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30 luglio 2008

IL SORRISO DEL GRANDE TENTATORE



In occasione della retrospettiva dedicata a Tullio Kezich, durante la XIX Edizione del Trieste Film Festival (17/24 Gennaio 2008), l'Università degli Studi di Trieste (Facoltà di Scienza della Formazione, Dipartimento di Scienze Geografiche e Storiche) in collaborazione con l'Associazione Culturale "Cinemazero" di Pordenone, ha pubblicato nel 2007 presso la casa editrice Kaplan un ampio volume, 416 pagine, intitolato "Tullio Kezich, il mestiere della scrittura" (la copertina è riprodotta qui a fianco). Il volume contiene ricordi e testimonianze di molti colleghi e studiosi di cinema, alcuni dei quali sono anche vecchi amici (Nuccio Lodato, Callisto Cosulich, Morando Morandini, Ermanno Olmi, eccetera). E più largamente, molto materiale di diverso genere per contribuire ad un ampio ritratto di Tullio, della Trieste, della Milano e della Roma in cui si è esplicato, e delle persone che lo hanno incontrato, frequentato e apprezzato durante la sua tumultuosa carriera di critico, di commediografo, di giornalista e anche di produttore. Io ho scritto un brano in cui ricordavo gli anni passati con lui e con altri amici, durante la Mostra di Venezia, in un piccolo albergo periferico del Lido, "Il sorriso" . Ecco il perchè del titolo "Il sorriso del grande tentatore" (che è un film di Damiano Damiani del 1974 con Glenda Jackson, Claudio Cassinelli, Arnoldò Foà, eccetera: non c'entra niente con Tullio, ma non sono riuscito a resistere al gioco di parole).
Il pezzo da me scritto, vale quello che vale, probabilmente non molto, ma è una ricostruzione sincera di un "nido di critici gentiluomini" alla Mostra fine anni '50 e io mi lascio andare a piccoli cedimenti letterari. I curatori del volume (credo in particolare Riccardo Costantini) hanno operato diversi tagli sul testo. Ed io per antica disciplina redazionale mi sono limitato a prenderne atto. Ho deciso, tuttavia, di ripubblicare qui la versione integrale per rispetto dei tempi trascorsi e per antico affetto per Tullio.


Tutto, o quasi tutto, cominciò di lì. Dalla Mostra di Venezia del 1959. Professionalmente c’ero già stato l’anno prima ma volevo cambiare albergo, sicché fu una vecchia conoscenza genovese, Claudio Bertieri, a condurmi in quello dove soggiornava abitualmente al Lido. Era anonimo e modesto ma a suo modo efficiente, si chiamava “Sorriso” ed era situato a notevole distanza dal Palazzo del Cinema, in un attonito quartiere di case “Incis” (ricordo il nome ma ignoro a quale misterioso Ente parastatale facesse riferimento) proprio a fianco dell’utile capolinea della filovia – che, almeno allora, passando davanti al Palazzo del Cinema e poi nel Gran Viale, proseguiva via via sino all’imbarcadero di Santa Maria Elisabetta - e subito di fronte al Galoppatoio. Il quale, durante la Mostra si mutava annualmente per diversi giorni, non so perché ed a causa di quale misteriosa e furibonda competizione, in un rumorosissimo tiro a segno, che contagiava i nostri pomeriggi di lavoro – in genere trascorsi in camera a battere furiosamente a macchina - con una rabbiosa colonna sonora da film di guerra di serie B.
