affascinante a Firenze con lui e Fanny Ardant. Tre ore di intervista e di traduzione simultanea in occasione di un incontro di Truffaut con la critica romana al “Leuto”.
Sono gran bei ricordi, in una vita banale.
(da "Clandestino in galleria", "Emme - Modena Mondo", n. 49 del 23 Gennaio 2008)

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