Il “Sorriso” della fine degli anni ’50, era un piccolo, periferico mondo veneto di Mestre traslocato al Lido agli ordini ferrei della proprietaria, fattivo personaggio post-goldoniano che aveva anche un nome parateatrale. Si chiamava infatti Genesia (la “siora Genesia” per antonomasia) e regnava con indiscussa autorità su un trepido gruppuscolo di disciplinate inservienti-cameriere-cuoche, genericamente indicate come “le fie” (in veneto, come “filles”in francese, significa sia le figlie che le ragazze). Su di esse ovviamente incombeva, durante le due settimane della Mostra, l’obbligo di occuparsi a fondo di quelli che la signora Genesia, per distinguerci dalla plebe, chiamava con rispetto sanitario “i dotori”, vale a dire i giornalisti convenuti al Lido per la Mostra. Giusto per separarli socialmente dalla clientela plebea che modestamente vi si adunava in luglio e agosto per fare i bagni nella spiaggia dell’albergo, defilata in estrema prosecuzione di quelle importanti, a cominciar dalla più importante di tutte: quella dell’”Excelsior”. Clientela che poi in settembre subitamente scompariva, travolta dal mutare della stagione e dall’inizio della Mostra ma ancor più dalla nostra palese superiorità sociologica. Per la verità c’era una eccezione alla tirannica mitologia della Mostra che imperava in albergo per due settimane: saltuariamente giungevano in albergo, del tutto indifferenti alla storia del cinema, anche scoraggianti scolaresche inglesi, capeggiate da slavati insegnanti scialbamente distratti e composte in maggioranza da ragazze di periferia, rapidamente guatate in strada da torvi giovinastri del Lido, le quali, appena arrivate, già piangevano, affacciate alle finestre con in capo buffi cappelli coloniali da gondoliere immaginario. Non lo sapevamo ma era il tramonto dell’Inghilterra di “Camera con vista”, particolare socio-letterario che tuttavia non scalfiva la nostra arcigna superiorità culturale.
Nel corso degli anni e delle Mostre il nucleo trainante dei “dotori” si impose comunque, dando vita ad una sorta di club di soci fondatori: c’erano naturalmente, oltre a me con mia moglie Elena, Bertieri, Tullio Kezich e Lalla con Giovanni piccolo e geniale, Callisto Cosulich, personaggio fondamentale nella vita professionale di Tullio, con Oscar bambino e la cara Lucia (née Rissone, per cui un anno venne anche, mi ricordo, la sua prima cugina Emy De Sica, figlia di Vittorio e di Giuditta, e l’allora suo marito Peter Baldwin, quello di “Era notte a Roma”). E naturalmente il già autorevole e sempre sagace Morando Morandini con Laura, Luisa e Lia. Ne facevano più pallidamente parte anche altri: ad esempio Edoardo Bruno, già allora alle prese con “Filmcritica”. Poi il favoloso oriundo genovese José Maria Podestà, per decenni addetto culturale dell’Ambasciata dell’Uruguay a Roma, intrepido “cinéphile”, che, nei tardi anni ’20, studente a Berlino, se ne era andato a Mosca per controllare de visu il cinema di Eizenstejn e Pudovkin. E, ancora, il sottile amico francese da tempo scomparso, Marcel Tariol, professore universitario a Tolosa e fondatore delle “Rencontres Cinématographiques de Prades”. E Maurizio Del Ministro, arrivato da giovanissimo studente universitario (“..Sono allievo di Binni…”), che a tavola parlava contemporaneamente con tutti, proiettando intorno a sé una toccante felicità cinematografica, toscanamente loquace e cinefilmente esplosiva (le bambine di Morando, per via della partecipe magrezza e del sorriso intensamente agitato, lo chiamavano Jerry Lewis).
Ma in fondo eravamo noi, i primi che ho citato, a dare il tono all’istituzione. Fra gli altri Tullio ed io – pur consapevoli delle quiete ma divaricanti impronte ideologiche palesi in ciascuno dei due – eravamo uniti da una gran passione comune per quel che non si chiamava ancora correntemente “cinema di genere”, ma che splendidamente esisteva da decenni. E in particolare dal western che aveva segnato la nostra adolescenza – un anno di distanza nelle date di nascita ci rendeva di fatto coetanei – lasciandoci, secondo le caratteristiche di ognuno, indelebili tracce sentimentali. Una volta parlavamo appunto del “nostro” genere e Tullio mi disse - probabilmente lo avrà subito dimenticato ma io lo ricordo invece con la nitidezza bizzarra delle memorie “d’antan”- che nella sua casa di Milano aveva un grande armadio “dedicato solo a Ford, e tutto quel che comprava e che riguardava il regista lo gettava lì dentro”.
Di quell’armadio – lo avrà poi portato di peso a Roma ? – non solo non mi sono mai dimenticato ma queste righe nascono proprio dalla robusta presenza romanzesca di quel ricordo.
Riporto in allegato la esauriente bibliografia cinematografica di Kezich, così come mi è stata cortesemente fornita da Riccardo Costantini. Mi limiterò a citarne direttamente una parte, riallacciandomi qui subito, giusto per restare in argomento Ford, a due pubblicazioni tipiche di Tullio. Ovvero la monografia sul regista, apparsa nel 1958 per il parmense Guanda, e la circostanziata analisi di “Ombre rosse” pubblicata dieci anni dopo, nel dicembre 1968, nella ottima collana padovana “I Radar”.
Il primo testo fa parte della collana “Piccola biblioteca del cinema” diretta da Guido Aristarco - che comprende, fra l’altro, anche un “Clouzot” di Pietrino Bianchi, un “Rossellini” di Massimo Mida, un “Billy Wilder” di Oreste Del Buono, giusto per citare qualche libro di vecchie conoscenze – e risale presumibilmente al periodo milanese in cui Tullio fu caporedattore di “Cinema Nuovo” prima di liberarsi dalla presenza assorbente proprio di Aristarco. Il quale, come è noto, esercitò, per molti anni, una sorta di intransigente protettorato ideologico su quell’ampia selezione della critica cinematografica italiana che si collocava quasi automaticamente a sinistra (dallo stesso Tullio a Guido Fink ad Adelio Ferrero furono in tanti gli autori di talento ad uscire man mano dalla sua esigente curatela). In effetti va detto che il fordismo istintivo di Kezich è qui apertamente temperato da una serie di riserve che testimoniano di una perplessità tipica del momento storico ma anche del personale cammino, umano e critico, di Tullio. Il libricino inizia addirittura con un brano quasi addolorato: “Nel cinema non c’è forse, in questo momento,un regista più vecchio di John Ford. Non parliamo, s’intende, in termini di anagrafe:(in nota c’è un rinvio ai dati sulla autentica identità del regista - Sean Aloysius Feeney o anche O’Fienne e O’Fearna- e sul vero anno di nascita, 1890 o 1895, allora in discussione- n.d.r.) la vecchiaia di Ford è quella degli autori che sono arrivati lentamente a vivere fuori del proprio tempo, o almeno lontani dai sussulti della cronaca. Dobbiamo aggiungere che la nostra simpatia va per istinto agli altri, agli autori che vivono da contemporanei, che avvertono e sottolineano per noi le vibrazioni più segrete del costume attuale, che sanno addirittura farsi anticipatori di una realtà destinata a realizzarsi storicamente nel futuro. Ford, invece, appartiene a una razza diversa. E’ fra quelli che lavorano appartati, chiusi in una solitudine senza finestre, martellando incessantemente i propri temi e verificandone la consistenza con un metro tutto personale. Vede soltanto ciò che desidera vedere: per lui un romanzo non sarà mai lo specchio fedele della realtà di cui parlava Stendhal”.(……) “Per misurare la distanza che separa l’autore di “Sentieri selvaggi” (un film che forse Kezich non ha mai completamente amato mentre è diventato un “cult” per molti critici delle generazioni successive – n.d.r.) dai suoi contemporanei basta pensare alle opere recenti dei maggiori registi di Hollywood. Molti veterani, da Wyler a Stevens, da Cukor a Hawks, hanno sentito la necessità di una revisione della propria “poetica”: ciascuno in una direzione particolare, ma tutti insieme partecipi di una atmosfera rinnovata. Hollywood, cinta d’assedio dai mille diavoli del maccartismo e della televisione, si è venuta lentamente orientando, con molte contraddizioni e infiniti dietrofront, verso una produzione più meditata e intelligente, che accetta la misura della realtà”.(…..) “Da almeno 10 anni”, egli continua, pur non avendo “uno sviluppo né lineare né costante la storia del cinema americano porta i nomi di Huston, di Zinnemann, di Rossen, di Mankiewicz, di Wise, di Robson, di Brooks, di Dmytryk: tutti più o meno debitori del vulcanico, e troppo presto giubilato, Orson Welles”. . ……………
Seguono altre considerazioni, come dire, d’epoca. Sarebbe interessante ricopiare ancora molte pagine del testo di Tullio ma non vorrei dilungarmi troppo di fronte alla massa delle cose da dire (e non è detto che io riesca a dirle tutte). Egli aggiunge poi nomi, “ancor più interessanti”, come Robert Aldrich, Elia Kazan, Nicholas Ray… tipico risvolto dell’appassionato che teme sempre di essere disilluso dal suo idolo, e cerca di dimenticare. In realtà a quasi cinquanta anni di distanza ci rendiamo conto che i valori su cui era costruito il composto mondo poetico, umano, sociale e in certo modo politico, di Ford erano meno precari di quanto Tullio non avesse allora la sensazione, credo fuggevole, di proclamare. E che ognuno degli autori da lui citati – alcuni dei quali, si badi, da Brooks a Mankiewicz, da Zinneman a Wise, sono carissimi al mio cuore - ha poi finito con l’atteggiarsi al suo fianco come in uno stemma nobiliare, in qualche modo completando e integrando, ma non smentendo, la sua grande lezione narrativa.
Non è possibile analizzare qui minutamente il testo in cui, comunque, di fronte alle numerose riserve su questa o quella parte del grande corpus fordiano, si avverte la passione di Kezich per un’opera che ha comunque profondamente influenzato alcune generazioni ed ha modellato il loro intero atteggiamento verso il western. E non solo.
L’analisi della trama di “Ombre rosse” costituisce la parte iniziale (20 pagine effettive) dell’utile volumetto, prima ricordato, della padovana Radar dedicata al film ed al regista, mentre la seconda parte (21 pagine) è costituita da un altrettanto utile capitoletto intitolato “Capire il film” e seguito infine da 11 pagine dedicate al regista. Oltre che da finali dati filmografici, bibliografici, eccetera. Direi che si tratta di un’ operetta, quasi dimenticata e tuttavia utilissima per valutare esattamente Ford ed insieme a lui Tullio Kezich come appassionato di cinema e di western. Chi è del mestiere e sa che una delle cose più difficili della critica cinematografica è in realtà l’esatto, minuzioso (e insieme il più possibile stringato) riassunto della trama di un film, troverà nella parte iniziale un’utile lezione di tecnica. C’è tutto l’utile e l’indispensabile. E di più, anche. Si pensi allo scrupolo di Tullio che indica nella colonna sonora anche i prevalenti momenti musicali. All’inizio quando compare la diligenza - precisa Tullio: è del tipo Concord della Overland Stage Lines gestita dalla famosa Wells Fargo, che, aggiungo io, esiste tuttora – la canzone che l’accompagna, e per tutto il viaggio, è “Trail To Mexico”. Quando Doc e Dallas (Thomas Mitchell e Claire Trevor) vengono pubblicamente scacciati dal paese la musica li accompagna ironicamente al suono dell’inno religioso “Shall We Gather at the River ?” (Ci riuniremo sul fiume ?). Ad Apache Wells, dove la diligenza fa tappa –i soldati se ne sono andati –il capo stabbio Chris (Chris Pin Martin) ha una moglie Chiricaua, Yakima (Elvira Rios), che canterà una canzone messicana. Nella parte finale, sotto l’attacco dei pellerossa, quando l’ex-gentiluomo sudista Hatfield (l’impeccabile John Carradine), per impedirle di cadere viva nelle mani degli “indiani”, sta per uccidere Lucy Mallory (Louise Platt), figlia del suo ex-comandante di reggimento, ecco udirsi un lontano clangore:….” Sentite, è la tromba dei soldati che suona la carica…” e da quel momento la colonna sonora darà largo spazio al “vecchio inno nordista The Battle Cry of Freedom (Il grido di battaglia della Libertà ) di George Frederick Root” . Ovviamente la parte più sottile è la seconda, “Capire il film” ove “Stagecoach” viene scomposto e analizzato nella sue componenti stilistiche e narrative (sia detto incidentalmente, nessuno fa mai cenno della tradizionale, quieta povertà dei titoli originali americani: confrontate questo, estremamente riduttivo, del film di Ford con la drammaticità cromatico-etnica di quello italiano o la retorica approssimazione del titolo francese, “la Chevauchée fantastique”, e il raffronto diventa esplosivo). Fra le mille notazioni del testo vi è, a riprova delle inquieta curiosità di Tullio, un richiamo del famoso romanzo di Budd Schulberg “Dove corri Sammy ?” (1941) ove un tipico personaggio hollywoodiano dice….”Conosco un tale che, solo pochi giorni fa, ha ricavato una bella sommetta di denaro da una novella di Maupassant. E tutto il disturbo che ha dovuto prendersi è stato di trasformare un cocchio francese in una diligenza del Far West”. Come si vede l’antica teoria che lo sceneggiatore Ernest Haycox avesse preso ispirazione e personaggi da “Boule de suif” di Maupassant si ripresenta puntuale. Qui non ho spazio per un dettagliato confronto dei testi. Mi limito a ricordare che chi voglia farlo per conto proprio e disponga di un computer, è sufficiente che batta i due titoli – “Stage to Lordsburg” e “Boule de suif” –e potrà disporre dei due originali, nelle rispettive lingue e mi sembra di capire liberi da diritti.
Lasciamo stare “Stagecoach” e lo stesso Ford – da cui, in fondo, nè Tullio nè io riusciamo mai completamente a prescindere- e passiamo al tema più ampio del western. Anzi del “western maggiorenne” come si intitolava un suo libro pubblicato verso la fine del 1953 dall’ editore triestino, Floriano Zigiotti. Il titolo – tratto da un articolo premonitore dello stesso Tullio, apparso in “Cinema”, nuova serie, del 15 luglio 1950- è diventato rapidamente il simbolo stesso di un nuovo modo postbellico di considerare all’epoca il western; più sottile, articolato, storiograficamente e sociologicamente consapevole quale si affacciò allora nel cammino della critica italiana più attenta e che in quegli stessi anni ‘50 trovò eco mondiale grazie alla critica francese, da Andrè Bazin a Jean Mitry. In realtà è una antologia, dove il curatore Kezich firma un brano (ovviamente su John Ford) e ne sigla un altro, “Parata d’eroi”, divertito riassunto di tutte le grandi e semigrandi figure che abbiamo imparato a conoscere nei film, da Buffalo Bill a Billy the Kid, dal generale Custer a Calamity Jane, da Wild Bill Hicock a Wyatt Earp e via variando; personaggi rutilanti, spesso strappati al mito e ricollocati nella storia. Ma ove tutto il resto è opera di collaboratori, sovente di gran valore, da Renzo Renzi al fedele Callisto, da Giulio Cesare Castello a Oreste del Buono e Roberto Leydi sino al prezioso e ormai dimenticatissimo Tino Ranieri, il terzo triestino del gruppo.
Libro d’epoca in molte parti assai utile anche oggi, così come lo è “Il mito del Far West” inizialmente apparso da Bulzoni nel 1975 (prefazione del 22 settembre 1974) all’interno di una collana diretta da un grande nome d’epoca, Luigi Chiarini “affettuoso promotore del libro” (dal 1963 al 1968 Chiarini fu direttore della Mostra di Venezia, con Tullio membro della Commissione di Selezione). Costituito da una antologia di scritti di Kezich in buona parte editi, di cui naturalmente è indicata l’origine, - il capitolo “L’epopea e la pietà” è addirittura l’ampliamento del libretto di Guanda su Ford di cui ho parlato prima - e in piccola parte inediti, è stato poi ripubblicato dal Formichiere nel 1980, con una prefazione da Asiago del 3 gennaio. E’ una edizione ovviamente ampliata con materiale tratto dalla “Settimana Incom”, dalla “Repubblica” e da quello preparato per l’Ufficio Stampa Rai in occasione di cicli di film western trasmessi a cura di Kezich su Raidue sino al 1980. Vale a dire l’anno prima che io passassi alla seconda Rete proprio come capostruttura di tutta la fiction d’acquisto in seguito alle richieste dell’allora Direttore Pio De Berti Gambini, polesano cresciuto a Trieste che quando era a Milano aveva aiutato “Tullietto”, come lo chiamava, a farsi assumere in Rai .Il mondo è piccolo.
Per concludere l’amplissimo discorso su Kezich e il western - che esigerebbe un libro intero - ancora due notazioni. L’una che riguarda il complesso rapporto quasi doloroso con lo “spaghetti” western: tutta la nostra generazione fu, almeno inizialmente, ulcerata dall’idea che il genere prediletto venisse traumaticamente strappato alla sua nativa matrice e ferocemente trapiantato in un mercenario utero germanico-italo-spagnolo. Costretto pertanto a scegliere, cosa praticamente impossibile, fra analisi e recensioni sul tema disseminate da Tullio nel corso di una sessantennale carriera professionale, mi limiterò a citare due piccoli frammenti. Un pezzo mirabile del 31 agosto 2007, “La faccia americana di Sergio Leone” (Corriere della Sera - Il Lido di Kezich) in cui vien fuori un affettuoso ritratto del regista - per la verità persona di grande simpatia, sono stato due volte in Giuria con lui e so di che cosa parlo - ed una ferma condanna del cinema che questi aveva generato (“…devo confessare che i suoi film non mi sono mai piaciuti in quanto prevedevo che tagliando il cordone ombelicale con la storia della Frontiera, enfatizzando il manierismo, e aumentando la violenza avrebbero ammazzato un filone glorioso. Il che accadde puntualmente..”). E la divertente intervista a Tullio pubblicata il 24 settembre 2007 in internet da “Grandi e associati” in cui si ricorda la scelta dei 28 film della sua vita, elencati a”N’demo in cine” di Lindau a cura di Toffetti. Fra molti titoli famosissimi ve ne è anche uno inatteso e cioè “L’ispiratrice” (The Great Man’s Lady, 1942) di un regista che tutti abbiamo amato, William A. Wellman, ma che qui figura perché è il primo film recensito da Tullio, il 2 agosto 1946, ai microfoni di Radio Trieste. Si svolge, è vero, nel West ma involontariamente ribadisce la fedeltà ai miti di Kezich, uomo di confini tornato alle radici della sua triestinità diventando commediografo dialettale in età adulta.
Un destino complesso che sembra quasi di indovinare, sotto un fez d’epoca, nella faccia volitiva del riluttante balilla Kezich pubblicata nella copertina del “Campeggio di Duttigliano”. E’ “Tullietto” che da una Frontiera guarda un’altra Frontiera………

2 commenti:

Anonimo ha detto...

quello che stavo cercando, grazie

Anonimo ha detto...

Si, probabilmente lo e